marzo 2, 2010
di scrittoriprecari
Mi sto svegliando.
Le palpebre ancora incollate e tra i miei occhi e il buio, galleggianti chiazze color muco.
Chiazze informi, che nell’aprirsi lento degli occhi si dissolvono sulla parete a cui mi ritrovo appiccicato.
Sento bagnaticcio tra le gambe, la mamma me l’aveva detto di starci attento ai sogni sporchi.
Mi devo alzare. Il letto è incastrato in un angolo della stanza e adesso pure io con lui.
Mi alzo e osservo l’impronta del corpo impressa calda sul materasso.
All’altro lato della stanza c’è una scrivania.
Appese al muro, penzolano storte alcune fotografie.
In quella più a destra ci sei Tu. Sei in sella ad un cavallo al pascolo, probabilmente nel giardino della villa.
La osservo. Il tuo sguardo non è sereno; eppure sono sicuro che in quella foto, qualche giorno fa, Tu sorridessi e sono altrettanto convinto che il cavallo fosse leggermente più sulla destra, circa all’altezza della quercia e il suo muso fosse puntato in mia direzione.
Un caffè già zuccherato aspetta caldo nella tazza color crema sul comodino, due brioches, appoggiate su un piatto in tinta con la tazzina, una è già smangiucchiata; un’altra tazza è sulla scrivania, già svuotata, già fredda.
Non filtra luce dalle imposte, filtrano solo i suoni e gli odori dal giardino.
Sulla scrivania è appoggiata la lettera che sto tentando di scriverti; anche durante questa notte è avanzata di qualche altra riga, brevi tracce dei sogni di stanotte, che però adesso non ricordo.
E’ la lettera che se li ricorda per me.
E quando al tuo ritorno la troverai, ne sarai felice.
Io lo so bene quanto ti piaccia trovare le mie lettere.
Una volta presa dalla cassetta, già ti vedo correre sul letto e poi a gambe incrociate con la schiena appoggiata alle parete le apri e ti immergi nelle mie tante tante righe, come se il mondo al di fuori di questa camera non esistesse.
Ti ho sempre immaginato tanto felice e talmente impressionata dalla bellezza delle mie lettere. Talmente emozionata al punto di non trovare mai le parole giuste per rispondermi.
Una mappa geografica dell’Europa è appesa vicino la finestra, mi ricorda quella che c’era nella nostra classe, quando eravamo vicini di banco.
Questa ha tante puntine che segnano altrettante località,
Puntine dello stesso color giallo, ma c’è ne è una nuova, color malva.
Devo essermi distratto, ma non ricordo quando tu sia andata a Malta.
Ricordo ogni tua partenza e ogni tuo ritorno almeno fino al viaggio di nozze.
Circa ogni ora bussano alla porta, io non rispondo mai; in fondo non è camera mia e non è educato, poi da sotto l’uscio sfilano foglietti tutti uguali; 10 x 15 circa, scritti a penna o matita o pennarello. Li raccolgo, neanche li leggo: non sono per me, saranno di qualcuno che è venuto a disturbarti. Allora li accartoccio e li butto nel cestino: stasera sarà poi colmo raso.
Così era pieno ieri sera. Eccolo li nell’angolo; stamattina è lì vuoto e sotto l’uscio compare il primo messaggio.
Non filtra alcun raggio di sole dalle persiane, ma fuori sento vociare di gente; i tuoi fratelli che giocano nella piscina.
Chissà se nel prato del giardino passeggia il cavallo della foto; deve esserci da qualche parte, di sicuro non nella posizione della foto, ma per forza deve esserci; tu dove potresti essere altrimenti?
Sicuramente non li
Quella quercia non ti era mai piaciuta poi. Ricordo il giorno che sono venuto per la prima volta a trovarti: stavamo giocando proprio attorno a quel bellissimo albero si è messo improvvisamente a piovere e io mi sono avvicinato a te.
Mi hai detto che sarebbe stato meglio tornare verso la casa, perchè ti faceva paura, la quercia.
Accendo la radio, c’è la nostra canzone, quella bella, canzone melodiosa che ti dedicavo tuti i pomeriggi alla radio.
Te la ricordi bene quella bella, dolce canzone?
Io ricordo bene di averti visto ballarla la sera del matrimonio.
La nostra canzone.
Da quel giorno l’ascolto ininterrottamente, forse è colpa sua se poi faccio quelle cose brutte con le mani.
Non deve essere passato tanto tempo da quel giorno a giudicare dalla rosa con il bigliettino che è ancora nel vaso sul davanzale.
Non è una di quelle che ti ho regalato io, ma mi fa piacere immaginarlo; quelle saranno già morte e pure questa,oramai sta per fare la stessa fine.
Ma è dietro la finestra, che è chiusa e non riesco ad aprire per poterla innaffiare quella povera rosa.
Sopra la finestra l’orologio segna sempre la stessa ora: le undici.
Ma non è fermo, lo so.
Ti spiego: il ticchettìo lo sento chiaro, anche troppo e lo so bene che le lancette si muovono, ma quando lo osservo segna sempre la stessa ora. Forse nella lettera te l’ho anche raccontato; resta fermo, ma secondo me lo fa più per l’impossibilità di tornare indietro che per quella di andare avanti.
Non riesco a spiegartelo.
Lo so, non sono mai stato bravo a farmi capire; soprattutto da te.
Ma le ore passano, lo vedo benissimo: non mi può fregare così e io ti aspetto; mi piace aspettarti, seduto qui sul bordo del letto.
So che tra poco squillerà quel telefono, facendo cadere i fogli che ci sono sopra e che si spargeranno per la stanza.
Ecco è adesso che le pareti cominciano a cambiare colore.
No, te l’assicuro: non è che cambia la luce perché apro le persiane, quelle restano sempre chiuse.
E’ come se dai bordi del soffitto calasse un altro colore a coprire il giallo per poi virarle al rosso,
Il giallo che a te non piaceva,
E quando hanno cambiato del tutto colore è proprio in quel momento che suona il telefono e se chiudo gli occhi e li riapro il pavimento è pieno di foto, foglietti appunti, biancheria sparsa.
Devo mettere in ordine prima che tu torni, mi spiacerebbe che mi trovassi qui con la camera in questo stato.
Anche la mamma me lo dice sempre: non fare cose brutte e tieni tutte le cose a posto. Io, lo sai, ubbidisco sempre alla mia mamma.
Sul comodino ho appoggiato il martello, ci ho provato a mettere meglio il chiodo per raddrizzare la cornice, per fartela trovare più bella quando sarai tornata.
Ma poi suona il telefono e io mi distraggo, sbaglio e lo sai: io ci sto male quando sbaglio e allora comincio a colpire il materasso ed ecco le lenzuola prendere il colore del sangue, quel colore che immagino ogni tanto lasciassi come traccia; come nelle tue mutandine che ancora conservo.
E quel colore si sparge, è una macchia che avanza veloce dal cuscino fino ai piedi del letto, ma meno male non cade per terra, non saprei proprio come pulire.
Poi a poco a poco il sangue si raccoglie nell’incavo dell’impronta fino a sparire.
E la foto è sempre li, un po’ storta, e forse è questo che fa cambiare il tuo sguardo.
La raddrizzo.
Tu però continui a non sorridere; forse è per colpa di tutto questo sangue?
Ora ricordo: il sangue ti infastidiva, ti rendeva nervosa. Anche quella volta che sono venuto a trovarti e mi ero appena fatto di corsa la barba ed ero pieno di taglietti; tu non volevi baciarmi o come quando entrai quel pomeriggio che eri malata nella tua stanza. Era bella la tua stanza, tutta rossa e la tua camicia da notte color crema era bellissima, tranne quella macchia li in mezzo.
Neanche il colore della stanza ti piaceva.
Mi dicesti che quando ti saresti sposata l’avresti tinta tutta di bianco, quel rosso ti imprigionava, ti sentivi come impressionata su una fotografia
Dicesti esattamente quella parola, “IM PRES SIO NA TA” calcando le sillabe.
E mentre guardavi fuori dalla finestra, ti immaginavo seduta e triste con la tua bella camicia da notte, rinchiusa in una gabbia tutta rossa mentre arrivavo su quel bel cavallo a salvarti.
Te l’ho scritto in una lettera, quella che ho ritrovato in giardino e che probabilmente qualcuno aveva voluto accartocciare e buttare via: mi piaceva la tua camicia da notte.
Dopo il matrimonio sei andata via; quando sei tornata ti sono venuto a trovare.
Volevo fare l’amore con te quel giorno, mentre i tuoi fratellini facevano il bagno nella piscina e potevamo approfittare di quel momento, ma tu corresti via dicendo che ti era parso che uno di loro si fosse spaventato.
O forse è perchè con le mani stavo facendo quelle cose brutte?
La mamma mi aveva avvisato di starci attento.
E allora decisi di scriverti.
Giurai di non smettere mai, perchè così avrei usato le mani per fare delle cose intelligenti e non avrei fatto le cose brutte.
Il sangue si è oramai ritirato, sul materasso resta sempre quell’impronta.
Guardo la foto davanti a me. Non sorridi proprio per nulla ma il cavallo sembra essersi mosso di nuovo, sono sicuro che stesse guardando verso di me.
E’ tardi e tu ancora non sei arrivata.
Bussano ancora , raccolgo il messaggio: è l’ultimo: lo so perché è scritto con un pennarello, di quelli grossi, indelebili di un fastidioso e tanto doloroso inchiostro color verde.
“E’ successo qualcosa? Perchè non rispondi al telefono?”
lo butto nel cestino, adesso è colmo.
Fuori è diventato sicuramente buio, nessuna voce dal giardino e il cavallo sarà tornato nella sua stalla.
Sono tanto stanco, torno a dormire.
Mi rimetto a letto, e mi incastro comodo nell’impronta.
Spengo la luce e tutto ritorna nero.
Sento freddo, mi copro con queste coperte di un rassicurante avvolgente color giallo muco.
Quando mi sveglierò, la lettera sarà finita, tu sarai tornata e tutto tornerà come prima.
Prometto che stanotte le cose brutte non le farò, anche se mi piace tanto la tua camicia da notte macchiata; la mamma sarà contenta, anche tu e allora mi sorriderai.
La mamma però non conosce il nostro segreto; lei non lo saprà mai che ho conservato i tuoi denti e mentre ti abbraccio, li stringo in mano sotto il cuscino.
Jacopo Ninni
Let. In. 1
aprile 24, 2012 di scrittoriprecari 22 commenti
Let. In.
Antologia di letteratura inesistente a cura di Carlo Sperduti
Le intenzioni di Let. In. sono quelle di “fare entrare” (to let in) nella letteratura anche la letteratura che non esisterà mai; di “ammettere” (to let in) che ciò che non esiste è cosa interessante: da evocare, da valorizzare e da far rimanere rigorosamente inesistente; di “imbarcarsi in” (to let in) un’impresa del tutto gratuita per il solo piacere di giocare con la letteratura, atteggiamento purtroppo sempre più raro. Il funzionamento di Let. In. è molto semplice e accessibile a tutti:
1) Si prenda come bersaglio un’opera letteraria e se ne modifichi il titolo attraverso sottrazioni, aggiunte o sostituzioni di lettere, anagrammi, giochi di parole o anche per semplice assonanza. Si faccia in poche parole quel che si vuole col titolo d’origine, a patto che esso rimanga riconoscibile nel titolo ottenuto.
2) Si proceda allo stesso modo con i nomi dell’autore e/o dell’editore (operazioni facoltative).
3) Dati i risultati delle due operazioni precedenti (o solamente della prima), si spieghi attraverso una recensione, una sinossi, un saggio, un riassunto, un’intervista, una lettera, un commento o quant’altro il contenuto del nuovo libro inesistente.
Si sarà così scritto intorno a un libro, evitando il fastidio di farlo esistere.
BEST-SELLERS
R
di Luther Blisset
Prima edizione con refuso di copertina del best-seller Q di Luther Blisset.
Angelo Zabaglio a.k.a Andrea Coffami
Prima che tu dica “stronzo”
di Italo Calmino
A volte i libri in cui ci s’imbatte per caso e di cui non si conosce l’autore neanche per sentito dire (l’ignoranza di chi scrive non è mai poca) ci riservano delle sorprese graditissime. È questo il caso di un piccolo capolavoro firmato Italo Calmino, scovato in una vecchia cantina di un amico durante un trasloco. Lo snello e agile volume cui ci riferiamo, indirizzato ai soli maschietti, s’intitola Prima che tu dica “stronzo”, ovvero 101 modi di mettere le mani avanti con la propria donna prima di affrontare un argomento scomodo.
Il titolo la dice lunga: se volete a tutti i costi evitare scenate e insulti, questo libro vi guiderà passo dopo passo verso la saggezza.
Dalla stessa arguta penna: Se una notte m’inforno un viaggiatore (horror), Il castello dei festini incrociati (erotico), Il barone arrapante (porno).
“Una stupefacente dimostrazione di come si possa far passare per sacrificio la propria bassezza morale: da non perdere” (Men’s Shame)
Carlo Sperduti
Gli interessi in provincia
di Giovanni Fantoni
Giacomo, il Milla, il Dumpe, il Felpa: quattro giovani disoccupati decidono di candidarsi alle elezioni provinciali per coronare il loro sogno: aprirsi un bar. I quattro riescono miracolosamente a essere eletti, soprattutto grazie ai voti dei giovani che premiano l’originale campagna elettorale dei quattro: regalano le droghe più svariate in cambio della preferenza. Una volta consiglieri provinciali, questi ragazzi riescono addirittura a far diventare il Milla assessore che, grazia ai soldi delle tangenti per gli appalti, riesce a trovare i fondi per coronare il sogno suo e dei suoi tre amici, un bar frequentatissimo che diventa il più importante snodo di spaccio di tutta la regione, anche grazie alla copertura delle forze dell’ordine che non mettono il naso negli affari dei politici.
Splendido romanzo di Giovanni Fantoni che dipinge magistralmente sogni e speranze di una generazione che non vuole perdere tempo.
Gianluca Liguori
L’uomo che scambiò sua moglie per un Campiello
Oliviero Oboe ha tutto per essere felice: un matrimonio d’amore, un lavoro gratificante, un male incurabile. Cosa si può desiderare di più, infatti, di una moglie muta, della soddisfazione di comminare contravvenzioni, della libertà di autocompatirsi senza freni con colleghi, amici e parenti? Un premio. Oliviero Oboe non si capacita del perché al suo settimo romanzo non è ancora riuscito a ottenere un premio da uno qualsiasi dei principali concorsi letterari nazionali. Eppure ha un talento indiscutibile: sua moglie non manca di commuoversi copiosamente sulle sue pagine, colleghi, amici e parenti si sperticano in complimenti, confessano la propria invidia, lo implorano di non smettere mai di scrivere. Una sola può essere la spiegazione: la mafia delle case editrici.
Questo romanzo racconta l’epopea di un gruppo di coraggiosi (Oboe, sua moglie Cloris, e i due colleghi pizzardoni di Oboe, Borghetti e Averna) che sfidano l’impero editoriale italiano per dare voce a un romanzo in cui credono più che in se stessi.
L’idea viene al Borghetti quando scopre che il presidente della giuria del Premio Campiello per l’anno successivo sarebbe stato Alberto Albertinis, un usuraio salito agli onori della cronaca per aver fondato una banca di lusso per correntisti vip ma soprattutto, elemento fondamentale in questa storia, concittadino. Il piano è semplicissimo: seppellire di contravvenzioni l’Albertinis fino a ottenere la vittoria per l’ultimo romanzo di Oboe, un tomo di ottocento pagine dal titolo: Non solo fregnacce. Ma la via della gloria non può che essere costellata di ostacoli che mettano alla prova il valore di chi osi tentare di ottenerla: l’Albertinis, essendo schifosamente ricco, naturalmente dispone di un box privato per la sua Ferrari giallo canarino. Dopo momenti di indicibile scoramento in cui i protagonisti non risparmiano cazzotti al muro e bestemmie al cielo, Cloris, che fino a quel momento è rimasta in silenzio, ha un’idea. E così, nel cuore di quella stessa notte, travestita da prostituta per non dare nell’occhio, la signora Oboe si avvicina di soppiatto al box dell’Albertinis per sabotare cellule fotoelettriche in nome della letteratura. Ma proprio quando niente sembra perduto, sotto gli occhi di Oboe e dei colleghi appostati dietro un parchimetro, ecco accadere l’imprevedibile: la Ferrari, da 100 a zero in 3,27 secondi, si ferma davanti al palazzo, davanti al box, davanti a Cloris. L’Albertinis scende dalla macchina, s’incapriccia da zero a 100 in 2,23 secondi della donna, e se la porta in casa.
Ecco il testo dello struggente biglietto con il quale, alcune settimane dopo un lungo silenzio, Cloris comunica al marito il suo estremo dono d’amore: «Mi ama. Non lo amo. Il premio è tuo. Addio.»
Oboe, distrutto dal dolore, maledice il premio, si ricorda di essere affetto da un male incurabile e muore. Il premio viene assegnato postumo. Non solo fregnacce vende un milione di copie in sei mesi. Il piccolo editore, al quale l’Oboe pochi mesi prima aveva versato 2.500 euro (di cui 2.000 al nero) per pubblicare il proprio manoscritto, diventa il maggior editore librario nato in Italia almeno nell’ultimo quarto di secolo.
Carolina Cutolo
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