La lalofobia come guida spirituale

Da oggi e per alcuni venerdì pubblicheremo i racconti ispirati ai disegni di Lucamaleonte e scritti appositamente per la serata di letture tenutasi al Laszlo Biro il 5 maggio.

La lalofobia come guida spirituale  (breve conferenza su un’immagine contenente fenicotteri)

di Carlo Sperduti

La lalofobia – come fingo di sapere alla stregua di un dato ovvio, e come pretendo di precisare al solo scopo di rendermi comprensibile a tutti, nella deprecabile eventualità che nell’uditorio si nascondano degli ignoranti – consiste in quel particolare tipo di morboso timore patologico che ha come oggetto il semplice atto del parlare; quella condizione, cioè, che mi sarebbe impossibile dichiarare qualora mi ci trovassi io stesso coinvolto. Leggi il resto dell’articolo

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Un altro Natale sulla neve

Il sangue sulla neve ha un potere ipnotico sul cervello.

Forse perché mi ricorda l’amarena sul fior di latte che mangiavo da ragazzino alla gelateria all’angolo della strada. Mi riporta in mente quei sapori dolci fino alla nausea per cui perdevo la testa.

Il sangue sulla neve continua a farmi ricordare quel freddo in bocca, o forse è il fatto che mi sto pulendo la bocca con quel manto bianco che ricopre la foresta. Ogni volta è un macello. Ogni volta una specie di rituale da cui non si scappa. Arriva il primo colpo, poi il secondo. Tu sei lì che ghigni. Il sangue comincia a scendere dal lato della bocca. Il ghigno è sorriso e i denti affilati stridono come treni che cercano di fermarsi perché non hanno più rotaie per proseguire. La lingua schiocca dopo il secondo affondo. La carne si schiude come un fiore prezioso che in sé faceva vivere un frutto succoso, tutto si inonda. Di sangue.

A quel punto l’unica cosa che posso fare è cercare di ritornare in me, di darmi una parvenza di civiltà e pulirmi la bocca. Che diamine! Non sono mica un barbaro! Non sono mica un volgare villano senza educazione. Afferro un pugno freddo di acqua solida. La mastico e torna fiume che lascio scivolare dalle labbra per essere la cascata purificatrice delle mie azioni.

Ogni anno si ripete la stessa scena. Ogni anno sempre più in colpa, ogni anno altro sangue.

Il Natale non è più un’ancora al bambino che ero, è la condanna che si rimanda nel braccio della morte, a pochi passi dalla sedia elettrica. E quella meriterei. Come si possono commettere tali scempi oggi? Come si fa a guardare con i miei occhi la scena a cui assisto annualmente?

Chiedere aiuto agli altri sarebbe facile. Ma cosa potrebbero dirmi loro? I miei fratelli? Mia madre e mio padre? Niente. Che è la nostra natura, che viviamo qui nella foresta proprio per questo, per essere completi e non vergognarcene. Per essere quello che gli uomini sono sempre stati, prima che tutto cambiasse, prima che la catena alimentare fosse stravolta dall’educazione alimentare e dalla civile società moderna. «Mangia per vivere, non vivi per mangiare». Un vecchio adagio. Ma ha ancora senso? Soprattutto per me? Quando il senso di vuoto ti opprime e sai che se non mangerai non vivrai per davvero, non ti sentirai te stesso, completo, forte, ululante. Che il tuo vivere è mangiare. Che due verbi sono i nomi di due fratelli che si staccano la testa a morsi dentro di te per vedersela ricrescere e ricominciare.

Il tempo è passato. La mezzanotte è scoccata. Il sangue è congelato. Come quelle vecchie glassature di quando ero piccolo.

Respiro e rientro in casa, dalla mia famiglia, per gli auguri. Un altro Natale.

E il silenzio delle anime che riposano nei nostri piatti.

Alex Pietrogiacomi

Sradicamenti 4: Rosella Postorino

Dopo aver letto i loro bei romanzi, ho deciso di porre alcune domande a quattro giovani scrittrici (Simona Dolce, Antonella Lattanzi, Serena Maffia e Rosella Postorino), accomunate sia dalla scelta di trasferirsi a Roma dal sud Italia, che dall’aver pubblicato recentemente dei romanzi che, seppur nella loro diversità stilistica e nella varietà delle tematiche affrontate, mi sono sembrati capaci di dialogare a distanza su alcune questioni importanti.


Simone Ghelli: Da un po’ di tempo si parla dei tanti italiani, soprattutto giovani appena laureati e in cerca di lavoro o di una possibilità di continuare la propria carriera universitaria, che emigrano all’estero. Voi, in un certo senso, avete invece compiuto una migrazione interna, dal sud verso la capitale. Come vivete questa doppia situazione: da una parte lo sradicamento dalla vostra realtà e dall’altra la scelta di rimanere in un paese sempre più sfilacciato, che perde ogni giorno pezzi della propria memoria?

Rosella Postorino: In realtà io sono approdata a Roma non da sud, ma da nord. Ci sono arrivata solo nove anni fa, dopo aver studiato a Siena ed essere cresciuta a Imperia. La vera emigrazione l’hanno compiuta i miei genitori, da sud verso nord, ed è un’emigrazione in senso stretto perché si porta dietro il dolore di quello che lasci, del partire come una scelta obbligata. Per me non è stato così: io ho sempre saputo che sarei andata via, e l’ho sempre desiderato. E non l’ho vissuto come un’emigrazione proprio perché la mia partenza non aveva a che fare con lo sradicamento e il portato di sofferenza che implica. A vent’anni avrei potuto anche andare a vivere all’estero. Essere rimasta è stato un caso. Adesso invece è un obbligo. Perché sono arrivata a quell’età in cui partire sarebbe davvero emigrare, cioè essere costretti a farlo per migliorare la propria condizione e in qualche modo dichiarare una sconfitta. Nell’emigrazione c’è un senso di sconfitta. Accade che il posto in cui sei nato diventa inospitale, difficile da vivere. L’Italia di oggi è un posto in cui è difficile vivere: è difficile lavorare, è difficile essere riconosciuti, è difficile, anzi impossibile, fare figli, è difficile essere donne, è difficile essere minoranza. Perché rimango? Perché faccio un lavoro in cui la padronanza della mia lingua è fondamentale. Perché a questo punto della mia vita andarsene sarebbe faticoso. E perché non possiamo fare tutti come dice Berlusconi: andarcene via. Io sono nata in una regione, la Calabria, che ha tre milioni di emigrati. È una diaspora. È la dichiarazione del fallimento, dell’invivibilità, del degrado e della disgregazione di una regione: ma la responsabilità è di tutto il paese.

S.G.: In che modo la scrittura rappresenta per voi un modo di riappropriarvi di quella memoria che rischiavate di lasciarvi alle spalle durante il viaggio? Ve lo chiedo perché mi sembra che questo aspetto emerga, secondo tonalità e modalità diverse, nei vostri ultimi romanzi.

R.P.: Nel mio secondo romanzo, L’estate che perdemmo Dio, ho fatto i conti proprio con le mie origini. Era arrivato il momento. Ho sempre saputo che avrei scritto un romanzo che parlava di emigrazione, perché l’emigrazione dei miei genitori è stata una specie di spartiacque nella loro vita e, indirettamente, un evento fondamentale anche per me. Il bisogno di essere accettati in un luogo «straniero» – fortissimo per un bambino – può spingere a compiacere gli altri, a cercare di assomigliare agli altri. La prima cosa che si impara è l’accento. Gli errori di pronuncia e sintassi che fanno gli altri bambini. Sai che grammaticalmente è sbagliato, ma siccome parlano tutti così, sbagli anche tu. Per essere uguale a loro. Solo da adulta mi sono resa conto di questo processo di separazione dalla mia provenienza geografica e culturale. L’ho affrontato con un romanzo. Ho affrontato il mio rapporto con una regione problematica attraverso il male assoluto che la domina, la ’ndrangheta. Non mi interessava parlare di capibastone e commissari, di killer e attentati. Piuttosto, attraverso la storia di una famiglia non mafiosa ma suo malgrado implicata in una faida, volevo raccontare il confine labilissimo che nel tessuto sociale del Sud italiano c’è tra innocenza e collusione. Il modo in cui un fenomeno criminale di portata internazionale, lungimirante sul piano economico tanto da anticipare la globalizzazione, interviene nelle vite dei singoli individui. Persone che non hanno mai scelto di nascere dove sono nate, ma per le quali la nascita diventa un peccato originale, perché sono costrette a sottomettersi alle regole di un mondo rovesciato, oppure a martirizzarsi come eroi.

Ecco, la presunzione che ha la letteratura è di poter indagare le cose più controverse, evitando le facili dicotomie e tentando di rendere la complessità del reale, di fronte alla difficoltà di giudicarlo.

S.G: La memoria è anche la propria lingua, quella che ci si va costruendo. Avete mai pensato di correre il rischio di perdere la vostra lingua durante il processo che vi ha portato non tanto alla scrittura, quanto alla pubblicazione di un libro (mi riferisco da una parte al dialetto, di cui rimangono tracce nei vostri libri, e dall’altra del rapporto che s’instaura tra chi scrive e chi compie l’editing del libro)?

R.P.: L’uso del dialetto nel mio secondo romanzo non è legato al bisogno di mantenere un rapporto vivo con la mia lingua d’origine, ma è funzionale alla narrazione. Il dialetto aiuta a esprimere concetti che con la lingua italiana non è possibile esprimere. In una storia dove ci sono cose che i personaggi possono dire, e cose che invece non devono dire, l’attenzione alla lingua che usano è fondamentale. Certe cose i personaggi le dicono in dialetto perché solo così le sanno e possono dire, e questo condiziona anche il loro modo di vederle. I dialetti – almeno il mio – sono pieni di immagini, spesso potentissime, di metafore, di iperboli: sono esponenzialmente retorici, e tragici. Hanno dentro un senso del tragico che mostra esattamente il modo in cui quella comunità vive e giudica le cose. Nell’Estate, era indispensabile usarlo. Il dialetto raddoppia le possibilità linguistiche: in questo senso, per uno scrittore, è entusiasmante. Ma va trattato con misura, se no diventa oleografico e folcloristico, e invece di aprire le possibilità della lingua le ammortizza, le anestetizza.

Rispetto a quello che domandi sull’editing, invece, rispondo che è impossibile perdere la propria lingua durante un processo di editing. L’editing è un momento di confronto con un’altra persona, un professionista, che ha l’obiettivo di ottimizzare le potenzialità del libro. Se intervenisse fino a mortificarne il linguaggio farebbe non solo un atto di violenza intollerabile, ma semplicemente un editing cattivo. Non sarebbe nemmeno un editing.

S.G.: Un altro punto in comune tra i vostri libri mi sembra il tentativo di rendere un’immagine non stereotipata di quest’Italia sempre più ostaggio della televisione. Durante la sua permanenza all’Isola dei Famosi Aldo Busi, tra le varie cose, dichiarò che in questo paese “non c’è più racconto”. Pensate che la letteratura possa ancora costituire un’alternativa a questa deriva?

R.P.: È una frase apodittica che fa più figura come slogan che come ragionamento sul paese. Non la capisco, ma forse perché ignoro il contesto in cui è stata pronunciata.

La letteratura non si può opporre a niente, secondo me. Non ne ha la forza. È un discorso tra pochi e sempre gli stessi, non sfiora nemmeno la gran parte degli spettatori dell’Isola o i ragazzini sui muretti delle periferie di Roma o la maggioranza della popolazione tagliata fuori dai discorsi culturali. Lo dico senza moralismo e soprattutto senza snobismo. Chi fa letteratura crede che un libro abbia la forza di colpire, riempire, sconvolgere, far cambiare idea e farsi amare, semplicemente perché nella vita gli è capitato. Ma non capita a tutti. Chi fa letteratura ha bisogno di farla, e se gli chiedi perché, non te lo sa nemmeno spiegare. Probabilmente perché il benessere che prova quando scrive o legge è superiore a qualunque altra cosa abbia sperimentato. C’è egoismo nella scrittura, questo non va negato. Nemmeno demonizzato. Semplicemente, è così. Poi, dal momento che come essere umano ti stanno a cuore alcune cose, e altre ti fanno arrabbiare, ti preoccupano, ti sembrano importanti, ti angosciano, ritieni vadano denunciate, o svelate, o meditate, allora come scrittore cerchi di fare del tuo meglio perché vengano fuori, impegnandoti a trasformarle in una storia. Tutto questo però serve principalmente alla comunità letteraria. Non credo possa servire a tutti. Ma ciò non diminuisce la sua importanza. La sua necessità. Anzi. La letteratura è una forma di resistenza, e i valori che veicola nel corso del tempo possono sedimentarsi, stratificarsi e, in qualche modo, entrare a far parte del nostro immaginario, delle nostre strutture di pensiero, ma è un processo lento e forse marginale.

 

L’ultimo romanzo di Rosella Postorino, “L’estate che perdemmo Dio” (Einaudi, 2009), è la storia di una famiglia non mafiosa costretta a emigrare nel nord Italia a causa di una faida che non fa distinzioni tra innocenti e collusi.

Sradicamenti 3: Serena Maffia

Dopo aver letto i loro bei romanzi, ho deciso di porre alcune domande a quattro giovani scrittrici (Simona Dolce, Antonella Lattanzi, Serena Maffia e Rosella Postorino), accomunate sia dalla scelta di trasferirsi a Roma dal sud Italia, che dall’aver pubblicato recentemente dei romanzi che, seppur nella loro diversità stilistica e nella varietà delle tematiche affrontate, mi sono sembrati capaci di dialogare a distanza su alcune questioni importanti.


Simone Ghelli: Da un po’ di tempo si parla dei tanti italiani, soprattutto giovani appena laureati e in cerca di lavoro o di una possibilità di continuare la propria carriera universitaria, che emigrano all’estero. Voi, in un certo senso, avete invece compiuto una migrazione interna, dal sud verso la capitale. Come vivete questa doppia situazione: da una parte lo sradicamento dalla vostra realtà e dall’altra la scelta di rimanere in un paese sempre più sfilacciato, che perde ogni giorno pezzi della propria memoria?

Serena Maffia: Da poco ho avuto il piacere di conoscere lo scienziato Thomas Brown, uno di quei preziosi cervelli che l’Italia cerca di non farsi scappare attraverso il Progetto Rientro dei cervelli del MIUR. Perché vi parlo di lui anziché di me? Perché da quando lo conosco non passa giorno che mi domandi: ma l’Italia è in grado di non farsi scappare un uomo del genere? Ma per comprendermi meglio, voglio che capiate bene chi è. Thomas M. Brown si è laureato in Fisica con lode all’Università “La Sapienza” di Roma nel 1996 con una Tesi sul silicio amorfo, di interesse per dispositivi fotovoltaici. Dal 1996 al 1997 si è occupato di transistor a film sottile in silicio poli-cristallino come Research Assistant al Cambridge University Engineering Department in cooperazione con la Seiko Epson Corp. Ha poi completato un PhD, e un periodo come Research Associate, su diodi emettitori di luce a polimeri (OLEDs) nel gruppo del Prof. Sir. Richard Friend al Cavendish Laboratory (Cambridge University), collaborando con l’impresa leader nel campo, la Cambridge Display Technology Ltd. Nel 2001 è entrato a far parte, già nel primo anno della sua fondazione, della Plastic Logic Ltd, azienda nata con lo scopo di commercializzare le invenzioni che permettono di adoperare le tecnologie della stampa usando polimeri solubili per la fabbricazione di circuiti elettronici in plastica (OTFTs) e del E-Paper (carta elettronica). È diventato Senior Engineer responsabile per la ricerca e lo sviluppo dei materiali dielettrici e per la deposizione su grandi aree e autore di 9 brevetti. Alla fine del 2005 è rientrato in Italia come vincitore di un contratto del “Rientro dei Cervelli” del MIUR per realizzare il progetto di ricerca di sviluppo di celle fotovoltaiche organiche o ibride attraverso tecniche di fabbricazione di stampa a basso costo presso il Dipartimento d’Ingegneria Elettronica, Università degli Studi di Roma – Tor Vergata.

Pazzesco, che l’Italia oggi debba recuperare i suoi cervelli quando un tempo fu il centro di tutto. Hitler cercò di fare della Germania un nuovo impero romano, e un paese “senza storia”, come l’America, dominò il pianeta. La chiave sta proprio nelle radici. È come l’allievo che supera il maestro, le radici ti tengono ben saldo alla terra ma il cervello ha bisogno di volare. Non so perché Thomas Brown abbia deciso di restare in Italia e non so nemmeno perché l’abbia deciso anch’io. Ogni anno mi dico: «Basta è ora di andare», e ogni anno ricomincio da qui. È come se la fiducia nel passato alimentasse le mie speranze nel futuro. Mi dico: «Se da così in alto si è arrivati così in basso, è tempo di risalire». E invece è solo tempo di delusioni e mortificazioni. Non valgo un unghia di questo Thomas Brown (ho sempre dato il giusto peso alle cose e la scienza ne ha uno, l’arte un altro), però sono convinta che tutte le passioni e le devozioni si trovino allo stesso livello nell’etere, fluttuino tra la terra e le nuvole come una sorta di melassa appiccicosa che impiastriccia ma protegge in qualche modo l’umanità. Non so perché io continui a restare in questo Paese torbido e disorganizzato, forse resto in attesa che torni il sereno appesa al timone della nave in balia delle onde e della tempesta, forse affonderò o forse no, certo è che qualcosa di bello quest’Italia disastrata ce l’ha, altrimenti non continuerebbe ad avere il primato sul turismo.

La Calabria. Devo confessare di aver scoperto da poco di non essere calabrese, cioè di esserlo di nascita ma di non appartenerle veramente. Allora ti chiederai: «Perché dunque ne parli nei tuoi romanzi, nei tuoi racconti?»Probabilmente perché ho voluto conoscerla così come si vuole conoscere il proprio padre genetico, per poi comprendere che il vero padre è quello adottivo. C’è il bisogno in ognuno di noi di conoscersi, di comprendersi e di perdonarci anche, e crediamo che nelle radici ci sia il perché delle nostre colpe. In realtà nelle radici si può trovare solo il perché di un tratto fisionomico, come in me si vede bene che sono calabrese, la pelle olivastra, gli occhi e i capelli castani, il mento sporgente, ma calabrese lo sono solo fuori. I miei libri sono lo specchio proprio di questo disagio d’appartenenza. Così come in Sveva va veloce ricerco il perché di situazioni e modi di pensare che non mi appartengono, nel mio romanzo Stalking e talking con Antonella Clerici in libreria a gennaio per Edilet, parlo di usi e costumi meridionali, come il maschilismo e la sottomissione della donna in ambito familiare e sociale, per me totalmente incomprensibili e inaccettabili.

 

S.G.: In che modo la scrittura rappresenta per voi un modo di riappropriarvi di quella memoria che rischiavate di lasciarvi alle spalle durante il viaggio? Ve lo chiedo perché mi sembra che questo aspetto emerga, secondo tonalità e modalità diverse, nei vostri ultimi romanzi.

S.M.: Ciò che appartiene o è appartenuto non si dimentica, ma la scrittura aiuta a “digerire”. Figlia di un uomo maschilista che la cultura non ha ammorbidito nel suo modo di vivere e considerare la donna nemmeno sulla carta, mi ritrovo a contestare ciò che disapprovo in mio padre attraverso la scrittura. Nei suoi romanzi appaiono esclusivamente donne asservite e sottomesse che sanno stare al proprio posto, o donne che si comportano normalmente e vengono tacciate per pazze o prostitute, cosa questa che mi fa arrabbiare moltissimo e mi fa domandare se sia possibile che un uomo del genere sia veramente mio padre. Questo perché? Perché comunque sia, io sono cresciuta in una realtà completamente diversa dalla sua, che è quella di una città caotica e vorticosa come Roma. Solo attraverso i miei personaggi sono riuscita a comprenderlo e a ritrovare in lui le mie radici, come nella Calabria la mia paternità. Le mie donne sono di carne e di quella sensibilità esasperata prettamente femminile che implica comunque una maggiore intelligenza, se non logica, creativa. Donne che ho immerso in un paesaggio meridionale scoprendole vittime e insoddisfatte di un’esistenza intellettuale troppo stretta. Stalking e talking con Antonella Clerici in libreria a gennaio per Edilet e con la prefazione della stessa Antonella Clerici è per l’appunto il diario di una artista costretta dal marito a vivere da casalinga brava moglie tutta casa e chiesa in una realtà completamente diversa dalla quale era abituata a esistere. La donna dopo il matrimonio è costretta dal marito maniacalmente geloso ad abbandonare la Città e a trasferirsi in un paesino sconosciuto del sud, dove si ritrova sola a subire le angherie della suocera e le violenze psicologiche del marito che invece di dimostrarsi suo amico e complice si rivela suo aguzzino. A farle compagnia non resta che la televisione e Antonella Clerici diventa la sua unica amica. Durante i momenti di sconforto invocherà e chiederà aiuto ad Antonella, finendo con l’interpretare liberamente ogni suo sorriso o gesto televisivo. La depressione e la disperazione aumenteranno con l’inoltrarsi della gravidanza della donna e l’ultima sera di San Remo, dietro suggerimento di Antonella che le strizza l’occhio mangiando una granita siciliana, ucciderà il marito aggiungendo del veleno per topi nella sua granita. Lui muore e lei ha le doglie, San Remo finisce e nasce una bambina che prende il nome di Antonella.

Il romanzo oltre che di stalking tra marito e moglie, che solo da qualche anno è querelabile, tratta anche della malasanità negli ospedali del sud. In particolar modo io descrivo un ospedale, lo chiamo genericamente “Jonio Hospital”, che è lo stesso in cui purtroppo sono morte negli ultimi tempi mamme e neonati. Ne descrivo la sporcizia, l’incapacità del personale infermieristico e medico e l’incompetenza delle strutture. Questo capitolo è già uscito in anteprima nella raccolta “Terra” pubblicata dalla Città del Sole di Reggio Calabria suscitando clamore già nello scorso Salone del libro di Torino, e sui quotidiani. Non era mia intenzione parlare male della Calabria, come tu ben sai mi limito da scrittrice a narrare dei fatti per me rilevanti. Ma eccomi purtroppo a parlare negativamente della mia terra d’origine che mi riempie di sole d’acqua gli occhi, ma che purtroppo vorrei fosse diversa sotto tanti aspetti. I paesi però sono fatti dalle persone e finché noi italiani non decideremo di cambiare, continueremo ad “inquinare” la nostra penisola, perché che se ne dica in Padania, possiamo pure amputarci una gamba, ma resteremmo comunque menomati.

 

S.G.: La memoria è anche la propria lingua, quella che ci si va costruendo. Avete mai pensato di correre il rischio di perdere la vostra lingua durante il processo che vi ha portato non tanto alla scrittura, quanto alla pubblicazione di un libro (mi riferisco da una parte al dialetto, di cui rimangono tracce nei vostri libri, e dall’altra del rapporto che s’instaura tra chi scrive e chi compie l’editing del libro)?

S.M.: Non bisogna avere paura, credo, di essere compresi da tutti. Il fatto che dei termini vengano sostituiti con altri italiani e non dialettali, penso sia un bene. È bene però che lo scrittore si esprima liberamente, perché è proprio nella libertà narrativa che si riesce a creare l’altra vita, quella romanzata, in grado di regalare emozioni reali e punti di vista differenti dal proprio.

S.G.: Un altro punto in comune tra i vostri libri mi sembra il tentativo di rendere un’immagine non stereotipata di quest’Italia sempre più ostaggio della televisione. Durante la sua permanenza all’Isola dei Famosi Aldo Busi, tra le varie cose, dichiarò che in questo paese “non c’è più racconto”. Pensate che la letteratura possa ancora costituire un’alternativa a questa deriva?

S.M.: Perché un’alternativa? Si può avere un’alternativa ad internet? Non credo. Ritengo che bisogna aprire gli occhi e la mente al presente. Se oggi le persone vivono di televisione, rimbocchiamoci le maniche e scriviamo per tutti, magari con una certe ironia, o con la “lupara” in mano, ma facciamoci rapire dalla realtà. A volte può essere più affascinate dei sogni.

 

“Sveva va veloce” (Azimut, 2009) è l’ultima opera letteraria di Serena Maffia, un romanzo ambientato in una Calabria vitalistica, eppure segnata da due tragiche morti su cui pesa l’ombra dell’omertà.

Sradicamenti 2: Antonella Lattanzi

Dopo aver letto i loro bei romanzi, ho deciso di porre alcune domande a quattro giovani scrittrici (Simona Dolce, Antonella Lattanzi, Serena Maffia e Rosella Postorino), accomunate sia dalla scelta di trasferirsi a Roma dal sud Italia, che dall’aver pubblicato recentemente dei romanzi che, seppur nella loro diversità stilistica e nella varietà delle tematiche affrontate, mi sono sembrati capaci di dialogare a distanza su alcune questioni importanti.

 

Simone Ghelli: Da un po’ di tempo si parla dei tanti italiani, soprattutto giovani appena laureati e in cerca di lavoro o di una possibilità di continuare la propria carriera universitaria, che emigrano all’estero. Voi, in un certo senso, avete invece compiuto una migrazione interna, dal sud verso la capitale. Come vivete questa doppia situazione: da una parte lo sradicamento dalla vostra realtà e dall’altra la scelta di rimanere in un paese sempre più sfilacciato, che perde ogni giorno pezzi della propria memoria?

Antonella Lattanzi: Da un certo punto di vista credo che parlare del sud possa essere discriminante – non mi piace che mi si chiami scrittrice giovane, o scrittrice donna, così come non mi piace che mi si chiami scrittrice del sud. Ogni scrittore è uno scrittore, e basta. Da un altro punto di vista, credo che meridionali si rimanga sempre, se non altro come complesso d’inferiorità. Si tratta, quindi, davvero, di un argomento molto complicato, complesso, e non risolvibile. Per quanto riguarda la nostra realtà – emigrare internamente, ma poi rimanere in quest’Italia disastrata – io penso che in quanto scrittori dovremmo parlarne di più. Non, ancora una volta, ghettizzarci in discorsi pseudopolitici che divengono inevitabilmente circoli asfittici e viziosi, ma – tramite il nostro mezzo di comunicazione: la scrittura – creando domande a cui il lettore deve, se vuole, dare delle risposte. E questo non solo perché siamo in Italia (è un discorso che varrebbe dovunque fossimo), ma perché pretendiamo di essere scrittori. Lo scrittore secondo me questo deve fare, è questo il nuovo engagement: creare domande, distruggere il muro omertoso che nasconde certe realtà scomode, parlare, dire, raccontare. Senza paura delle conseguenze, sia immediate che a lunga distanza.

S.G.: In che modo la scrittura rappresenta per voi un modo di riappropriarvi di quella memoria che rischiavate di lasciarvi alle spalle durante il viaggio? Ve lo chiedo perché mi sembra che questo aspetto emerga, secondo tonalità e modalità diverse, nei vostri ultimi romanzi.

A.L.: Come ti dicevo prima, non mi sento una scrittrice del sud. Nei romanzi parlo di ciò che conosco. E mi piace che il contesto, l’ambientazione, i luoghi siano raccontati narrativamente, non staticamente. Dunque, prendendo per esempio Devozione, ho cercato di raccontare Bari, Roma, Napoli, Bologna, Catanzaro – città che conosco – rendendole parte attiva della storia, modificandole attraverso lo sguardo, di volta in volta, dei personaggi che metto in scena. La scrittura è sempre, anche, un’operazione di recupero di memoria: di luoghi, di sensazioni, di ricordi. Ma è anche, e soprattutto, un’operazione creativa: riutilizzare ricordi tuoi o di altri, ricombinarli, prenderli come spunto per creare qualcosa di nuovo. La memoria dei luoghi, dunque, è necessaria per la scrittura. E certe volte, mentre stai scrivendo, ti tornano in mente posti e tempi e persone che non ricordavi più.

S.G.: La memoria è anche la propria lingua, quella che ci si va costruendo. Avete mai pensato di correre il rischio di perdere la vostra lingua durante il processo che vi ha portato non tanto alla scrittura, quanto alla pubblicazione di un libro (mi riferisco da una parte al dialetto, di cui rimangono tracce nei vostri libri, e dall’altra del rapporto che s’instaura tra chi scrive e chi compie l’editing del libro)?

A.L.: No. Perché, dove serve, lascio sempre parlare il dialetto. Ma solo dove serve. Un romanzo ha mille lingue, mille stili, mille ritmi. Ci sono personaggi che possono solo parlare in dialetto. E non è nemmeno necessariamente il dialetto che conosce lo scrittore, il suo dialetto (per esempio, in Devozione c’è dialetto barese, romano, catanzarese). Per quanto riguarda l’editing: secondo me, se è ben fatto, serve sempre e soltanto a far sbocciare il romanzo, a migliorarlo, a liberarlo da residui catramosi di cui lo scrittore non sempre può rendersi conto. E ne guadagna non solo il tuo libro in particolare, ma la tua scrittura in generale. La mia esperienza in merito è davvero splendida: con la mia editor, Rosella Postorino, abbiamo lavorato tantissimo a Devozione, e ho visto il romanzo migliorare di tantissimo in seguito al lavoro svolto con lei. Penso – e spero – che tutto ciò adesso faccia parte del mio bagaglio letterario e personale e che, anche grazie all’editing svolto per il mio romanzo, io sia diventata una scrittrice migliore.

S.G.: Un altro punto in comune tra i vostri libri mi sembra il tentativo di rendere un’immagine non stereotipata di quest’Italia sempre più ostaggio della televisione. Durante la sua permanenza all’Isola dei Famosi Aldo Busi, tra le varie cose, dichiarò che in questo paese “non c’è più racconto”. Pensate che la letteratura possa ancora costituire un’alternativa a questa deriva?

A.L.: Non credo che la nostra sia l’era più terribile che la terra e l’uomo abbiano mai attraversato. Non credo che non ci sia più racconto, non ci sia più giustizia, non ci sia più purezza. Sarebbe davvero narcisistico ed egocentrico credere una cosa del genere. Penso invece che ogni epoca sia un po’ più e un po’ meno rispetto alla precedente, che ci siano epoche di grandi cambiamenti e altre di cupezza e perdita. Di certo noi non ci troviamo in un momento storico ottimo, e positivo: ma credo che le storie ci siano sempre, che il racconto non ci abbandoni mai. Perché è proprio dell’uomo. Perché raccontiamo ogni momento della nostra vita. Forse, in questi anni, in Italia, c’è meno voglia di impegnarsi: e quindi di lavorare affinché il nostro racconto diventi sempre più raffinato, più incisivo, più comunicativo (e quindi meno stereotipato). In una parola: migliore. Non credo nemmeno che la tv sia la causa di tutti i nostri mali: siamo noi, ogni io singolo, ad accenderla e a guardarla. Si tratta davvero di scegliere: scegliere il sudore, la fatica, l’impegno, la testardaggine, l’umiltà, il coraggio, la forza; per riuscire, alla fine, in un racconto mai perfetto, ma certamente sentito, e consapevole.

 

Antonella Lattanzi è autrice del recente “Devozione” (Einaudi, 2010), un romanzo in cui la dipendenza dall’eroina diventa una sorta di metafora da tutte le dipendenze, un esordio capace di colpire il lettore per la potenza del linguaggio e del ritmo, che ci calano in una realtà segnata dal racconto di una terribile ossessione.

Sradicamenti 1: Simona Dolce

Dopo aver letto i loro bei romanzi, ho deciso di porre alcune domande a quattro giovani scrittrici (Simona Dolce, Antonella Lattanzi, Serena Maffia e Rosella Postorino), accomunate sia dalla scelta di trasferirsi a Roma dal sud Italia, che dall’aver pubblicato recentemente dei romanzi che, seppur nella loro diversità stilistica e nella varietà delle tematiche affrontate, mi sono sembrati capaci di dialogare a distanza su alcune questioni importanti.

Simone Ghelli: Da un po’ di tempo si parla dei tanti italiani, soprattutto giovani appena laureati e in cerca di lavoro o di una possibilità di continuare la propria carriera universitaria, che emigrano all’estero. Voi, in un certo senso, avete invece compiuto una migrazione interna, dal sud verso la capitale. Come vivete questa doppia situazione: da una parte lo sradicamento dalla vostra realtà e dall’altra la scelta di rimanere in un paese sempre più sfilacciato, che perde ogni giorno pezzi della propria memoria?

Simona Dolce: Comincio dicendo subito che la mia non è una scelta. Se padroneggiassi un’altra lingua emigrerei e userei quella per scrivere. Ma la mia lingua è l’italiano e per me è una scelta obbligata usarla. Dico che me ne andrei e sono consapevole delle conseguenze delle mie parole. Non sarebbe una rinuncia la mia, né un atto di disprezzo. Semplicemente so, come moltissimi italiani sanno, che oggi questo paese non è capace di offrire, di accogliere, di coltivare sentimenti positivi e costruttivi, non è capace di generosità né di bellezza. Mi pare che tutto venga sporcato, infangato dall’invidia, dal menefreghismo idiota, dalla povertà morale ed economica. È un paese che ha dimenticato le migrazioni compiute dagli stessi italiani fin dagli ultimi decenni del 1800. «Quello che prima era stato giudicato e che ha perso la memoria di esserlo stato, giudicherà. Quello che è stato disprezzato e finge di averlo dimenticato, raffinerà il suo stesso disprezzare. Quello che ieri è stato umiliato, umilierà oggi con più rancore». Uso le parole di Saramago perché mi sembra che questa guerra interna sia già cominciata, fra nord e sud, fra poveri e poverissimi. Il disprezzo, il rancore, l’umiliazione non sono mai indirizzati verso i fautori dello status quo ma sempre verso chi arraffa una briciola in più degli altri. I singoli gesti di solidarietà, o di quella che un tempo si sarebbe detta semplicemente umanità, sono sempre possibili e continuano ad avvenire ma è il contesto a essere irrimediabilmente cambiato, e bisogna ammettere che il contesto è tutto quando si parla di una nazione intera. Si può ancora credere che il singolo, nel faccia a faccia con l’altro, agisca secondo criteri “umani”, dunque il bene come il male sono ammessi come sfumature dell’animo umano perché sono complementari, inscindibili. Ma da un punto di vista più generale, un gruppo di persone, i lavoratori precari o i pensionati per esempio, riunite secondo categorie sociali, non sono più capaci di compiere alcun atto umano. Non esiste alcuna lucidità, alcuna lungimiranza, c’è solo assuefazione, incuria, menefreghismo, strafottenza e volgarità. Tutto questo porta al suicidio, ovviamente non del singolo, ma di un paese intero. Il suicido di generazioni e l’assassinio delle future. In questo quadro non posso che condividere chi ha la possibilità e il coraggio di andarsene, perché possiede il desiderio di scegliere. Qui la scelta non c’è. Le opinioni divergenti non vengono censurate, non nel senso classico del termine almeno, ma non trovano spazi di espressione nei canali ufficiali, che, purtroppo, sono gli unici a poter muovere i grandi numeri, le molte coscienze. La mia personale migrazione da Palermo a Roma è frutto di un percorso, letterario e personale, che non ho deciso a priori, è successo. Ma nel mio caso ritengo che lo spostamento sia naturale, persino convenzionale. Voglio scrivere e sebbene possa farlo ovunque è anche vero che ho bisogno di conoscere, di confrontarmi, di cambiare la visuale attraverso cui guardo il mondo, arricchirla. Non mi sento sradicata rispetto alla mia realtà. Roma, per quando diversa e immensamente più ricca di stimoli rispetto a Palermo, è pur sempre una città italiana che soffre le carenze e le brutture di tutte le grandi città. In questo mi pare di essere sempre a casa: lo schifo non conosce confini regionali.

S.G.: In che modo la scrittura rappresenta per voi un modo di riappropriarvi di quella memoria che rischiavate di lasciarvi alle spalle durante il viaggio? Ve lo chiedo perché mi sembra che questo aspetto emerga, secondo tonalità e modalità diverse, nei vostri ultimi romanzi.

S.D.: Raccontare è anche ricordare, riscoprire. Recuperare particelle di memoria e scriverle è compiere un atto di generosità verso il lettore e anche di grande egoismo. Quando scrivo non ho la pretesa, che poi sarebbe fallimentare in partenza, di recuperare la memoria di un paese intero o di un’intera comunità. Recupero solo me stessa. In questo processo naturalmente intervengono molti fattori. Come l’attaccamento alle radici di cui parli tu, il tentativo di restare legati al proprio passato, anche in modo ostinato e ottuso qualche volta. Ma non credo che si tratti, almeno non è così per me, della memoria di fatti storici, piuttosto è la memoria di me stessa. Scavare dentro l’umanità, per il solo piacere di farlo, senza mete prestabilite, messaggi da comunicare, tesi da verificare. La mia umanità, come persona storica calata in questo tempo, riguarderà poi anche l’umanità di qualcun altro, certo, ma l’appagamento sta nel percorso compiuto. Non amo la retorica del passato, dei tempi andati, del “come eravamo”, anche perché sono troppo giovane per saperlo, gran parte delle cose che so sono di seconda o terza mano. Mi interessa ricercare dentro i meandri dell’animo e scoprire che io stessa sono capace di nefandezze, di violenza, di invidia, come anche di amore, di empatia, di comprensione.

S.G.: La memoria è anche la propria lingua, quella che ci si va costruendo. Avete mai pensato di correre il rischio di perdere la vostra lingua durante il processo che vi ha portato non tanto alla scrittura, quanto alla pubblicazione di un libro (mi riferisco da una parte al dialetto, di cui rimangono tracce nei vostri libri, e dall’altra del rapporto che s’instaura tra chi scrive e chi compie l’editing del libro)?

S.D.: L’editing sul mio libro è stato molto leggero, non ha rivoluzionato nulla né della lingua né della struttura. E credo che un editore non sceglierebbe mai di fare un libro con l’intenzione di snaturarne la lingua, piuttosto sceglierebbe di non farlo affatto. Ovviamente se si tratta di un libro con una lingua personale, originale, se parliamo invece della lingua media, quella televisiva, allora il discorso cambia. E sul mio libro, come sul mio lavoro più in generale, non mi sono mai posta il problema di questo rischio. Il prossimo romanzo avrà una lingua ricca, spero molteplice, quella che alcuni con le etichette adesive sempre pronte in tasca marchierebbero come complessa. L’obiettivo sarà trovare un editore affine al mio progetto, convinto del libro. Se così non avverrà pazienza, e non dico questo per un atteggiamento snob nei confronti della macchina editoriale ma nel tentativo di salvaguardare me stessa, la mia scrittura e la mia libertà. Credo che sia importante guardare le cose con distacco e tenersi la bellezza della scrittura, il piacere o il dolore che ne viene, a prescindere dal resto. Perché il rischio maggiore della situazione economica e culturale che viviamo in Italia è l’autocensura. Non che vi sia un potere che dall’alto impone stili, strutture, argomenti, tendenze narrative, ma piuttosto una forma di inibizione individuale del tutto naturale, fra l’altro. Se vedo i libri in classifica o le pile in libreria penso automaticamente, in modo istintivo, ovvio, che per essere lì bisogna scrivere in un certo modo, di certe cose, con un tale tono. È un meccanismo perverso ma del tutto naturale come dicevo. L’aspirazione che muove questo meccanismo ovviamente non è entrare in classifica ma qualcosa di più profondo, se vogliamo un’aspirazione più legittima, cioè di accedere alla possibilità – la sola possibilità – di essere letti da molte persone. Quando questo non accade è necessario esaminare i difetti del proprio lavoro ma anche il meccanismo che regola il sistema. Nella domanda si diceva la lingua… ecco, credo che non esista pericolo peggiore di questo per la lingua di uno scrittore. L’impoverimento non viene quasi mai dal rapporto con l’altro, con un editor o con un editore, ma dalla logica spesso dittatoriale del mercato. Mi sembra che l’unico antidoto a questo siano le buone letture, forse anche quelle meno buone se si è capaci di cogliere almeno un discrimine fra la letterarietà e la narrativa tout court.

Per quanto riguarda la mia lingua. A casa mia nessuno parla il dialetto. Non ho mai davvero sentito il dialetto come lingua che mi appartiene perché non ho mai posseduto una visione del mondo raccontata secondo quel codice. Ma ci sono le letture appunto, e molte parole di dialetto mi arrivano dagli autori che ho scoperto negli anni. È un processo di acquisizioni e cancellazioni. Non vedo la lingua come un patrimonio immutabile, tale dalla nascita e così per sempre.

S.G.: Un altro punto in comune tra i vostri libri mi sembra il tentativo di rendere un’immagine non stereotipata di quest’Italia sempre più ostaggio della televisione. Durante la sua permanenza all’Isola dei Famosi Aldo Busi, tra le varie cose, dichiarò che in questo paese «non c’è più racconto». Pensate che la letteratura possa ancora costituire un’alternativa a questa deriva?

S.D.: Sì, penso che la letteratura sia fra le alternative possibili a questa deriva. Però penso anche che, affinché l’alternativa sia reale, condivisa potenzialmente da tutti, e attuabile, ci sia bisogno di molto più che dieci ottimi libri distribuiti gratuitamente nelle scuole.

È verissimo che non c’è più racconto. C’è solo l’enunciazione dei fatti. Ma d’altra parte dire «non c’è più racconto» significa solo enunciare il problema, nient’altro. E questo atteggiamento è poi molto italiano. Come dicevo la sostanziale strafottenza rispetto alle cose che accadono e che ci coinvolgono, l’indifferenza, l’apatia.

Inoltre, il contesto. Affrontare certi argomenti in televisione non si limita ad essere un gesto inefficace ma diventa persino deleterio. Parlare di letteratura in televisione, come di politica, come di libertà d’espressione significa porre tutto sullo stesso piano. Equiparare per importanza, profondità e pervasività molti argomenti che andrebbero collocati in sedi appropriate per essere davvero discussi e sviscerati. O le veline o gli scrittori. O la pubblicità di automobili o la critica al consumismo scriteriato. E infatti quando questi argomenti vengono trattati, seppur con le migliori intenzioni, diventano costume, quasi mai arrivano a un livello di comprensione profonda del problema.

Si diceva la letteratura. Certo che costituisce un’alternativa ma questo resta vero solo a livello ideale. Calata nella realtà quotidiana la letteratura non riveste alcun ruolo autorevole. Né all’interno delle istituzioni né fuori. Ed è ovvio che sia così perché quello che passa è l’idea che la patente di scrittore sia consegnata a tutti e che i libri siano intrattenimento, e in quanto tale vengono dopo altre forme di intrattenimento ben più allettanti e attraenti. La divisione dicotomica di tutto, bianco/nero, divertente/noioso, leggero/impegnato, va a scapito dei libri belli, cioè quelli che annientano la dicotomia becera e danno spazio alle sfumature, alle possibili diversità.

 

Simona Dolce ha esordito col romanzo “Madonne nere” (Nutrimenti, 2008), una scandalosa e scellerata storia familiare narrata con una lingua molto personale, che è un impasto di più voci recitate come in un’antica preghiera.

Madonne nere

Madonne nere (Nutrimenti, 2008)

di Simona Dolce

I libri si possono scrivere in tanti modi diversi, le storie possono durare poche pagine o una montagna di carta, ma il peso della scrittura non si conta in numeri. Il peso della scrittura, per quanto mi riguarda, è la forma che essa prende.

Il breve romanzo d’esordio di Simona Dolce  ha proprio questo di caratteristico: che la forma è il suo contenuto, ma non perché essa sia puro abbellimento o dimostrazione di tecnica fine a se stessa; al contrario, la forma è il suo peso specifico proprio perché questa storia non poteva essere raccontata altrimenti. Ed è così che funziona, è così che si attacca addosso, per via di un ritmo salmodico, ripetitivo e ossessivo, che entra nelle orecchie del lettore: a tratti, e più esplicitamente nell’ultima parte del romanzo, la scrittura di Simona Dolce prende la cadenza di una vera e propria litania, di una preghiera personale che la giovane Marina rivolge a se stessa per sfuggire al circolo vizioso che sembra averla catturata per sempre.

La storia scellerata e scandalosa di Rinulla, prigioniera delle brame paterne e dell’odio materno, sembra infatti destinata a ripetersi nella vita della figlia Marina, nata da un matrimonio di comodo, eppure miracolosamente generata da un amplesso impossibile. Quello che si configura come il naturale perpetrarsi di un destino già scritto – il ripetersi di una vita oggetto di scherno e di violenza fisica – verrà invece smentito da una scelta inaspettata della giovane protagonista, che sorprende il lettore, e con esso, si direbbe, anche se stessa.

Ma il ritmo impresso dallo stile non è l’unica peculiarità della scrittura di Simona Dolce, che ha l’invidiabile capacità di saper mescolare i punti di vista, al punto da comporre una visione che ha dell’allucinatorio, composta com’è dall’intrecciarsi delle diverse voci dei protagonisti, che si sovrappongono in un flusso continuo declinato alla seconda persona singolare. L’autrice si rivolge cioè ai propri personaggi dando loro del tu – anche se la sua posizione sembra essere più vicina a quella di Marina –, indicandoli, e attribuendo loro il giudizio degli altri, un giudizio allo stesso tempo umano e divino che sembra destinato a marchiare per sempre questa inusuale famiglia.

Quella di Madonne nere è insomma una lingua che è impasto di più voci, di più pensieri – il non detto protetto dalla nostra ipocrisia cattolica e benpensante – recitati come in una preghiera (e allora non sarà un caso che l’illuminazione, anche se non divina, si produca in una chiesa), come un rosario dal quale sgranare una frase alla volta, frasi che si distinguono per variazioni minime eppure essenziali.

Una lingua, quella di Simona Dolce, che non lascia certo indifferenti.

Una voce che, c’è da sperarlo, continuerà a chiedere ascolto.

Simone Ghelli

* Madonne nere di Simona Dolce sarà presentato questa sera, sabato 13 marzo, alle ore 19.00, all’interno della manifestazione “Femminile/Plurale”, presso Alphaville Cineclub, via del Pigneto 283 (Roma)