Una cordaccia, dalla caviglia al cuore
gennaio 3, 2011 2 commenti
«Prendi un quaderno, una penna e fai che scrivi tutto,» mi dice.
«Un quaderno, uhm, una penna,» temporeggio, tastandomi le tasche.
«Mi perculi, tu, dì un po’,» glaciale lisciata di baffi.
Cartolibreria. Siamo in una cartolibreria di Bad Segeberg. La più piccola. La sua.
«C’è quaderni e c’è penne un po’ ovunque, quindi poco il simpatico,» mi dice.
Capelli lunghi e punte di baffi giallo nicotina. Sigaretta. Altra sigaretta.
«T’ho detto che fai che scrivi tutto,» mi dice, «e cominceremo dalla fine, dal colpo di tacco».
«Ennò,» m’oppongo. «Dall’inizio».
«Ero il figliolo,» fa allora, «lo sai no, gli metton sempre il soprannome Sonny ai piccoli della compagnia. Figliolo, significa. Facevamo che ci si divertiva, senza troppe pretese. Io ragazzino avevo smesso d’esserlo quando avevo otto anni, Lubecca è un buco di culo puzzolente che se ti ci ritrovi cresci dalla notte al giorno, altro che sci-sci-sci di marzapane, altro che centro storico con le casine anseatiche: le periferie sono orrende ovunque, pure a Lubecca. E allora quando poi faccio il borsone per andarmene a fare il calciatore ad Amburgo mi mettono in guardia, Reeperbahn è un posto pericoloso, m’avvertono, tutto zoccole operai e comunisti. Oh, che ti devo dire: sarò stato comunista dentro pure io, mi sa, e poi le zoccole schifo non m’hanno mai fatto, e gl’operai è gente simpatica che si spacca in quattro e c’ha solo voglia di bersi una birra e veder gente tirar calci ad un pallone. I baffi: ancora non li portavo. Li vedevo però sulle facce dei marinai che si imbarcavano per attraversare il Baltico, tutti ubriachi e coi capelli sozzi e i cappellacci di lana grossa, la notte in giro per il miglio peccaminoso ad entrare e uscire col sorriso da Herbertstrasse, il giorno a suonare la sirena dei pescherecci e delle chiatte. Ci son rimasto un anno. Titolare poche volte, reti una manciata, proprio col contagocce, rotolavo in campo, rotolavo e m’incazzavo e certe situazioni mi levavano il sangue e sbraitavo che diocenescampi e salvi. Era il millenovecentosettantaquattro. Sognavo d’andare ai Mondiali in Argentina come centravanti della nazionale. Nel frattempo, qualche partita me la sono andata a vedere pure, nel settantaquattro, specie quella al Volksparkstadion tra Germania Ovest ed Est. E son pure stato contento. Mi sa che ero per davvero comunista dentro, mi sa.
E poi ti dico una cosa: mi ci sentivo legato, a quel posto, ad Amburgo. Specialmente a quel quartiere, Sankt Pauli. Lo sai cos’è che si chiamava reeperbahn, una volta? Quelle cordacce spesse e ciotte che s’usano per ancorare le navi alla banchina. Era come se me n’avessero legata una alle caviglie, di cordaccia, dalla mia caviglia al cuore di Sankt Pauli.
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