Storia nera

di Pierluca D’Antuono

Mi prende da dietro all’improvviso con un colpo violentissimo e non respiro più. Ho paura. Sento il suo respiro caldo sul mio collo gelido e un brivido come una lama mi squarcia di lungo la schiena. Per terra, in ginocchio, mi tiene per i capelli con le sue dita nere e tozze e al ritmo di stantuffi spezzati sotto scarponi chiodati mi sbatte la testa sui binari marci e arrugginiti. I denti esplodono in frantumi, ingoio brani di lingua lacerata e vomito in una pozza oscura di sangue. Mentre allenta la sua morsa slacciandosi i pantaloni, tento di voltarmi per guardarlo, ma il fruscio della cinta che scivola tra i passanti tuona nella mia testa come un’unghia su una lastra e allora ride di piacere e in un colpo con lo stivale mi spacca il naso che esplode (non era difficile) e mi strappa i pantaloni; chiudo gli occhi e aspetto
(respira!)
all’improvviso non accade più niente. Davanti a me sento bambini gridare e una voce morbida e infantile chiamare il mio nome dolcemente. Una carezza mi ravviva i capelli insanguinati e mi culla con amore, non piango più e le ferite si rimarginano, ma dietro di me sento ancora il suo sorriso che incombe, i denti d’oro brillare e il tanfo spaventoso delle sue mani sporche e oscure pronte a ricominciare. Ma è nella mia testa, apro gli occhi per vedere e lui non c’è.
Allora capisco.
Ci sono solo due bambini, sono i figli dello zingaro che ieri sera Mattia ha pestato a Piazza Vittorio. Era sicuro che lo avessero scippato. Mentre lo prendeva a calci ho detto a una signora di chiamare l’ambulanza, e prima che arrivasse ce ne siamo andati.
(respira!) Leggi il resto dell’articolo

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La società dello spettacaaargh! – 11

[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7 – 8 – 9 – 10]

Caro Matteo,

ho ragionato un po’ sulla tua analogia tra piani meta- e geometrie di Escher: non era proprio così che me l’immaginavo, e questo mi ha portato ad analizzare meglio il concetto, che avevo delineato in modo approssimativo e frettoloso.
Con “inerpicarsi di piani meta-” intendevo ciò che scopriamo in quelle discussioni che finiscono quasi subito per vertere su cosa si è detto, sul perché lo si è detto, sul fatto che lo si è detto (talvolta addirittura qui, si finisce) etcetera; meta-discussioni, insomma, spesso snervanti, che sono favorite dall’epidemica comunicazione in forma di trolling (e in generale da quel fenomeno della comunicazione nel quale Mario Perniola ravvisa il discorso psicotico): il discorso del troll è talmente disgregato – spesso inconsapevolmente – e superficiale – nel senso proprio che pare un’increspatura della superficie – che la prima cosa che ti viene da fare è chiedere conto dei presupposti, tentando di mostrare al tuo interlocutore quanta complessità e quanto pervertimento dei significati si celino in quelle che lui pretende essere verità lapalissiane. La cosa interessante è che ai suoi occhi è il tuo meta-discorso che inerpica piani meta- e si allontana dal reale, mentre per te il tuo meta-discorso non fa che scoprire, a ritroso, in direzione del reale, la somma di piani occultati sui quali il discorso del tuo interlocutore si muove: l’impressione prodotta nel tuo interlocutore dal tuo meta-discorso, di un ulteriore allontanamento dal reale, è causata dal fatto che stai spostando l’attenzione dalla realtà dell’originario oggetto del dibattere alla realtà dell’esistenza del piano meta-, che però, per chi vi si muove sopra, è occultato, quindi il tuo meta-discorso scade, agli occhi dell’interlocutore, a pippa. Leggi il resto dell’articolo

La società dello spettacaaargh! – 7

[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6]

Caro Matteo,

prima di arrivare al «Che fare?» – soprattutto perché ancora non ho la più pallida idea di cosa si debba fare – vorrei riprendere le mosse dall’assurdo come «distruzione di relazione logica con la realtà», forte anche della tua analisi delle catacresi.

Un discorso forse meritava maggiore articolazione e precisione: quella faccenda dell’Illuminismo e di Kant. Cosa dice Kant a proposito dell’Illuminismo? Dice che l’Illuminismo è l’uscita dalla minore età mentale: l’Illuminismo per Kant è la presa di coscienza e l’assunzione di responsabilità delle proprie scelte.1
Ora, se ci pensi bene, l’autonomia della coscienza è possibile solo rispetto a una realtà, a una verità, a una logica, a una sostanza partecipabile, accessibile, oggettiva: si ha coscienza di qualcosa. Quindi Kant infine dice una cosa ovvia ed enorme: che noi abbiamo accesso al giusto, al vero, al buono, al bello; e dunque non abbiamo bisogno di uno stato etico totalitario o di una chiesa che stabiliscano un *giusto*, un *vero*, un *buono*, un *bello*, e che ci persuadano a ricercarli e praticarli con un sistema di premi e punizioni.2 Leggi il resto dell’articolo

La legalità? Attenti a quando scade! /5

La legalità scade perché è frutto di una dialettica, quindi maciullata dal meccanismo dell’integrazione fra opposti. Ad aggravare la mobilità della legalità ci si mette il sistema economico industriale che, strappando all’agricoltura (sottoposta molto di più a vicissitudini extraumane) il primato produttivo, consente all’uomo di darsi sue proprie regole di vita in misura decisamente maggiore. E qui nasce il problema: queste regole che l’uomo si dà sono di valore o di principio? Leggi il resto dell’articolo

La legalità? Attenti a quando scade! /4

La regola che Giustiniano desunse dal diritto romano e schematizzò nel Corpus luris Civilis è solo un’altra interpretazione che l’uomo ha voluto dare indirettamente alla legalità agendo sul significato di giustizia. Non c’è da chiedersi se oggi la formula «Honestae vivere, alterum non ledere, suum cuique tribuere» abbia ancora valore (visto che è diventata una regola di costume), ma se ne abbia mai avuto (teoricamente) e quale sia stato il suo reale significato (praticamente).

In tal senso, la situazione italiana a oggi è eccitante da un punto di vista speculativo.

Le vicende giudiziarie di Berlusconi sono in realtà le variazioni di un tema maggiore: che armi si possono adottare per proteggersi dalla legge? “Perché dovrei tutelarmi dalla legge?” ci si potrebbe chiedere a questo punto. Il motivo è presto detto: se la domanda delle domande è chi sorveglia i sorveglianti, e quindi chi deve controllare la magistratura, significa che in pratica è il sorvegliante stesso il vulnus del sistema giuridico. Leggi il resto dell’articolo

La legalità? Attenti a quando scade! /3

Col Giusnaturalismo osserveremo la nascita di una concezione di giustizia che si basa sulla reciprocità, come la giustizia commutativa di Aristotele, e sul sistema di limitazione reciproca (secondo cui la propria libertà finisce dove comincia quella degli altri). E in ogni caso si tratta di un diritto connaturato con l’uomo, anteriore a qualsiasi altra legge scritta.

Avremo un cambiamento radicale con Hobbes, che teorizzerà l’esistenza del diritto naturale di tutti su tutto, che automaticamente si vanifica piombando nell’ambito della casualità e dell’arbitrio soggettivo. Egli sosteneva – rientrando pienamente nell’ambito del nominalismo – che se non vengono scritte leggi, non è possibile infrangerle; per questo, finché non si trova un capo assoluto a cui affidare il destino della comunità, le leggi non esisteranno e tutti potranno agire liberamente secondo il suddetto diritto che tutti possono vantare nei confronti di tutto. Insomma, ci dice che non esiste alcuna regola a cui dobbiamo sottostare che non abbiamo codificato noi stessi. Per dovere di chiarezza, inoltre, bisogna dire che perfino Hobbes aggiungerà che serve un capo a cui sottomettersi per poter trovare un ordine in cui vivere serenamente. Leggi il resto dell’articolo

Elogio dell’ignoranza

L’uomo non somiglia alla scimmia solo perché ha in comune con lei il corredo genetico o, come vorrebbe Jorge de Burgos, il riso. L’uomo ha in comune con la scimmia, essenzialmente, la curiosità. Il lato distintivo dell’intelligenza è la curiosità, è risaputo, lo dice anche Aristotele nella Metafisica («Tutti gli uomini, per natura, desiderano sapere») che il genere umano tende sempre a sapere o a cercare di sapere. Dello stesso parere sembrava Martin Heidegger quando diceva «Non possiamo non chiedere perché». Ed è proprio questa la parolina magica: “Perché?”. Tutto parte sempre da qui: “Perché?”. Ma supponiamo, per amor d’ipotesi, che l’uomo fosse onnisciente. La spinta al conoscere non ci sarebbe. Di conseguenza non ci sarebbe neanche la curiosità. E se non ci fosse la curiosità, il carburante per il meccanismo dialettico intellettivo, inevitabilmente, andrebbe in malora.

Come gli immortali che Borges descrive ne l’Aleph si sono disamorati della vita, così le ipotetiche creature onniscienti sarebbero poco più che dei dogmatici col cattivo vizio dell’aver ragione. «Solo l’individuo libero può meditare e creare, in questo modo, nuovi valori, sociali», disse Einstein, ma se è onnisciente non ha libertà perché le sue stesse conoscenze lo limiterebbero come se fosse (questo voleva precisamente dire Einstein) in una dittatura. Non creerebbe valori sociali perché in una società di onniscienti non c’è nulla da creare o da dire che non sia già stato concepito. L’onniscienza porterebbe all’inazione e all’ignoranza dialettica. Se tutti sappiamo tutto, che bisogno c’è di parlare e interagire? So già che vuole il mio prossimo da me, so già che lui sa tutto e so che lui sa che io so tutto. «L’uomo è il principio delle azioni» (Aristotele) solo se ha bisogno di tali azioni. E un non-onnisciente messo con un onnisciente? Certo che ci sarebbe dialogo: ma sempre e solo per la curiosità del non-onnisciente. Se sbaglio e vengo in possesso della verità, imparo. Se non sbaglio e so già tutto, non imparo e vegeto. «Una cosa è dimostrare che un uomo ha torto, una cosa è metterlo in possesso della verità», teorizzò Locke nel Saggio sull’intelletto umano, ma ovviamente lui si riferiva a persone normali, cioè non in possesso della verità. Gli onniscienti sono già in possesso della verità, la loro vita è grigia e senza sorprese, già scandita e definita. In loro è radicata la gnoseologia della capra cotta, che ben si sa dove può andare. Da nessuna parte!

«La verità dovrebbe essere il respiro della nostra vita», disse Gandhi, ma un respiro non deve arrivare a soffocarci. In un mondo di onniscienti Machiavelli non sarebbe mai esistito, non avrebbe mai scritto «Colui che inganna troverà sempre chi si fa ingannare» ne Il principe: chi devi ingannare fra onniscienti? L’onniscienza, portando all’immobilità intellettuale, porta anche al pragmatismo più sfrenato: da qua il possibile, da là l’impossibile, da là l’opportuno, da lì il nocivo. Questo vuol anche dire fine delle aspirazioni: «Un’aspirazione chiusa nel giro di una rappresentazione; ecco l’arte» (Benedetto Croce, Breviario di estetica). Fine dell’arte. Come sempre parlava bene Einstein a un’umanità di non-onniscienti: «Ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto» (nel suo Come vedo io il mondo). Quanto c’è d’umano in un onnisciente?

In La democrazia in America il Tocqueville dice che «I popoli democratici provano per la libertà un gusto naturale». Questo lo pensava lui, ma in un mondo di onniscienti la libertà e la democrazia sono un optional: che me ne faccio di un ordinamento se io stesso conosco l’ordinamento dell’universo? E anche l’amore ci andrebbe di mezzo: fine della conquista (so già chi, come, dove, quando, perché conquistare), fine della passione (so tutto dell’altro, non ho il gusto della scoperta e della quotidianità e dell’intimità romantica), fine del «Quel che si fa per amore è al di là del bene e del male» (Forza Nietzsche!). Boezio, nella Consolatio, dice che «ogni condizione è felice quando sia accettata, con sereno equilibri»”: questo è proprio l’atteggiamento dell’onnisciente. Sereno equilibrio. E poi si finisce come Boezio: a pelar patate su una roccia aguzza mentre castori demoniaci ti mordono le chiappe. Addio Newton che con gli occhioni sognanti ti domandi: «Da dove provengono l’ordine e la bellezza che vediamo nel mondo?» (argomento poi distrutto da Richard Dawkins in L’illusione di Dio). In un mondo d’onniscienti lo prenderebbero a calci nel sedere e gli darebbero dell’imbecille. A Newton. Come consolazione potrebbe rimanere la bellezza che, come diceva Nietzsche, ha la voce sommessa per essere compresa sola dalle anime più deste. Ma il filosofo parlava di anime deste, un onnisciente – lo abbiamo visto prima – è ormai dormiente e anestetizzato. Insensibile, forse anche alla bellezza.

E allora, tirando le somme, si direbbe che a essere onniscienti, non solo si perde il gusto delle cose, ma anche quello della vita stessa. Non esiste un mondo di onniscienti perché «La totale privazione del bene, dunque, significa inesistenza. E, viceversa, l’esistenza suppone il bene» (Sant’Agostino lo dice nelle Confessioni) e «L’uomo seleziona a proprio beneficio, la natura a beneficio di ciò che accudisce» (Darwin lo dice ne L’origine della specie).

 

Antonio Romano

La tessera

Scoreggiai di riflesso sul finire di quella telefonata. L’aria calda sciolse per pochi istanti i muscoli un po’ intirizziti dal primo vero freddo invernale, e distolse i pensieri dalle chiacchere inutili di cui Frasko stava iniziando a indurirmi la testa. Fu solo mentre riagganciavo che intuii di aver potuto suscitare qualcosa di interessante nei sensi primari del tipo che aspettava l’autobus dietro di me; voltatomi mi offrì un’occhiata trasversale.

Lasciai la fermata dove avevamo concordato di incontrarci e decisi che avrei proseguito a piedi. Al passo spedito che quella sera di fine novembre richiedeva, non ci sarebbero voluti più di una decina di minuti. C’eravamo dati nuovo appuntamento direttamente in S. Lorenzo.

Iniziò a piovere, ormai non ci facevo più caso. Fin dall’adolescenza non avevo mai amato molto gli ombrelli. Strumenti con cui la borghesia si era popolarizzata e quindi si era diffusa. Come l’ascensore fino al terzo piano.

Arrivai con una buona mezz’ora di anticipo. Non capitavo a Roma praticamente dagli anni degli studi. Erano gli anni della Pantera, quando per l’ultima volta i giovani si erano ricordati che si può costruire tutto quello che si può immaginare. O almeno ci si poteva andare vicino.

Anche il quartiere di S. Lorenzo lo sentivo diverso, proprio nel suo sembrarmi rimasto uguale per molti aspetti. Stessi riferimenti politici, stesso tipo di scritte sui muri, stesso tipo di locali. Ritrovavo alcuni di quelli che erano stati i luoghi più importanti e significativi dei miei vent’anni. Avrei dovuto esserne entusiasta, e d’entrata lo ero al riaffiorare di ricordi vivi, belli per lo più, che erano rimasti appiccicati agli angoli di quelle strade. Solo che vedere quei luoghi così simili nell’essersi trasformati, a distanza di vent’anni e sapendoli essere stati prima altrettanto simili e diversi per almeno altrettanti anni, defluiva il mio entusiasmo in un senso latente eppure nitido a tratti, di spettacolo, rappresentazione. E mi puzzava.

Almeno i ragazzi, abbivaccati ancora come una volta a quell’ora in p.zza dell’Immacolata, pur nell’eterno ritorno della festa sembravano avere altri segni, altri simboli, altre maschere. Sì, in fondo doveva essere spettacolo anche quello. Fu l’ultimo pensiero che mi passò per la testa prima di infilarmi nel primo locale che mi capitò a tiro.

Mi avvicinai al banco con l’idea di aspettare Frasko là dentro. Non c’era molta gente seduta ai tavoli di quel martedì sera, l’ambiente ideale per rincontrare un vecchio amico senza restare intrappolato nella tela dell’esistenza.

«Vorrei una chiara media, grazie».

La ragazza era piuttosto grassoccia e aveva l’aria di una che era stata messa lì da poco tempo.

«Sì, guardi, noi siamo un club, se è la prima volta che viene da noi le faccio subito la sua tessera personale, non costa niente, è assolutamente gratuitaecco qua guardi, compili nome e cognome, dati personali»

Impossibile trovare il punto in cui spezzare il discorso. Aspettai inchiodato che finisse.

«Guardi, io veramente non sono della zona, passavo soltanto per prendere una birra e aspettare un amico, ma me ne vado domani, non credo convenga né a me né a voi farmi una tessera che poi non riutilizzerei»

La ragazza sembrò per un attimo non sapere bene cosa dire. Poi riattaccò.

«Guardi, noi veramente siamo un club, se vuole consumare devo prima farle la tessera, non costa niente e può riutilizzarla in qualsiasi momento, oppure rinnovarla sempre gratuitamente».

Mi liberai con pochi convenevoli.

Improvvisamente mi accorsi di quanto fuori facesse freddo. Sentivo avvicinarsi la mia stagione preferita, l’inverno. L’unica dove il lento morire nel divenire del tutto rendeva veramente indispensabile far traboccare le energie del corpo e della mente, e quindi l’empatia col Mondo.

Cercai subito un altro posto lì vicino dove andarmi a rintanare.

Stavolta non dovetti fare neanche la fatica di arrivare al banco. Appena varcata la soglia mi incalzò un ragazzo dal volto inutile più dei suoi capelli a spazzola, seduto dietro a un tavolino.

«Buonasera, ha già la nostra tessera oppure»

Non gli detti neanche il tempo di finire il preambolo. Feci finta di guardarmi un attimo intorno, poi girai i tacchi e me ne andai.

S. Lorenzo. Il quartiere storico della Resistenza romana. Il quartiere della contestazione studentesca e della cultura alternativa. La Kreuzberg italiana. La “normalizzazione” aveva funzionato alla grande. Tutto assumeva ora chiaramente i tratti di una grande rappresentazione programmata per andare in scena ogni giorno, magari cambiando ogni tanto un po’ di allestimento e di sceneggiatura, qualcuno dei suoi protagonisti e delle comparse, purché restasse costantemente invariata la trama di fondo. Sì, adesso improvvisamente era tutto molto chiaro.

Ma ci vogliono almeno tre prove per sentenziare un colpevole, pensai. Stavolta però decisi che avrei buttato prima un occhio all’insegna del locale, pensando forse inconsciamente di potervi leggere dietro nascosta una trappola o meno.

“La burrasca”. Avevo preso per una strada secondaria. Se mi vogliono schedare anche qui, mi dissi giuro che ringiovanisco di vent’anni e rispolvero uno dei buon vecchi sit-in di disobbedienza civile.

Non feci in tempo ad arrivare al banco neanche stavolta. Stesso tavolino a ridosso della soglia, stesso garzone inutile appostato di sentinella.

«Salve, ha già la nostra tessera o»

«Senta, non la voglio la vostra tessera del cazzo, sono qui solo per aspettare un amico, non prendo neanche niente da bere se necessario, mi basta potermi mettere a sedere e aspettare dieci minuti. Dieci fottuti minuti che arrivi il mio amico per ripararmi dal freddo assassino che c’è la fuori, capisci? Nient’altro».

Aveva i capelli neri rasi, il capo stondato e gli occhi ignari di un ragazzo di vent’anni.

«Veramente signore la consumazione all’interno del locale sarebbe obbligatoria.. e poi il tesseramento lo dobbiamo fare anche per semplice permanenza in esercizio privato, per la questura insomma»

Avevo voglia di vomitare. Al mio paese in provincia di Treviso c’era molta più libertà di movimento.

«Senti guarda facciamo così: io mi metto a sedere senza ordinare niente e aspetto che arrivi il mio amico. Appena viene facciamo insieme questa benedetta tessera e ci beviamo qualcosa, ok? Oppure ce ne andiamo».

Il garzone alzò le spalle in segno di impotenza. Andai a sedermi a un tavolo per due, ma mi accorsi che mi gettava qualche occhiata ogni tanto. Squillò il telefono. «Frasko!Pronto! Sì, sto qua, sono ad un locale che si chiama “La burrasca”, lo conosci? Ah, okperfetto allora ci vediamo qua fra cinque minuti»

Il garzone continuava a tenermi d’occhio, ed ebbi la sensazione che avesse allungato l’orecchio durante tutta la telefonata. Mi alzai per andare al bagno.

La porta del cesso unisex di quella bettola rivestita di legalità non si chiudeva nemmeno. Mi ricordai non senza una risata cretina, che con Frasko ci eravamo conosciuti proprio dentro un cesso come quello. Io strippavo sconfitto da una serata in cui avevo scommesso col proprietario che mi avrebbe lasciato in gestione il locale se mi fossi scolato un’intera cassa di birre entro chiusura. Lui, Frasko, passava solo per fare quel che stavo facendo io adesso.

Fui interrotto bruscamente nel mio sforzo muscolare al basso ventre che ancora me la ridevo, una ragazza aprì senza guardare pensando di trovare libero. La smorfia che ne uscì fuori l’istante che mi voltai non doveva essere rassicurante, a giudicare dal raptus con cui la biondina richiuse. «La decadenza della civiltà occidentale,» diceva un vecchio filosofo, «si vede anche da come la gente sbatte le porte».

Uscii tirandomi su la zip e lasciando via libera alla bionda. Il gabinetto dava sulla sala principale. In mezzo, un uomo ben piazzato con un lungo cappotto scuro tentennava guardandosi attorno circospetto. Aveva indurito i lineamenti del volto e di tutta quella sua cenestesi che già all’epoca sapeva incalzare le assemblee e i cortei di protesta. I pantaloni di jeans un po’ attillati, il maglioncino in stile casual rigato orizzontale, la barba fatta e i capelli corti tagliati con cura; tutto adesso in lui contribuiva a dare un senso di apollineo a quel ragazzone di borgata che avevo conosciuto come un impareggiabile compagno di sbronze.

«Frasko!»

Aprì a un sorriso contenuto il suo volto laconico senza dire niente. Ero troppo su di giri nel vederlo così, in quello stesso quartiere, dopo tutti quegli anni in cui non ci eravamo più nemmeno sentiti per telefono, prima di beccarci su Facebook qualche mese prima quando per la cooperativa di teatro sociale ero stato praticamente costretto ad aprirlo.

Era proprio lui, Frasko. Sì, doveva essere pur sempre lui dentro quei panni, e sotto il peso di quei due decenni che in un istante sembravano essere durati un’eternità. E sì che a colpo d’occhio non sembrava neanche tanto invecchiato.

Istintivamente inscenai una scazzottata. Sapevo dentro di me che era l’unico modo per potersi salutare autenticamente, e dirsi che tutti quegli anni ce li scrollavamo di dosso in pochi gesti. E lui rispose per le rime, come ai vecchi tempi.

Simulai un paio di dritti al volto che egli schivò con premura, poi un gancio allo stomaco con cui contrasse l’addome senza però scomporsi più di tanto. Capii subito che non era più lo stesso. Spontaneamente mi venne da chiudere quel siparietto ormai ridicolo con un vero colpo, simbolico, alla spalla, accompagnato da un sonoro «come va!»

Partì il rovescio che egli cercò ancora una volta di schivare d’istinto con un braccio, in un movimento però innaturale, quasi fosse abituato a dover proteggere qualcosa a quell’altezza. Il pugno decollò scheggiando l’arto proteso e schizzò via come un’anguilla, andando a fracassare brutalmente proprio in mezzo al faccione ancora stentatamente sorridente di Frasko.

Non ci vedevamo proprio da un bel pezzo, Frasko ed io. L’ultima volta era stato in un posto come quello, e il suo saluto di allora aveva la stessa forma del mio adesso, ma molta più veemenza. Dietro c’era una storia con una certa tipa, che poi col tempo sarebbe diventata quella che era ancora la mia compagna attuale, e il mio brutto vizio di voler liberare la gente dal senso piccolo borghese del privato. Il tutto si intrecciava a quello che all’epoca, non privi di una certa eccitazione da intellettuali radicali, chiamavamo «il nuovo ruolo possibile autodeterminato della donna all’interno della lotta più complessiva per l’emancipazione della classe operaia e lavoratrice in generale»; e ad un vecchio slogan, credo fosse degli anni ’70, che qualcuno dei nostri non aveva trovato niente di meglio da fare che rispolverare per l’occasione; diceva:

Non c’è niente di più tristo del maschio femministo. Vedi Cristo.

Barcollò un paio di passetti all’indietro prima di ritrovare l’equilibrio in fondo all’inerzia su quel destro stregato, ma tutto sommato rimase abbastanza composto anche stavolta.

«Oddio Frasko, bello, scusami, non l’ho fatto apposta; mannaggia che figu»

Rimasi qualche istante piegato in due sullo stomaco a capo chino, poi subito stramazzai a terra senza riuscire in alcun modo a respirare.

Tutto intorno nel locale era calato un silenzio tombale. Solo nel momento in cui ebbi la chiara percezione che sarei morto asfissiato, riuscii ad iniziare a inalare un po’ d’aria.

E mentre rantolavo con i crampi allo stomaco per il colpo da maestro che mi era stato inferto, una sola parola si eresse pesante come un macigno sopra quel silenzio, rivolta con ogni probabilità al garzone appostato all’entrata dietro il tavolino: «DIGOS».

Così mi sistemai anche per la notte, e sì che stavo per chiedere a Frasko qualche dritta a riguardo. Di tutto il resto, di vent’anni volati via in mezzo a due pugni, non volli dirgli o chiedergli niente neanche mentre mi accompagnavano in questura. Là dove erano iniziati, adesso avevano fatto ritorno, e in quegli istanti ci eravamo detti tutto.

Addosso avevo un diecino di ganja e anche un po’ di coca, cui andarono ad aggiungersi le lesioni a pubblico ufficiale e la retinenza alle norme di sicurezza del locale. Mi dettero un blocco di ventiquattro ore ma alla fine me la cavai verso metà giornata, convinto che il mio vecchio amico Frasko avesse voluto chiudere un occhio dopo essersi tenuto perlomeno il fumo.

Appena fuori avevo voglia di farmi una birra e mi andai ad infilare nel primo posto carino che incrociai. Conservo gelosamente la tessera nel portafogli dietro la carta d’identità. Convinto che prima o poi riuscirò ad avere in omaggio almeno la maglia

Don’t drink water, fish fuck in it.


Eduardo Olmi