novembre 1, 2010
di scrittoriprecari
Dopo aver letto i loro bei romanzi, ho deciso di porre alcune domande a quattro giovani scrittrici (Simona Dolce, Antonella Lattanzi, Serena Maffia e Rosella Postorino), accomunate sia dalla scelta di trasferirsi a Roma dal sud Italia, che dall’aver pubblicato recentemente dei romanzi che, seppur nella loro diversità stilistica e nella varietà delle tematiche affrontate, mi sono sembrati capaci di dialogare a distanza su alcune questioni importanti.
Simone Ghelli: Da un po’ di tempo si parla dei tanti italiani, soprattutto giovani appena laureati e in cerca di lavoro o di una possibilità di continuare la propria carriera universitaria, che emigrano all’estero. Voi, in un certo senso, avete invece compiuto una migrazione interna, dal sud verso la capitale. Come vivete questa doppia situazione: da una parte lo sradicamento dalla vostra realtà e dall’altra la scelta di rimanere in un paese sempre più sfilacciato, che perde ogni giorno pezzi della propria memoria?
Simona Dolce: Comincio dicendo subito che la mia non è una scelta. Se padroneggiassi un’altra lingua emigrerei e userei quella per scrivere. Ma la mia lingua è l’italiano e per me è una scelta obbligata usarla. Dico che me ne andrei e sono consapevole delle conseguenze delle mie parole. Non sarebbe una rinuncia la mia, né un atto di disprezzo. Semplicemente so, come moltissimi italiani sanno, che oggi questo paese non è capace di offrire, di accogliere, di coltivare sentimenti positivi e costruttivi, non è capace di generosità né di bellezza. Mi pare che tutto venga sporcato, infangato dall’invidia, dal menefreghismo idiota, dalla povertà morale ed economica. È un paese che ha dimenticato le migrazioni compiute dagli stessi italiani fin dagli ultimi decenni del 1800. «Quello che prima era stato giudicato e che ha perso la memoria di esserlo stato, giudicherà. Quello che è stato disprezzato e finge di averlo dimenticato, raffinerà il suo stesso disprezzare. Quello che ieri è stato umiliato, umilierà oggi con più rancore». Uso le parole di Saramago perché mi sembra che questa guerra interna sia già cominciata, fra nord e sud, fra poveri e poverissimi. Il disprezzo, il rancore, l’umiliazione non sono mai indirizzati verso i fautori dello status quo ma sempre verso chi arraffa una briciola in più degli altri. I singoli gesti di solidarietà, o di quella che un tempo si sarebbe detta semplicemente umanità, sono sempre possibili e continuano ad avvenire ma è il contesto a essere irrimediabilmente cambiato, e bisogna ammettere che il contesto è tutto quando si parla di una nazione intera. Si può ancora credere che il singolo, nel faccia a faccia con l’altro, agisca secondo criteri “umani”, dunque il bene come il male sono ammessi come sfumature dell’animo umano perché sono complementari, inscindibili. Ma da un punto di vista più generale, un gruppo di persone, i lavoratori precari o i pensionati per esempio, riunite secondo categorie sociali, non sono più capaci di compiere alcun atto umano. Non esiste alcuna lucidità, alcuna lungimiranza, c’è solo assuefazione, incuria, menefreghismo, strafottenza e volgarità. Tutto questo porta al suicidio, ovviamente non del singolo, ma di un paese intero. Il suicido di generazioni e l’assassinio delle future. In questo quadro non posso che condividere chi ha la possibilità e il coraggio di andarsene, perché possiede il desiderio di scegliere. Qui la scelta non c’è. Le opinioni divergenti non vengono censurate, non nel senso classico del termine almeno, ma non trovano spazi di espressione nei canali ufficiali, che, purtroppo, sono gli unici a poter muovere i grandi numeri, le molte coscienze. La mia personale migrazione da Palermo a Roma è frutto di un percorso, letterario e personale, che non ho deciso a priori, è successo. Ma nel mio caso ritengo che lo spostamento sia naturale, persino convenzionale. Voglio scrivere e sebbene possa farlo ovunque è anche vero che ho bisogno di conoscere, di confrontarmi, di cambiare la visuale attraverso cui guardo il mondo, arricchirla. Non mi sento sradicata rispetto alla mia realtà. Roma, per quando diversa e immensamente più ricca di stimoli rispetto a Palermo, è pur sempre una città italiana che soffre le carenze e le brutture di tutte le grandi città. In questo mi pare di essere sempre a casa: lo schifo non conosce confini regionali.
S.G.: In che modo la scrittura rappresenta per voi un modo di riappropriarvi di quella memoria che rischiavate di lasciarvi alle spalle durante il viaggio? Ve lo chiedo perché mi sembra che questo aspetto emerga, secondo tonalità e modalità diverse, nei vostri ultimi romanzi.
S.D.: Raccontare è anche ricordare, riscoprire. Recuperare particelle di memoria e scriverle è compiere un atto di generosità verso il lettore e anche di grande egoismo. Quando scrivo non ho la pretesa, che poi sarebbe fallimentare in partenza, di recuperare la memoria di un paese intero o di un’intera comunità. Recupero solo me stessa. In questo processo naturalmente intervengono molti fattori. Come l’attaccamento alle radici di cui parli tu, il tentativo di restare legati al proprio passato, anche in modo ostinato e ottuso qualche volta. Ma non credo che si tratti, almeno non è così per me, della memoria di fatti storici, piuttosto è la memoria di me stessa. Scavare dentro l’umanità, per il solo piacere di farlo, senza mete prestabilite, messaggi da comunicare, tesi da verificare. La mia umanità, come persona storica calata in questo tempo, riguarderà poi anche l’umanità di qualcun altro, certo, ma l’appagamento sta nel percorso compiuto. Non amo la retorica del passato, dei tempi andati, del “come eravamo”, anche perché sono troppo giovane per saperlo, gran parte delle cose che so sono di seconda o terza mano. Mi interessa ricercare dentro i meandri dell’animo e scoprire che io stessa sono capace di nefandezze, di violenza, di invidia, come anche di amore, di empatia, di comprensione.
S.G.: La memoria è anche la propria lingua, quella che ci si va costruendo. Avete mai pensato di correre il rischio di perdere la vostra lingua durante il processo che vi ha portato non tanto alla scrittura, quanto alla pubblicazione di un libro (mi riferisco da una parte al dialetto, di cui rimangono tracce nei vostri libri, e dall’altra del rapporto che s’instaura tra chi scrive e chi compie l’editing del libro)?
S.D.: L’editing sul mio libro è stato molto leggero, non ha rivoluzionato nulla né della lingua né della struttura. E credo che un editore non sceglierebbe mai di fare un libro con l’intenzione di snaturarne la lingua, piuttosto sceglierebbe di non farlo affatto. Ovviamente se si tratta di un libro con una lingua personale, originale, se parliamo invece della lingua media, quella televisiva, allora il discorso cambia. E sul mio libro, come sul mio lavoro più in generale, non mi sono mai posta il problema di questo rischio. Il prossimo romanzo avrà una lingua ricca, spero molteplice, quella che alcuni con le etichette adesive sempre pronte in tasca marchierebbero come complessa. L’obiettivo sarà trovare un editore affine al mio progetto, convinto del libro. Se così non avverrà pazienza, e non dico questo per un atteggiamento snob nei confronti della macchina editoriale ma nel tentativo di salvaguardare me stessa, la mia scrittura e la mia libertà. Credo che sia importante guardare le cose con distacco e tenersi la bellezza della scrittura, il piacere o il dolore che ne viene, a prescindere dal resto. Perché il rischio maggiore della situazione economica e culturale che viviamo in Italia è l’autocensura. Non che vi sia un potere che dall’alto impone stili, strutture, argomenti, tendenze narrative, ma piuttosto una forma di inibizione individuale del tutto naturale, fra l’altro. Se vedo i libri in classifica o le pile in libreria penso automaticamente, in modo istintivo, ovvio, che per essere lì bisogna scrivere in un certo modo, di certe cose, con un tale tono. È un meccanismo perverso ma del tutto naturale come dicevo. L’aspirazione che muove questo meccanismo ovviamente non è entrare in classifica ma qualcosa di più profondo, se vogliamo un’aspirazione più legittima, cioè di accedere alla possibilità – la sola possibilità – di essere letti da molte persone. Quando questo non accade è necessario esaminare i difetti del proprio lavoro ma anche il meccanismo che regola il sistema. Nella domanda si diceva la lingua… ecco, credo che non esista pericolo peggiore di questo per la lingua di uno scrittore. L’impoverimento non viene quasi mai dal rapporto con l’altro, con un editor o con un editore, ma dalla logica spesso dittatoriale del mercato. Mi sembra che l’unico antidoto a questo siano le buone letture, forse anche quelle meno buone se si è capaci di cogliere almeno un discrimine fra la letterarietà e la narrativa tout court.
Per quanto riguarda la mia lingua. A casa mia nessuno parla il dialetto. Non ho mai davvero sentito il dialetto come lingua che mi appartiene perché non ho mai posseduto una visione del mondo raccontata secondo quel codice. Ma ci sono le letture appunto, e molte parole di dialetto mi arrivano dagli autori che ho scoperto negli anni. È un processo di acquisizioni e cancellazioni. Non vedo la lingua come un patrimonio immutabile, tale dalla nascita e così per sempre.
S.G.: Un altro punto in comune tra i vostri libri mi sembra il tentativo di rendere un’immagine non stereotipata di quest’Italia sempre più ostaggio della televisione. Durante la sua permanenza all’Isola dei Famosi Aldo Busi, tra le varie cose, dichiarò che in questo paese «non c’è più racconto». Pensate che la letteratura possa ancora costituire un’alternativa a questa deriva?
S.D.: Sì, penso che la letteratura sia fra le alternative possibili a questa deriva. Però penso anche che, affinché l’alternativa sia reale, condivisa potenzialmente da tutti, e attuabile, ci sia bisogno di molto più che dieci ottimi libri distribuiti gratuitamente nelle scuole.
È verissimo che non c’è più racconto. C’è solo l’enunciazione dei fatti. Ma d’altra parte dire «non c’è più racconto» significa solo enunciare il problema, nient’altro. E questo atteggiamento è poi molto italiano. Come dicevo la sostanziale strafottenza rispetto alle cose che accadono e che ci coinvolgono, l’indifferenza, l’apatia.
Inoltre, il contesto. Affrontare certi argomenti in televisione non si limita ad essere un gesto inefficace ma diventa persino deleterio. Parlare di letteratura in televisione, come di politica, come di libertà d’espressione significa porre tutto sullo stesso piano. Equiparare per importanza, profondità e pervasività molti argomenti che andrebbero collocati in sedi appropriate per essere davvero discussi e sviscerati. O le veline o gli scrittori. O la pubblicità di automobili o la critica al consumismo scriteriato. E infatti quando questi argomenti vengono trattati, seppur con le migliori intenzioni, diventano costume, quasi mai arrivano a un livello di comprensione profonda del problema.
Si diceva la letteratura. Certo che costituisce un’alternativa ma questo resta vero solo a livello ideale. Calata nella realtà quotidiana la letteratura non riveste alcun ruolo autorevole. Né all’interno delle istituzioni né fuori. Ed è ovvio che sia così perché quello che passa è l’idea che la patente di scrittore sia consegnata a tutti e che i libri siano intrattenimento, e in quanto tale vengono dopo altre forme di intrattenimento ben più allettanti e attraenti. La divisione dicotomica di tutto, bianco/nero, divertente/noioso, leggero/impegnato, va a scapito dei libri belli, cioè quelli che annientano la dicotomia becera e danno spazio alle sfumature, alle possibili diversità.
Simona Dolce ha esordito col romanzo “Madonne nere” (Nutrimenti, 2008), una scandalosa e scellerata storia familiare narrata con una lingua molto personale, che è un impasto di più voci recitate come in un’antica preghiera.
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