Il piccolo Lupo e il Ponte della Ghisolfa

L’arancione sembra quello della maglia dell’Olanda, mentre il sole si apre il passo tra le nuvole, un po’ scostante. Guardando verso Torino il tramonto affonda nei fumi, screziati dal colore riflesso. Una enorme palla rossa e gialla. Dal Ponte della Ghisolfa, il cui nome è in realtà Cavalcavia Bacula anche se oggi solo gli immigrati lo chiamano così, si sono sempre visti questi tramonti da brivido. Il traffico è continuo, come una nebbia tra i lati della strada. Stando li, con le mani e gli occhi sulla rete metallica di protezione, sembra quasi di tornare all’infanzia e alle ore passate guardando i treni che passano lenti. Oggi come allora, gli zingari si scaldano bruciando copertoni e rami secchi sulla massicciata della ferrovia. Quando frequentavo le medie venivo qui con Rebecca. Lei abitava proprio qui dietro. Suo padre era invalido ed era sempre a casa. Noi bambini ci sentivamo un po’ in soggezione di fronte a quell’uomo, un vecchio ai nostri occhi. Da solo, a casa, senza far nulla, sempre mezzo ubriaco. La mamma di Rebecca invece andava a lavorare, visto che la pensione di invalidità non bastava a crescere una figlia. Forse faceva le pulizie, ma dopo tanti anni non ricordo bene. Era una brava mamma e ci trattava sempre con gentilezza, noi bambini. Leggi il resto dell’articolo

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Dreadlock!

Bologna-Babilonia è la città sfondo di questo romanzo breve (uscito per la collana Novevolt) scritto dal giovane Jacopo Nacci. La ballata di Dreadlock, o meglio quella di Matteo, è la triste storia del suo perduto amore e del suo fatale destino, che porta Nacci a cantare una Bologna surreale e perduta, che muore e si rialza, vittima sacrificale ma anche zombie infetto e putrefatto. È difficile articolare per punti una trama che racconti brevemente questo romanzo. Più che la sequenza degli eventi, è l’atmosfera a caratterizzare la narrazione. I protagonisti sono degli studenti che vivono il melting-pot della bassa padana, dove le antiche cancrene politiche vengono rigenerate da nuove violenze di stampo razzista. La follia che sorge dal disperato desiderio di autoaffermazione fa nascere mostri, figli più della lucidità che della passione. Matteo, il suo amico/mentore Lorenzo e la sua compagna Valeria ne sono vittime. A Matteo però giunge un dono: Dreadlock. Dreadlock è un demone, che si incarna in Matteo, e tutto il romanzo – visto come possessione – altro non è che una discesa agli inferi, un percorso iniziatico, un rito di passaggio per un ragazzo che deve diventare uomo, crescere, al punto che i suoi genitori stessi non lo riconoscono più. Come a Delfi e a Cuma, anche qui a Bologna-Babilonia sono i fumi dell’oracolo a inebriare il questuante e a permettere al Dio di possederlo, di trasformarlo nella sua voce, nei suoi occhi, nelle sue braccia. Lorenzo è il mentore, più Don Juan che Virgilio: seguendo Matteo/Dreadlock sale lo ziqqurrat di Babilonia così come scende i gironi dell’inferno. Ma la purezza non esiste, e Ser Galahad è solo il sogno di un’umanità adolescente. Così Valeria/Euridice non ha possibilità di salvarsi, deve subire la Grande Metamorfosi, elemento nel processo di rinascita e purificazione di Matteo/Dreadlock e di Bologna/Babylon. Fluttuante tra l’immaginario dei super-heroes Marvel e DC comics da un lato, e la mistica olistica roots return del reggae giamaicano dall’altro, Dreadlock dà il titolo a una delicata e poetica ballata. La ballata di un amore che trascende la grigia realtà della provincia, per morire in un mondo nuovo. L’idea di fondo è che se si combatte contro gli dei non si può averne altro che dolore. Leggi il resto dell’articolo

Diario di bordo – Bolzano

Da Roma a Bolzano è come cambiare mondo: c’è un varco preciso, tra Modena e Carpi, dove il sole scompare nella nebbia, e la temperatura si abbassa d’improvviso. Esci dall’auto e senti che qualcosa è cambiato – forse è lo spazio che procede per accumulo, e si manifesta tutto insieme: dalla sveglia delle 6 alla Stazione Tiburtina, che è diventata tutto vetro e acciaio nell’alba, al treno semivuoto che mi porta a Spoleto, attraverso i campi ricoperti di brina dell’alto Lazio e dell’Umbria. Scendo e sento d’aver cambiato tempo, lontano dalla nevrosi cittadina: i quaranta minuti di attesa a cui mi costringe il Liguori non mi pesano, perché ogni cosa appare più lenta. A Foligno persino ci perdiamo, finché non troviamo la strada che buca l’Appennino toscoemiliano (un paesaggio in cui mi perderò al ritorno, senza la mannaia del tempo) e avanziamo tra le parole nostre (sempre la solita letteratura, questo mondo contro cui ci ostiniamo a rimbalzare) e quelle della radio (è l’ora dei discorsi al Senato, e il giorno dopo saranno alla Camera: l’ora in cui capire se c’è qualcosa di nuovo dopo lo spettacolo che ci ha fagocitati per anni). Leggi il resto dell’articolo

Pietre

Il poliziotto guarda le carte che si allargano sulla scrivania e pensa che è veramente un lavoro del cazzo. Non capisce dove sia il problema. Non c’è nulla di strano. Rapina in gioielleria: chiedono di vedere degli anelli e poi mano alle armi. Tutto videoregistrato. Sacchetto dell’immondizia, due colpi in aria e via. Nessun ferito. Qual è il problema? Solito iter procedurale: domande a chi di solito acquista refurtiva, perquisizioni nei campi rom, ecc.

Riguarda il video: uno dei due rapinatori prende in mano un anello, lo guarda, lo volta, lo infila in tasca. Lo guarda: lo guarda bene.

Il poliziotto esce, cammina verso il bar. La gioielleria è a poche decine di metri. Ci passa davanti. Seduto per terra un mendicante. Gli butta un euro. Lui non lo vede neppure. Vede che allunga una mano dietro di sé. Raccoglie una pietra da terra. Il poliziotto tende i muscoli, pensa che voglia lanciarla contro di lui, ma il clochard, guardandosi intorno, avvicina la mano alle labbra, mette in bocca la pietra e la ingoia.

Il poliziotto corre verso di lui e lo afferra, temendo che muoia soffocato in pochi minuti, ma si accorge con sorpresa che il tipo sta bene, ha ingoiato la pietra molto naturalmente.

Gli parla:

Stai bene?

Certo. Perché?

Hai appena ingoiato una pietra. Le persone non lo fanno di solito, o se lo fanno rischiano di morire.

Non so, amico, a me le pietre piacciono, mangiarle mi fa sentire meglio. Non chiedermi perché, sono solo un mendicante.

Ma non sei mai andato in ospedale?

Una volta che mi ero tagliato, ma mi hanno mandato via, ché puzzavo troppo.

Il poliziotto concorda su questo aspetto, lentamente si alza per scostarsi. Gli chiede ancora se sta bene e quello conferma. Di nuovo.

Nei giorni seguenti, mentre sbriga la pratica per la rapina dal gioielliere, il poliziotto capita più volte su quella via, e rivede spesso il barbone. Ogni volta si ripete la stessa scena: cammina, oppure è seduto, raccoglie un sasso, a volte più grande, a volte piccolo, e lo ingoia, solo, senza nemmeno un sorso d’acqua.

Il poliziotto pensa che il tipo è partito di testa, e che al più presto lo ritroverà cadavere, uno non può andare avanti così per molto. Pensa che forse dovrebbe chiamare un’ambulanza e farlo ricoverare con un TSO. Decide che chiederà al suo superiore.

Il barbone tasta la pietra. Sente se è calda. A volte di più. Altre sono gelide, e allora le mette nelle mutande. Le pietre a volte sono rotte, e allora le deve lisciare. Per molto tempo le sfrega con le mani l’una contro l’altra, e infine non solo sono lisce ma cambiano anche colore. Luccicano. La luce che c’è imprigionata inizia ad uscire. Quelle sono le migliori, è in quel momento che lui le mangia. Sente la luce dentro di sé, e la luce lo guarisce. Il barbone riconosce tutte le pietre. Le vede, anche da lontano, e sente se hanno la luce. Vede il colore, sente il calore e il peso. Le pietre sono antiche quanto la terra. Le pietre sono oneste: non sanno che esisti, per loro stessa natura illuminano e guariscono.

Il poliziotto esce dal bar. È notte fonda. È ubriaco. Il barbone è lì, seduto. C’è qualcosa che non va. Due uomini sono in piedi davanti a lui, uno lo prende a calci.

Il poliziotto si gira e si incammina nella direzione opposta. Di fronte a lui un’auto dei Carabinieri. Vaffanculo, non può andarsene. Se quelli se ne accorgono ha finito di vivere tranquillo. Allora ritorna sui suoi passi, e vede che quelli continuano a menare il barbone. Gli girano i coglioni. Si avvicina.

Allora, avete finito di rompere?

Quelli si girano, hanno davvero due facce di merda, entrambi hanno le lame. Stavano torturando il barbone. Ma di che cazzo si fa la gente? Lo guardano storto e gli dicono:

Sparisci. Tu non hai visto niente e non hai problemi.

Il poliziotto risponde calmo che non vuole storie, che i Carabinieri si stanno avvicinando, che devono solo togliersi dalle palle e mollare il barbone, così nessuno si fa male. Quello sembra che non lo senta nemmeno, estrae un pistolone da film. Insieme al suo compare inizia a sparare verso il poliziotto e i due Carabinieri che sono ormai pochi metri alle sue spalle.

I due volano secchi, come rami spezzati. Il poliziotto si piscia addosso e urla come una scimmia. Spara tutti i colpi della sua pistola d’ordinanza. La vita genera casi, coincidenze fortunate: insomma, li secca. Entrambi.

Con i pantaloni sporchi di merda il poliziotto si avvicina. La gente si affaccia alle finestre. La sbronza gli è passata. Controlla che i morti siano tutti morti, compresi i Carabinieri. Chiama il commissariato e le ambulanze. Chiama anche sua moglie.

Poi cammina verso il barbone. Lo sente rantolare. Si abbassa verso di lui, vede sangue ovunque. Guarda meglio, e poi capisce. Lo hanno sventrato, ha lo stomaco aperto. È ancora vivo, recita strani versi e litanie. Cristo, povero vecchio. Il poliziotto guarda se può fare qualcosa, ma ne dubita. Poi vede che dentro la sacca dello stomaco ci sono le pietre. Le pietre che il vecchio continuava ad ingoiare erano lì, almeno in parte, dentro al suo stomaco. E lì, brillante come l’onestà, luminoso come la purezza, uno splendido diamante è in bella vista, tra le pietre di strada e i ciottoli. Il poliziotto guarda il barbone. Quello accenna un sorriso doloroso, quasi di scusa, e cerca di sussurrargli qualcosa che parla di cura e di onestà.

Il poliziotto non capisce, ma non importa. Il barbone muore davanti a lui. Pochi minuti prima delle ambulanze.

L’assicurazione del gioielliere ammise che in fondo era contenta.

Luca Giudici

I proci

Telemaco comandògli recarla, e Ulisse l’ebbe.
Ei, prese in man l’arco famoso, il tese
Così e il tirò, che ambo le corna estreme
Si vennero ad unir: poi la saetta
Per fra tutti gli anei sospinse a volo.
Ciò fatto, stette in su la soglia, e i ratti
Strali versossi ai piedi, orrendamente
Guardando intorno. Antìnoo colse il primo,
E dopo lui, sempre di contra or l’uno
Tolto e or l’altro di mira, i sospirosi
Dardi scoccava, e cadea l’un su l’altro.
Certo un nume l’aitava. I suoi compagni,
Seguendo qua e là l’impeto suo,
A gara trucidavanci: lugùbri
Sorgean lamenti, rimbombar s’udìa
Delle teste percosse ogni parete;
E correa sangue il pavimento tutto.

La porta cigola. Continuamente. Una leggera corrente d’aria la sposta, in modo impercettibile, provocando un lento, disturbante, stridio.

Il tremore delle mani non si attenua. Cerco qualcosa, nell’infisso rotto della finestra.

Attorno sacchetti di plastica: pieni, rotti, vuoti, appesi.

Vestiti sporchi, puliti, da stirare, da stendere. Scarpe.

Mi alzo dalla sedia.

Guardo allo specchio le iridi arrossate, per il poco tempo passato a dormire. 30 cc di Delorazepam, insieme al caffè provano a migliorare lo stato.

Ho una casa, un lavoro sicuro e sono sano. Ho anche un figlio. Posseggo ciò che la maggior parte delle persone desiderano. Ho amato e sono stato ricambiato.

In effetti non vi è nulla di sbagliato. La desolazione, la solitudine, la depressione e perfino la disperazione non hanno nulla a che vedere con lo stato sociale di un qualunque borghese.

Ho fatto delle scelte, o almeno, mi è sembrato di farle. Alcune facili, altre dolorose.

Oggi ho finito le scelte.

Lo specchio mi restituisce un volto, come se dicesse: affari tuoi, non voglio saperne nulla.

Non vi è nulla di leggero: nulla che lasci vie di scampo.

Una doccia e mi preparo. Mi vesto: prima l’intimo, una camicia, pantaloni, ma leggeri, che fa caldo. Scarpe comode.

Dopo pochi minuti di guida entro in ufficio, dove non mi aspetta nulla da fare, se non una lunga giornata da far trascorrere. Non penso, non leggo il giornale, non telefono a nessuno: sono gesti che non compio più da tempo.

Il mio superiore ritmicamente mi consegna dei fogli, lavoro totalmente inutile, ma necessario all’andamento del regime.

Poi il momento del caffè. Non vorrei prenderlo: ma è un motivo per uscire.

Ancora il nulla fino alla pausa del pranzo: dove il nulla si trasferisce davanti a un qualsiasi piatto, che rimane quasi sempre pieno.

Il pomeriggio è breve, e già all’ora del tramonto sono di nuovo davanti all’infisso rotto.

Ho spostato alcuni sacchetti di plastica: certi vestiti dovevano essere lavati, e certi altri stirati.

Ho messo nell’immondizia un vecchio paio di scarpe rotte.

Da tempo non mi chiedo nulla.

Da tempo non cerco di cambiare nulla.

Non c’è nulla da cambiare.

Ho ciò che tutti cercano: la certezza del ritorno, la garanzia di uno stipendio.

È proprio per questo che oggi, prima di uscire dall’ufficio, mentre i miei colleghi concludevano gli straordinari quotidiani, ho aperto il mio armadio, ho cercato l’accendino che tengo sempre a disposizione, se qualche cliente vuole fumare in ufficio, anche se sarebbe proibito, e, dopo aver cosparso di benzina l’archivio delle pratiche di mutuo, ho acceso la fiamma.

Le vampe hanno avvolto in pochi minuti l’intero edificio, e probabilmente nessuno è riuscito a salvarsi. Io sono sceso dalle scale di sicurezza. Dopo aver bloccato dall’esterno l’uscita.

Ora sono intento alla raccolta differenziata.

L’ambiente è importante, e bisogna pensare al futuro.

Devo sbrigarmi, che anche qui in casa le fiamme crescono rapidamente: è tutto in parquet.

Suonano le sirene.

Luca Giudici