I dolci li ordiniamo alla fine

di Pierluca D’Antuono

I cani si rincorrevano disegnando per terra traiettorie di polvere che conducevano alla fontana o sotto la grande quercia, davanti al parcheggio, dove si fermavano d’improvviso, sdrucciolando come vecchie gomme bruciate e fissando spauriti un punto invisibile nell’aria; lì, con le orecchie tese e la bocca spalancata, il più veloce s’acquattava sotto la coda del più smarrito e gli infilava, come in una presa, il suo lungo muso eccitato, che dava smalto allo slancio per l’ennesima sgroppata, lungo le stesse trame polverose di prima.
Acciambellato in disparte, un cane nero allungava il collo tra i listoni divelti di una panchina marcita, srotolando la lingua in una busta di carta marrone che sapeva di cibo. Ogni volta che il suo muso, come una gemma, fioriva tra le sbarre arrugginite, una mano lo stringeva con forza fino a farlo lacrimare, in una morsa fredda e pelosa da cui il cane si liberava a fatica. Subito dopo ci riprovava, girando attorno alla panchina, ma l’uomo era più furbo e anche più veloce: nascose la busta sotto il cappotto e gli franò addosso con un balzo prima di scomparire tra le nebbie oscure del parco.
In direzione opposta, una scia di odori intensi condusse il cane davanti a un ristorante ancora aperto. Di fronte alla vetrina Leggi il resto dell’articolo

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