La lettera

di Alex Pietrogiacomi

Avrebbe dovuto scegliere di fermarsi lì. Davanti a quella cassetta, chiudere gli occhi e regalarsi l’attimo in cui il PER TUTTE LE ALTRE DESTINAZIONI avrebbe ingoiato distratto la sua busta.
Invece continuò a camminare, superando lo scatolotto rosso, dicendosi che aveva tutto il tempo per poter fare la sua spedizione, che in fin dei conti era una bella mattinata e un buon caffè da qualche parte l’avrebbe resa ancora migliore. Però il senso di responsabilità era lì a farsi sentire. Cercava di tirare la giacca nera verso la sua vera destinazione, perché Ci si era alzati presto proprio per fare questa cosa, altrimenti si poteva anche restare a letto.
Ma Roma era pericolosa in quella mattinata maliziosa, anche il suo tran tran riusciva ad avere qualcosa di vagamente seduttivo: perché Leggi il resto dell’articolo

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Let. In. 1

Let. In.
Antologia di letteratura inesistente a cura di Carlo Sperduti

Le intenzioni di Let. In. sono quelle di “fare entrare” (to let in) nella letteratura anche la letteratura che non esisterà mai; di “ammettere” (to let in) che ciò che non esiste è cosa interessante: da evocare, da valorizzare e da far rimanere rigorosamente inesistente; di “imbarcarsi in” (to let in) un’impresa del tutto gratuita per il solo piacere di giocare con la letteratura, atteggiamento purtroppo sempre più raro. Il funzionamento di Let. In. è molto semplice e accessibile a tutti:
1) Si prenda come bersaglio un’opera letteraria e se ne modifichi il titolo attraverso sottrazioni, aggiunte o sostituzioni di lettere, anagrammi, giochi di parole o anche per semplice assonanza. Si faccia in poche parole quel che si vuole col titolo d’origine, a patto che esso rimanga riconoscibile nel titolo ottenuto.
2) Si proceda allo stesso modo con i nomi dell’autore e/o dell’editore (operazioni facoltative).
3) Dati i risultati delle due operazioni precedenti (o solamente della prima), si spieghi attraverso una recensione, una sinossi, un saggio, un riassunto, un’intervista, una lettera, un commento o quant’altro il contenuto del nuovo libro inesistente.
Si sarà così scritto intorno a un libro, evitando il fastidio di farlo esistere.

BEST-SELLERS

R
di Luther Blisset

Prima edizione con refuso di copertina del best-seller Q di Luther Blisset.

Angelo Zabaglio a.k.a Andrea Coffami

Prima che tu dica “stronzo”
di Italo Calmino

A volte i libri in cui ci s’imbatte per caso e di cui non si conosce l’autore neanche per sentito dire (l’ignoranza di chi scrive non è mai poca) ci riservano delle sorprese graditissime. È questo il caso di un piccolo capolavoro firmato Italo Calmino, scovato in una vecchia cantina di un amico durante un trasloco. Lo snello e agile volume cui ci riferiamo, indirizzato ai soli maschietti, s’intitola Prima che tu dica “stronzo”, ovvero 101 modi di mettere le mani avanti con la propria donna prima di affrontare un argomento scomodo.
Il titolo la dice lunga: se volete a tutti i costi evitare scenate e insulti, questo libro vi guiderà passo dopo passo verso la saggezza.
Dalla stessa arguta penna: Se una notte m’inforno un viaggiatore (horror), Il castello dei festini incrociati (erotico), Il barone arrapante (porno).
Una stupefacente dimostrazione di come si possa far passare per sacrificio la propria bassezza morale: da non perdere (Men’s Shame)

Carlo Sperduti

Gli interessi in provincia
di Giovanni Fantoni

Giacomo, il Milla, il Dumpe, il Felpa: quattro giovani disoccupati decidono di candidarsi alle elezioni provinciali per coronare il loro sogno: aprirsi un bar. I quattro riescono miracolosamente a essere eletti, soprattutto grazie ai voti dei giovani che premiano l’originale campagna elettorale dei quattro: regalano le droghe più svariate in cambio della preferenza. Una volta consiglieri provinciali, questi ragazzi riescono addirittura a far diventare il Milla assessore che, grazia ai soldi delle tangenti per gli appalti, riesce a trovare i fondi per coronare il sogno suo e dei suoi tre amici, un bar frequentatissimo che diventa il più importante snodo di spaccio di tutta la regione, anche grazie alla copertura delle forze dell’ordine che non mettono il naso negli affari dei politici.
Splendido romanzo di Giovanni Fantoni che dipinge magistralmente sogni e speranze di una generazione che non vuole perdere tempo.

Gianluca Liguori

L’uomo che scambiò sua moglie per un Campiello

Oliviero Oboe ha tutto per essere felice: un matrimonio d’amore, un lavoro gratificante, un male incurabile. Cosa si può desiderare di più, infatti, di una moglie muta, della soddisfazione di comminare contravvenzioni, della libertà di autocompatirsi senza freni con colleghi, amici e parenti? Un premio. Oliviero Oboe non si capacita del perché al suo settimo romanzo non è ancora riuscito a ottenere un premio da uno qualsiasi dei principali concorsi letterari nazionali. Eppure ha un talento indiscutibile: sua moglie non manca di commuoversi copiosamente sulle sue pagine, colleghi, amici e parenti si sperticano in complimenti, confessano la propria invidia, lo implorano di non smettere mai di scrivere. Una sola può essere la spiegazione: la mafia delle case editrici.
Questo romanzo racconta l’epopea di un gruppo di coraggiosi (Oboe, sua moglie Cloris, e i due colleghi pizzardoni di Oboe, Borghetti e Averna) che sfidano l’impero editoriale italiano per dare voce a un romanzo in cui credono più che in se stessi.
L’idea viene al Borghetti quando scopre che il presidente della giuria del Premio Campiello per l’anno successivo sarebbe stato Alberto Albertinis, un usuraio salito agli onori della cronaca per aver fondato una banca di lusso per correntisti vip ma soprattutto, elemento fondamentale in questa storia, concittadino. Il piano è semplicissimo: seppellire di contravvenzioni l’Albertinis fino a ottenere la vittoria per l’ultimo romanzo di Oboe, un tomo di ottocento pagine dal titolo: Non solo fregnacce. Ma la via della gloria non può che essere costellata di ostacoli che mettano alla prova il valore di chi osi tentare di ottenerla: l’Albertinis, essendo schifosamente ricco, naturalmente dispone di un box privato per la sua Ferrari giallo canarino. Dopo momenti di indicibile scoramento in cui i protagonisti non risparmiano cazzotti al muro e bestemmie al cielo, Cloris, che fino a quel momento è rimasta in silenzio, ha un’idea. E così, nel cuore di quella stessa notte, travestita da prostituta per non dare nell’occhio, la signora Oboe si avvicina di soppiatto al box dell’Albertinis per sabotare cellule fotoelettriche in nome della letteratura. Ma proprio quando niente sembra perduto, sotto gli occhi di Oboe e dei colleghi appostati dietro un parchimetro, ecco accadere l’imprevedibile: la Ferrari, da 100 a zero in 3,27 secondi, si ferma davanti al palazzo, davanti al box, davanti a Cloris. L’Albertinis scende dalla macchina, s’incapriccia da zero a 100 in 2,23 secondi della donna, e se la porta in casa.
Ecco il testo dello struggente biglietto con il quale, alcune settimane dopo un lungo silenzio, Cloris comunica al marito il suo estremo dono d’amore: «Mi ama. Non lo amo. Il premio è tuo. Addio.»
Oboe, distrutto dal dolore, maledice il premio, si ricorda di essere affetto da un male incurabile e muore. Il premio viene assegnato postumo. Non solo fregnacce vende un milione di copie in sei mesi. Il piccolo editore, al quale l’Oboe pochi mesi prima aveva versato 2.500 euro (di cui 2.000 al nero) per pubblicare il proprio manoscritto, diventa il maggior editore librario nato in Italia almeno nell’ultimo quarto di secolo.

 Carolina Cutolo

Lettera aperta alla mia Nazione

spettabile Nazione,

ti scrivo per dirti che ormai non capisci più un tubo, ma stai tranquilla, siamo in due. Sospetto in realtà si sia molti di più, però, cara Nazione, non essendo in grado di saperlo con certezza, ti scrivo questa lettera aperta così magari la legge qualcuno che capisce più di me e mi spiega come sistemare le cose.
Ti scrivo avendo letto l’ennesimo intervento / articolo / intervista di stampo scientifico, anzi, di stampo “scientifico”, che dovrebbe spiegarmi con logica inoppugnabile perché sbaglio, perché ho sbagliato tutto e perché, probabilmente, continuerò a farlo.
Metaforicamente parlando, se la realtà fosse una formica, ho constatato ormai da molto tempo come questi tuoi illustri e assai ingegnosi figli siano bravissimi a dirmi di quali molecole è composta una formica, ad elencarmi i tipi di formiche attualmente presenti sulla terra, dividendoli per ecosistemi, e a descrivermi minuziosamente il ciclo vitale di una formica. Però questi tuoi illustri e assai ingegnosi figli, se gli mostro una formica, mi guardano stralunati: “che è?”; “una formica”; “ah davvero? Aspetta che prelevo un campione per controllare se è vero”. Spettabile Nazione, scusa se te lo dico, ma a me non la fai, pure se sono fesso. A te della realtà, delle narrazioni della realtà, della scienza, dei tubi, della logica, di Aristotele, della retorica, della poesia, dello stato sociale non te ne frega niente; come non te ne frega niente neanche del capitalismo, del liberismo, dello stato federale, del cemento, del verde, dei rifiuti, delle formiche, del cha cha cha e del quaquaraquà. Ma mica perché sei cattiva, no. Io ti vedo più che altro come il nonno con cui uno è cresciuto, e che ad un certo punto si scopre essere malato di Alzheimer; inizialmente sembrava solo diventato un po’ più eccentrico del solito, ma ad un certo punto diventa evidente che ha l’Alzheimer. Per cui ora, quando il nonno inizia a parlare che so, di Kant (il nonno era una scheggia, su certi argomenti), lì per lì lo stai pure ad ascoltare, perché Kant è Kant e fa sempre la sua porca figura. Però poi mentre parla il nonno si ferma e sbava, oppure si ferma e, come se niente fosse, inizia il discorso daccapo, come un cd che ripete all’infinito la stessa canzone; oppure salta di palo in frasca, da un argomento all’altro, come un concept album con la riproduzione casuale. Io nel secondo caso potrei pensare ad una nuova narrazione volta a superare Kant, ma se lo facessi sarei più scemo di mio nonno con l’Alzheimer (manco a dirlo, ci sono un sacco di nipoti convinti invece che il nonno non sia rincoglionito, ma metanarrativo).
Spettabile Nazione, un Baricco, per dire, ti fa male con questa storia dei barbari e del 2026, ma capisci, lui campa con la ricerca sull’Alzheimer: se si trova la cura, dovrà affrontare la disoccupazione, e non ci è abituato. Molto meglio campare in quell’ampia nicchia che separa un male curabile da uno trattabile. Non me la sento nemmeno di dargli torto, perché nessuno è realmente pronto ad affrontare la disoccupazione: l’importante, però, è che nessuno mi domandi mai di giustificare la mia paradigmatica idiosincrasia per i Baricco, altrimenti dovrei rispondere con aforismi improvvisati, del tipo “Omero era ispirato dalla Musa, Baricco dal commercialista”. Io non ho di questi problemi, per cui te lo dico chiaro e tondo, consapevole che, in pratica, sto urlando contro mio nonno con l’Alzheimer, quindi contro uno che manco mi ascolta; c’è caso anche che si faccia la pipì addosso mentre invado l’aria con una brillante metafora o un gustosissimo climax ascendente. Ma uno al nonno gli vuole bene, pure se c’ha l’Alzheimer, pure se è cachettico, perché fa parte della famiglia, della tradizione: da qui il mio ridicolo dramma umano, che non riesco ad evitare.
Tu, spettabile Nazione, nel migliore dei casi vivi nella convinzione che la logica di Aristotele basti ad afferrare il minimo comune denominatore che tiene la realtà sopra il baratro del nulla. Ma io so che è un’illusione.
Non è vero che se A=A allora A≠B. Un qualunque burocrate distrugge questo assunto di partenza almeno una volta al giorno. Faccio un esempio. Attualmente io sono un dottorando (un fannullone): per l’Università, che è un sotto insieme dello Stato Italiano, (molto sotto e poco insieme) io sono considerato un borsista, uno studente/borsista per la precisione, e non un lavoratore (un fannullone a norma di legge, per l’appunto). Per l’INPS, presso cui ho presentato documentazione affinché l’Università iniziasse ad erogare la borsa di studio, INPS che a sua volta è un sotto insieme dello Stato Italiano, io non sono uno studente-borsista, poiché l’INPS non contempla, nell’apposito modulo, la categoria studente-borsista. Per l’INPS dunque io sono un lavoratore a progetto. Quindi se A=studente-borsista e B=lavoratore a progetto, per Aristotele A=A, B=B, A≠B, per lo Stato Italiano A=B e Aristotele=nulla.
Oppure tu, spettabile Nazione, vivi nella convinzione che, poiché Aristotele=nulla, allora Aristotele è inutile, esticazzi Aristotele e chi per lui. Perciò balli sul Titanic che affonda, gasandoti come una totale idiota perché diventi sempre più brava a ballare. Ballare è una cosa pratica, Aristotele son chiacchere: “l’ignoranza è forza”, diceva qualcuno che manco sai chi sia, ma di cui però ti adorni. Appena provo a dirti che il Titanic sta per affondare, che è il caso di organizzarsi per calare in mare le scialuppe e provare a salvarsi, mi prendi a male parole perché, nella tua idiozia, auto inflitta, alimentata dai tuoi compagni di ballo, sei davvero convinta che, sotto sotto, chi parla di naufragi, scialuppe e salvezza invidi la tua bravura nel ballare. Oppure, mentre balli, te ne esci con un sofisma che riscuote gran plauso, chiedendo che ti venga dimostrato dialetticamente il pericolo di naufragio. Oppure tu non balli, ma vivi sul Titanic criticando con solidi argomenti quelli che ballano, e mentre mi danno e impreco per cercare ‘sta benedetta scialuppa, mi fai notare che ho sbagliato modo di parlare della scialuppa, per cui è naturale che poi chi balla continui a farlo. Io lì per lì, essendo in pericolo di vita, non trovo di meglio che mandarti affanculo, e allora tu sciorini una filippica incentrata sul mio fascismo. E, a fronte di tutto ciò, mi devo sentire un inetto perché non so remare da solo per l’oceano, e mi trovo come una sfigatissima Cassandra su una nave che affonda.
Tu, dunque, vivi e fai vivere nell’illusione che l’uomo si sia evoluto dalla scimmia: una visione naturalmente più sensata di quella creazionista, che ancora deve spiegare in quale giorno Dio abbia creato il Tirannosauro (tra la notte del terzo e l’alba del quarto?), ma una visione che dimentica un dato. Essersi evoluti dalla scimmia non significa essersene emancipati. E se una scimmia con in mano La Divina Commedia può far sorridere, una scimmia convinta di conoscere La Divina Commedia mi provoca paura e orrore. Perciò, spettabile Nazione, in attesa che qualcuno mi dia la soluzione, e mi spieghi come sistemare questi benedetti tubi che non capisco, ti lascio parafrasando il poeta:

sprofonda in questo tuo bel mare / vattene a morì ammazzata

Distinti saluti,
tuo affezionatissimo Matteo

P.S. Allego CV per la civiltà che prenderà il tuo posto*.
* (disponibile a lavorare anche part time)
Matteo Pascoletti

La camera oscura

Mi sto svegliando.

Le palpebre ancora incollate e tra i miei occhi e il buio, galleggianti chiazze color muco.

Chiazze informi, che nell’aprirsi lento degli occhi si dissolvono sulla parete a cui mi ritrovo appiccicato.

Sento bagnaticcio tra le gambe, la mamma me l’aveva detto di starci attento ai sogni sporchi.

Mi devo alzare. Il letto è incastrato in un angolo della stanza e adesso pure io con lui.

Mi alzo e osservo l’impronta del corpo impressa calda sul materasso.

All’altro lato della stanza c’è una scrivania.

Appese al muro, penzolano storte alcune fotografie.

In quella più a destra ci sei Tu. Sei in sella ad un cavallo al pascolo, probabilmente nel giardino della villa.

La osservo. Il tuo sguardo non è sereno; eppure sono sicuro che in quella foto, qualche giorno fa, Tu sorridessi e sono altrettanto convinto che il cavallo fosse leggermente più sulla destra, circa all’altezza della quercia e il suo muso fosse puntato in mia direzione.

Un caffè già zuccherato aspetta caldo nella tazza color crema sul comodino, due brioches, appoggiate su un piatto in tinta con la tazzina, una è già smangiucchiata; un’altra tazza è sulla scrivania, già svuotata, già fredda.

Non filtra luce dalle imposte, filtrano solo i suoni e gli odori dal giardino.

Sulla scrivania è appoggiata la lettera che sto tentando di scriverti; anche durante questa notte è avanzata di qualche altra riga, brevi tracce dei sogni di stanotte, che però adesso non ricordo.

E’ la lettera che se li ricorda per me.

E quando al tuo ritorno la troverai, ne sarai felice.

Io lo so bene quanto ti piaccia trovare le mie lettere.

Una volta presa dalla cassetta, già ti vedo correre sul letto e poi a gambe incrociate con la schiena appoggiata alle parete le apri e ti immergi nelle mie tante tante righe, come se il mondo al di fuori di questa camera non esistesse.

Ti ho sempre immaginato tanto felice e talmente impressionata dalla bellezza delle mie lettere. Talmente emozionata al punto di non trovare mai le parole giuste per rispondermi.

Una mappa geografica dell’Europa è appesa vicino la finestra, mi ricorda quella che c’era nella nostra classe, quando eravamo vicini di banco.

Questa ha tante puntine che segnano altrettante località,

Puntine dello stesso color giallo, ma c’è ne è una nuova, color malva.

Devo essermi distratto, ma non ricordo quando tu sia andata a Malta.

Ricordo ogni tua partenza e ogni tuo ritorno almeno fino al viaggio di nozze.

Circa ogni ora bussano alla porta, io non rispondo mai; in fondo non è camera mia e non è educato, poi da sotto l’uscio sfilano foglietti tutti uguali; 10 x 15 circa, scritti a penna o matita o pennarello. Li raccolgo, neanche li leggo: non sono per me, saranno di qualcuno che è venuto a disturbarti. Allora li accartoccio e li butto nel cestino: stasera sarà poi colmo raso.

Così era pieno ieri sera. Eccolo li nell’angolo; stamattina è lì vuoto e sotto l’uscio compare il primo messaggio.

Non filtra alcun raggio di sole dalle persiane, ma fuori sento vociare di gente; i tuoi fratelli che giocano nella piscina.

Chissà se nel prato del giardino passeggia il cavallo della foto; deve esserci da qualche parte, di sicuro non nella posizione della foto, ma per forza deve esserci; tu dove potresti essere altrimenti?

Sicuramente non li

Quella quercia non ti era mai piaciuta poi. Ricordo il giorno che sono venuto per la prima volta a trovarti: stavamo giocando proprio attorno a quel bellissimo albero si è messo improvvisamente a piovere e io mi sono avvicinato a te.

Mi hai detto che sarebbe stato meglio tornare verso la casa, perchè ti faceva paura, la quercia.

Accendo la radio, c’è la nostra canzone, quella bella, canzone melodiosa che ti dedicavo tuti i pomeriggi alla radio.

Te la ricordi bene quella bella, dolce canzone?

Io ricordo bene di averti visto ballarla la sera del matrimonio.

La nostra canzone.

Da quel giorno l’ascolto ininterrottamente, forse è colpa sua se poi faccio quelle cose brutte con le mani.

Non deve essere passato tanto tempo da quel giorno a giudicare dalla rosa con il bigliettino che è ancora nel vaso sul davanzale.

Non è una di quelle che ti ho regalato io, ma mi fa piacere immaginarlo; quelle saranno già morte e pure questa,oramai sta per fare la stessa fine.

Ma è dietro la finestra, che è chiusa e non riesco ad aprire per poterla innaffiare quella povera rosa.

Sopra la finestra l’orologio segna sempre la stessa ora: le undici.

Ma non è fermo, lo so.

Ti spiego: il ticchettìo lo sento chiaro, anche troppo e lo so bene che le lancette si muovono, ma quando lo osservo segna sempre la stessa ora. Forse nella lettera te l’ho anche raccontato; resta fermo, ma secondo me lo fa più per l’impossibilità di tornare indietro che per quella di andare avanti.

Non riesco a spiegartelo.

Lo so, non sono mai stato bravo a farmi capire; soprattutto da te.

Ma le ore passano, lo vedo benissimo: non mi può fregare così e io ti aspetto; mi piace aspettarti, seduto qui sul bordo del letto.

So che tra poco squillerà quel telefono, facendo cadere i fogli che ci sono sopra e che si spargeranno per la stanza.

Ecco è adesso che le pareti cominciano a cambiare colore.

No, te l’assicuro: non è che cambia la luce perché apro le persiane, quelle restano sempre chiuse.

E’ come se dai bordi del soffitto calasse un altro colore a coprire il giallo per poi virarle al rosso,

Il giallo che a te non piaceva,

E quando hanno cambiato del tutto colore è proprio in quel momento che suona il telefono e se chiudo gli occhi e li riapro il pavimento è pieno di foto, foglietti appunti, biancheria sparsa.

Devo mettere in ordine prima che tu torni, mi spiacerebbe che mi trovassi qui con la camera in questo stato.

Anche la mamma me lo dice sempre: non fare cose brutte e tieni tutte le cose a posto. Io, lo sai, ubbidisco sempre alla mia mamma.

Sul comodino ho appoggiato il martello, ci ho provato a mettere meglio il chiodo per raddrizzare la cornice, per fartela trovare più bella quando sarai tornata.

Ma poi suona il telefono e io mi distraggo, sbaglio e lo sai: io ci sto male quando sbaglio e allora comincio a colpire il materasso ed ecco le lenzuola prendere il colore del sangue, quel colore che immagino ogni tanto lasciassi come traccia; come nelle tue mutandine che ancora conservo.

E quel colore si sparge, è una macchia che avanza veloce dal cuscino fino ai piedi del letto, ma meno male non cade per terra, non saprei proprio come pulire.

Poi a poco a poco il sangue si raccoglie nell’incavo dell’impronta fino a sparire.

E la foto è sempre li, un po’ storta, e forse è questo che fa cambiare il tuo sguardo.

La raddrizzo.

Tu però continui a non sorridere; forse è per colpa di tutto questo sangue?

Ora ricordo: il sangue ti infastidiva, ti rendeva nervosa. Anche quella volta che sono venuto a trovarti e mi ero appena fatto di corsa la barba ed ero pieno di taglietti; tu non volevi baciarmi o come quando entrai quel pomeriggio che eri malata nella tua stanza. Era bella la tua stanza, tutta rossa e la tua camicia da notte color crema era bellissima, tranne quella macchia li in mezzo.

Neanche il colore della stanza ti piaceva.

Mi dicesti che quando ti saresti sposata l’avresti tinta tutta di bianco, quel rosso ti imprigionava, ti sentivi come impressionata su una fotografia

Dicesti esattamente quella parola, “IM PRES SIO NA TA” calcando le sillabe.

E mentre guardavi fuori dalla finestra, ti immaginavo seduta e triste con la tua bella camicia da notte, rinchiusa in una gabbia tutta rossa mentre arrivavo su quel bel cavallo a salvarti.

Te l’ho scritto in una lettera, quella che ho ritrovato in giardino e che probabilmente qualcuno aveva voluto accartocciare e buttare via: mi piaceva la tua camicia da notte.

Dopo il matrimonio sei andata via; quando sei tornata ti sono venuto a trovare.

Volevo fare l’amore con te quel giorno, mentre i tuoi fratellini facevano il bagno nella piscina e potevamo approfittare di quel momento, ma tu corresti via dicendo che ti era parso che uno di loro si fosse spaventato.

O forse è perchè con le mani stavo facendo quelle cose brutte?

La mamma mi aveva avvisato di starci attento.

E allora decisi di scriverti.

Giurai di non smettere mai, perchè così avrei usato le mani per fare delle cose intelligenti e non avrei fatto le cose brutte.

Il sangue si è oramai ritirato, sul materasso resta sempre quell’impronta.

Guardo la foto davanti a me. Non sorridi proprio per nulla ma il cavallo sembra essersi mosso di nuovo, sono sicuro che stesse guardando verso di me.

E’ tardi e tu ancora non sei arrivata.

Bussano ancora , raccolgo il messaggio: è l’ultimo: lo so perché è scritto con un pennarello, di quelli grossi, indelebili di un fastidioso e tanto doloroso inchiostro color verde.

E’ successo qualcosa? Perchè non rispondi al telefono?”

lo butto nel cestino, adesso è colmo.

Fuori è diventato sicuramente buio, nessuna voce dal giardino e il cavallo sarà tornato nella sua stalla.

Sono tanto stanco, torno a dormire.

Mi rimetto a letto, e mi incastro comodo nell’impronta.

Spengo la luce e tutto ritorna nero.

Sento freddo, mi copro con queste coperte di un rassicurante avvolgente color giallo muco.

Quando mi sveglierò, la lettera sarà finita, tu sarai tornata e tutto tornerà come prima.

Prometto che stanotte le cose brutte non le farò, anche se mi piace tanto la tua camicia da notte macchiata; la mamma sarà contenta, anche tu e allora mi sorriderai.

La mamma però non conosce il nostro segreto; lei non lo saprà mai che ho conservato i tuoi denti e mentre ti abbraccio, li stringo in mano sotto il cuscino.

Jacopo Ninni

Primo embargo dall’illusione

PRIMO EMBARGO DALL’ILLUSIONE

Quando gli aeroplani prendono velocità sulla pista, fanno un rumore assordante. Se stai dentro, cinturato a dovere, la forza della propulsione ti schiaccia contro il sedile, come se una grossa mano ti stesse spingendo sul petto. La pressione è forte, i polmoni si svuotano e lo stomaco si intorcina su se stesso. Poi l’aereo decolla e tutto passa lentamente, la pressione si allenta, i polmoni si rigonfiano, leggermente affannati e lo stomaco riprende il posto che madre Natura gli ha assegnato, dandoti un leggero solletichio sul ventre. Io sono fuori invece, a bordo pista, appena dietro la rete di protezione. Poco distanti da me decine di appassionati, con tanto di macchina fotografica professionale, sperano di immortalare il “momento perfetto”, che è il loro, diverso per ognuno. Alcuni cercano di catturare l’istante esatto in cui il carrello davanti si stacca dalla pista, quando, con le ruote posteriori ancora poggiate sull’asfalto, l’aereo sembra una motocicletta impennata da qualche imprudente giovanotto. Ce ne sono altri, al contrario, che aspettano ancora qualche istante prima di scattare. Stanno posizionati con l’obiettivo verso l’alto, aspettando la virata, per immortalare il velivolo per intero nel cielo, senza lo spettro delle costruzioni urbane come sfondo. Se ce la fai sembra che l’aereo sia piatto e che perda di tridimensionalità, come una sagoma ritagliata e appiccicata a un soffitto azzurro; almeno così mi ha detto un tipo che ci prova da tempo e con buoni risultati, a sentir lui. Io sto qui per altri motivi, non sono un appassionato di fotografia e tantomeno di aeroplani. Il mio è un motivo più intimo che mi spinge, ormai da un paio di settimane, a venire ai cancelli dell’aeroporto tutti i pomeriggi, intorno all’ora del tè. Il mio è un conto alla rovescia, nient’altro. Conto i giorno che passano, conto quelli che mancano. Oggi sono tredici, mancano tredici giorni alla mia partenza. Tra tredici giorni esatti proverò anch’io le sensazioni del decollo. Non è la paura, o il bisogno di prepararmi al volo che mi portano ad aggrapparmi a questa rete. Il motivo che mi spinge a venire qui tutti i giorni è il senso di colpa. Mi sento in colpa perché ho deciso di lasciare, di non crederci più, di cedere il testimone a qualcun altro e di andarmene. Non ci credo più, quindi è inutile per me rimanere qui a marcire, abulico. Ci ho creduto fino al limite, mi sono impegnato investendoci tutte le mie energie, mi sono battuto e nulla è cambiato. Come me, prima di me, molti se ne sono andati a cercare fortuna all’estero. «L’Italia è ormai alla frutta», mi disse un caro amico abbracciandomi forte. «Vattene anche tu, prima che sia troppo tardi!», continuò a ripetermi salendo gli scalini verso il gate d’imbarco. Ma io non gli risposi e con il pugno al cielo, mi girai senza più voltarmi indietro. Questo però è successo due anni fa, oggi è tutto diverso. I progetti culturali, le iniziative per ripartire e creare un momento concreto di cambiamento, sono crollati come castelli di sabbia esposti a tramontana. Sbriciolati senza lasciare traccia, se non nella memoria. Io non sono un campanilista e tantomeno un nazionalista, anzi è il concetto di internazionalismo che mi ha sempre caratterizzato e condizionato nel profondo. Però amo la mia terra, dal grigio nord, che ha visto i miei natali, fino al profondo sud, che da colore al mio sangue. Amo il mio paese, che è un non paese. Un paese costruito a tavolino, per le esigenze di pochi e sulle spalle di molti. Un paese fatto di più culture differenti che si sfregano l’una contro l’altra, logorandosi e incattivendosi. Ma è la mia terra e per me posto più bello non c’è. E allora sto qui, aggrappato a una rete che ne ha visti di addii, che ne ha contate di lacrime. Provo rabbia, detonante e impaziente, per questa terra. Una terra fatta di gente che gioisce se la razione di cioccolata passa da cento a centoventicinque grammi a testa e non dice niente, invece, se il diritto all’esistenza viene calpestato e deriso. Ma non eravamo il paese dell’arte e della cultura? Non eravamo la culla della civiltà? E allora, dove sono finite? Forse sono stramazzate al suolo sotto i colpi di pistola e le manganellate genovesi e partenopee, oppure sono state inghiottite dalla nuova realtà, quella subliminale e mediatica, che ci hanno disegnato addosso e che ci impongono. Pensavo proprio a queste cose, quella mattina che l’inattesa lettera faceva capolino dalla casella della posta. Come sempre, in ritardo e trafelato, l’ho presa al volo senza guardarla, l’ho infilata nella tasca del cappotto e mi sono lanciato verso l’autobus in fuga. Più tardi, in facoltà, dopo ore di dimenticanza mi è ricapitata in mano, mentre cercavo nelle tasche le sigarette. Università di Città del Messico, diceva l’intestazione in alto a sinistra. Era indirizzata proprio a me, c’era il mio nome scritto in maiuscoletto. La gola mi si stringe, le mani mi sudano e le tempie fanno il verso al cuore, pulsando in controtempo. Hanno accettato la mia domanda di dottorato, non ci pensavo nemmeno più. L’avevo inviata in un periodo di sconforto, quando i miei settecento euro mensili, di borsa di studio, mi erano volati via in un quarto d’ora. Era circa quattro mesi fa. Allora, assalito al petto dal bisogno strenuo di una vita dignitosa , avevo inviato la domanda, certo di non essere preso, solo per alleviare l’ansia. Invece eccola qui, con un’offerta di dottorato per tre anni a duemila euro al mese. Volto la testa dall’altra parte, senza riuscire di leggerla per intero. È arrivato il mio momento, ci sono io adesso al bivio e devo scegliere. O dentro, o fuori. Non posso rinunciare, ovviamente, mi sento in dovere di accettare. Devo per me, per la mia famiglia e per cercare di realizzare quello che ho sempre desiderato. Non è giusto rimanere attaccato a qualcosa di moribondo, di agonizzante e perire lentamente anch’io. Allora ripiego la lettera con cura, chiudo l’uscio di casa a chiave e vengo qui all’aeroporto a guardare la gente partire, per cercare di espiare la colpa di questa scelta, assordandomi con i rombi dei propulsori, per intontirmi e lenire il senso di colpa.

Cristian Giodice

* Continua tra una settimana…