Amianto – una recensione poco ortodossa

67Aamianto Amianto. Una storia operaia (Agenzia X)
di Alberto Prunetti

Alberto Prunetti l’ho conosciuto quando, negli anni Novanta, si andava alle riunioni un po’ clandestine nella sede piombinese della Federazione Anarchica Elbano Maremmana. Al contrario del sottoscritto, mingherlino e un po’ intimorito, lui era grande e grosso, a dir poco dirompente, proprio come lo ritrovo nelle prime pagine di Amianto. Una storia operaia (Agenzia X, 2012), quando si avventura nei campetti per calciatori forgiati nel metallo, dove il gol non serve tanto a vincere quanto piuttosto per sopravvivere (per non cadere spintonato nel cemento a grattugiarsi le ginocchia con chissà quali scorie). Leggi il resto dell’articolo

Pubblicità

Luciano Bianciardi o il lavoro culturale dal Boom alla crisi, conversazione tra uno scrittore precario e un critico impuro.

di Sonia Caporossi e Simone Ghelli

Sonia: Luciano Bianciardi a me è sempre sembrato un autore in qualche modo esemplare, meritevole di fregiarsi del titolo di “maestro” all’interno del panorama letterario italiano per gli scrittori della nuova generazione. In particolare, la sua opera ha espresso la reazione del giovane intellettuale di provincia di fronte al difficile momento di trapasso dalla letteratura ufficiale ed altisonante del fascismo propagandistico al neorealismo e poi al Boom economico degli Anni Sessanta. Questo perché con la sua stessa vita ha esemplificato la figura di ciò che può essere definito “l’intellettuale disintegrato”.

Simone: Sì, ed oggi sembra che rappresenti, con ritardo (e quindi anticipandola), la condizione di molti…

Sonia: Nel senso della disintegrazione sociale e intellettuale di molti giovani lavoratori culturali?

Simone: Penso più all’aspetto lavorativo, quindi alla disintegrazione, sì… Alla disgregazione. Oltretutto la sto vivendo sulla mia pelle, questa cosa, anche dal punto di vista degli affetti. Fino ad oggi non avrei mai pensato che la mia condizione di intellettuale precario, o di precario tout court, potesse costituire un problema, ma di fatto è così; e Bianciardi, come Piero Ciampi, questa strada piena di scosse e buche l’ha percorsa tutta. Era uno sradicato, in un certo senso, anzi, in tutti i sensi. Leggi il resto dell’articolo

Sommersi dai libri

«Nell’antichità era il lettore che cercava il libro, mentre oggi il rapporto si è invertito: il libro cerca il lettore.»

Lo scriveva Luciano Bianciardi nel 1957, il libro è Il lavoro culturale.

Nello stesso testo si parlava già anche del fatto che tutti volessero scrivere, pubblicare il loro libro (ma poi ai dibattiti, ad ascoltare, non ci voleva stare nessuno: come nell’incontro sui pellirossa, quando i due relatori milanesi scappano via perché devono lavorare).

Da allora sono passati più di cinquant’anni e le proporzioni si sono indubbiamente moltiplicate. Leggi il resto dell’articolo

Per oggi non mi tolgo la vita

Per oggi non mi tolgo la vita (Exorma, 2011)

di Alfonso Brentani

 

 

Il narratore protagonista del piccolo romanzo Per oggi non mi tolgo la vita probabilmente non è estraneo all’autore, almeno a giudicare da un’intervista che lo stesso Alfonso Brentani ha rilasciato alla compagine di Fahrenheit (radio 3).

Entrambi pretendono un sacrosanto diritto di vederla in una maniera che non è mai andata per la maggiore e oggi meno che mai: farla finita ben prima del tempo, il che ancora non è reato (in un paese come il nostro ancora sotto l’egida del Vaticano la cosa non è scontata – potrebbero sempre farla pagare alle mogli, ai figli, ai genitori: i vertici della Chiesa Cattolica essendo meno feroci dei talebani solo perché dall’Illuminismo in avanti qualcuno li ha presi a legnate, non certo perché si siano evoluti da soli). Il narratore dice chiaro e forte il suo diritto di obiezione di coscienza alla vita; esprime insomma un’etica e un’estetica del rifiuto, non sai quanto per propria agonia esistenziale, quanto per sovrana, foscoliana ribellione ai codici (molto americani direbbe forse l’autore) del contemporaneo.

Primo romanzo, questo del giovane scrittore sardo, che deve molto al Male Oscuro di Giuseppe Berto. Ma anche al grande Bianciardi; la ricerca dell’autenticità è la chiave d’accesso alla vita, e la letteratura dunque si definisce come il luogo in cui in gioco è la verità stessa delle cose. Direi anche Morselli, non a caso sfigatissimo e solitario. E, sul piano stilistico, certo monologare anni Settanta che parte da Malerba e arriva oggi fino a Paolo Nori (con la differenza che Brentani ha cose più intelligenti da dire).

L’autore dunque cerca il tono comico-ironico per disinnescare il dramma dell’incapacità di vivere. L’ironia è strutturale nonché amarissima, un po’ dilatata e ripetitiva – va detto. Sta nella composizione più che nel dettato della frase. Dapprima c’è il “fatto”, in cui l’io narrante se la deve vedere con il gas della marmitta, fallimentare arma del suicidio. Il protagonista prova a uccidersi più volte ma i suoi tentativi falliscono. Nell’Antefatto che segue (proprio così), attraverso il flashback il racconto ci riporta a precedenti prove suicidali; nel frattempo ci tiene aggiornati sul suo presente tragicomico.

Il flusso di coscienza studiatamente strampalato potrebbe ingannare il lettore, ci avverte Brentani; non v’è bisogno di essere un fuoriuscito per decidere di farla finita. La prospettiva potrebbe blandire anche la mente più lucida della terra. Diritto al crollo, al patetismo, alla sconfitta, alla rinuncia – autore e narratore rifiutano in modo radicale un’idea della vita che oggi segna tutto nei termini antinomici vincente-perdente.

Per oggi non mi tolgo la vita ricorda che la scelta del suicidio può essere più normale di quanto non si ritenga abitualmente, ecco. Non è un clochard, il protagonista; è un editor, e il suo malessere ha tratti forse più esistenziali (già da bambino non gli andava bene niente – parole sue) di quelli del protagonista di un altro libro di questi mesi, Aspetta primavera, Lucky di Flavio Santi, scrittore già consolidato, la cui – del narratore – rabbia sembra più sociale; meno nichilista di questo, e altrettanto delicatamente virulento.

Brentani si dice estimatore di musica “Black metal”: da quelle parti il nichilismo abbonda e alle orecchie di chi scrive in modi niente affatto seducenti. Fortuna che nel libro non si vedono tracce di satanismo e altre forme sottoculturali di quel tipo; né il narratore istiga al suicidio alcuno – fortuna insomma che Brentani come scrittore e prima come lettore sembra meno corrivo e goffo di quanto non sia spesso la sua musica di riferimento – non ce ne voglia. Il ragazzo è simpatico, ha qualcosa da dire e sa scrivere (tre qualità difficili da trovare insieme in un solo giovane scrittore). Perciò, ci piacerebbe che continuasse a farci compagnia.

 

Michele Lupo

 

“L’io so del mio tempo”. Il dilemma pasoliniano in “Gomorra” di Roberto Saviano

[Intervento di Matteo Pascoletti precedentemente pubblicato sul suo blog]

Nel romanzo Gomorra, c’è un episodio in cui il protagonista e voce narrante si reca presso la tomba di Pier Paolo Pasolini per recitare quello che definisce «L’io so del mio tempo». In questa espressione si possono notare due tratti: un tratto connesso ad una visione storicizzata del rapporto tra intellettuale e Potere (che in Gomorra è Potere economico e territoriale); un secondo tratto che, da questa visione storicizzata, isola un precedente illustre, ossia Pier Paolo Pasolini, e si pone su questa scia per denunciare, nel lasso di tempo che intercorre tra l’articolo di Pasolini Che cos’è questo golpe? (1) e Gomorra, il processo di trasformazione del cittadino in consumatore, e le devastanti conseguenze a oltre trent’anni di distanza. Come si vedrà, il secondo tratto si palesa in relazione ad un altro precedente illustre, Luciano Bianciardi, che ne La vita agra ha ferocemente puntato il dito contro l’Italia del boom economico. È bene ricordare che il Pasolini dell’«Io so», impossibilitato a denunciare i responsabili di quei golpe che proteggono il Potere, è un intellettuale moralmente avverso al processo in corso, considerato un «nuovo fascismo»; ma come intellettuale, pena l’esautoramento del proprio ruolo o il suo tradimento, è eticamente impossibilitato a interagire con quel Potere che, scindendo la verità politica dalla pratica politica, favorisce il processo di trasformazione; un intellettuale non può separare la sfera dei valori da quella della prassi, dunque è impossibilitato, pur sapendo – e qui sta il dilemma – che ciò garantirebbe l’accesso a quelle prove o indizi. «Io so», dice Pasolini, «perché sono un intellettuale». «Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. […] Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi» (2).«L’io so del mio tempo» rompe questo schema, e lo rompe perché Saviano lo considera rotto in partenza. Chi lo pronuncia è nato in terra di camorra, e nascere e crescere in terra di camorra è come avere a che fare con un “virus” inculcato dal proprio habitat sociale. Per fare un parallelismo con Pasolini, l’intellettuale Saviano è moralmente avverso a quel Sistema che agisce tramite la camorra, ma eticamente è impossibilitato a non interagire con esso: il connubio tra “virus” e “intelletto” fa sì che il virus agisca come un farmaco (ossia nell’accezione tanto di veleno quanto di medicina). Scrive Saviano, con un lessico in cui spiccano i riferimenti al corpo, alla carne e alle funzioni biologiche (3):

In terra di camorra combattere i clan non è lotta di classe, affermazione del diritto, riappropriazione della cittadinanza. […] E’ qualcosa di più essenziale, di più ferocemente carnale. In terra di camorra conoscere i meccanismi d’affermazione dei clan, le loro cinetiche d’estrazione, i loro investimenti significa capire come funziona il proprio tempo in ogni misura e non soltanto nel perimetro geografico della propria terra. Porsi contro i clan diviene una guerra per la sopravvivenza, come se l’esistenza stessa, il cibo che mangi, le labbra che baci, la musica che ascolti, le pagine che leggi non riuscissero a concederti il senso della vita, ma solo quello della sopravvivenza. E così conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità. L’unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare.
(Gomorra, pp. 330-331)

 

La consapevolezza di questo virus è parte stessa del romanzo, e caratterizza gli aspetti più autobiografici e intimi del protagonista. Sottintende un’architettura tragica, inoltre, poiché la colpa (il ‘virus’) è ereditata, frutto del fato. Il sintomo più evidente è quello di una rabbia che talvolta si mostra come vera e propria hybrys. Si pensi, ad esempio, al passo relativo alla villa del boss Walter Schiavone, progettata volutamente per essere una copia della villa di Tony Montana, il personaggio interpretato da Al Pacino nel film Scarface. Il protagonista, preso da una rabbia pulsante di fronte ad una simile manifestazione del Potere, di fronte a dei meccanismi che sfuggono alla logica apparente, come può essere per un crimine organizzato che guarda alla cinematografia hollywoodiana come ad un ipotesto da cui forgiare i propri simboli, si sfoga orinando nella vasca da bagno. «Un gesto idiota», dice, «ma più la vescica si svuotava più mi sentivo meglio».
In precedenza, è sempre la rabbia, stavolta per l’ennesimo morto nei cantieri edili gestiti dai clan, a portare Saviano ad evocare il protagonista anarchico de La vita agra di Luciano Bianciardi, i suoi intenti dinamitardi contro il «torracchione», e a reagire con il già citato viaggio in treno a Casarsa, verso il cimitero dove è sepolto Pasolini:

Dovevo forse anch’io scegliermi un palazzo, il Palazzo, da far saltare in aria, ma ancor prima di infilarmi nella schizofrenia dell’attentatore, appena entrai nella crisi asmatica di rabbia mi rimbombò nelle orecchie l’Io so di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva sino all’assillo.
(Gomorra, p. 232)

È proprio in seno a questa rabbia, che nei suoi momenti più impulsivi e ciechi ricorda la hybris dell’eroe tragico, che sgorga «L’io so del mio tempo». E sgorga da uno stato d’animo che precede la dimensione razionale o intellettuale: le parole di Pasolini infatti rimbombano come un «jingle musicale», una similitudine che, curiosamente, richiama un elemento della società dei consumi. A questo stadio, ci si trova ancora in una massa indistinta e astratta in cui i contenuti non sono codificati in forme e le parole non hanno consistenza logica: è un piano dunque viscerale, emotivo, non intellettuale. Ma ciò che segue permette al Saviano scrittore, attraverso la proiezione autobiografica e la catarsi narrativa, di porsi idealmente oltre il Bianciardi disintegrato da quei meccanismi del consumo che avversava, e oltre il Pasolini fermo di fronte ad un nodo gordiano che non sa sciogliere. Se per sciogliere il nodo gordiano Alessandro Magno usò la spada, Saviano usa la parola, e la usa per denunciare un golpe economico che ha la propria spina dorsale nell’edilizia, terreno privilegiato per l’amalgama di quel Potere in cui lecito e illecito sono categorie contigue, e non elementi in opposizione:

Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova […]. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove. Io so dove le pagine dei manuali d’economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose, ferro, tempo e contratti. Io so. Le prove non sono nascoste in nessuna pen-drive celata in buche sotto terra. Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili paesi di montagna. Né possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola che ancora può valere quando sussurra “È falso” all’orecchio di chi ascolta le cantilene a rima baciata dei meccanismi di potere. La verità è parziale, in fondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di questa verità.

[…] Il cemento. Petrolio del sud. Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nato nel Mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni […]. L’imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna.

[…] Io so e ho le prove. Gli imprenditori italiani vincenti provengono dal cemento.
(Gomorra, pp. 234-240)

Per capire che cosa intenda Saviano quando afferma che «La verità è parziale», e non «riducibile a formula oggettiva», bisogna osservare il rapporto tra quei dati citati all’interno di Gomorra e la dinamica narrativa entro cui si manifestano. In Gomorra c’è un assioma deducibile alla base di questo rapporto, e che giustifica implicitamente la forma romanzo adottata dall’autore: conoscere il numero di morti prodotti dall’epidemia del crimine organizzato è diverso dal vedere quelle persone morire per effetto dell’epidemia. Per rendersi conto di come viva questo assioma all’interno del romanzo, si guardi il capitolo intitolato «La guerra di Secondigliano» (4): il dato relativo agli omicidi compiuti dalla camorra in quegli anni non presenta picchi rilevanti, mentre la narrazione di come abbia agito la guerra a Secondigliano mostra un clima in cui la mattanza è all’ordine del giorno e non risparmia niente e nessuno.
Alla luce di ciò, ci sono due considerazioni da fare. La rottura ideologica del dilemma pasoliniano agevola innanzi tutto un rischio, ossia che il messaggio contenuto in Gomorra, nell’arrivare al destinatario, non possa essere disgiunto dal mittente, facendo di quest’ultimo un simbolo (una coppia inscindibile emittente-messaggio): ma se il mittente predomina all’interno del simbolo, il messaggio si indebolisce, o viene ridotto a fenomeno di costume, addirittura ad epifenomeno. Il destinatario legge Gomorra, vede lo spettacolo teatrale o il film perché è di moda, perché attraverso quell’oggetto artistico costruisce un’autorappresentazione di sé, e disperde il messaggio in un meccanismo autoreferenziale; o, peggio ancora, si identifica emotivamente con un immaginario centrato sull’autore, e attraverso l’identificazione con l’autore identifica se stesso. Lo stesso Saviano è consapevole di questo rischio, come si evince da questo passo, tratto da un’intervista rilasciata a Internazionale:

Quello che ha messo in pericolo la mia vita non sono state le informazioni che ho dato, ma il fatto che queste informazioni sono arrivate a molte persone. Se ci raccontiamo queste cose solo tra di noi o in tribunale non facciamo paura. Oggi la comunicazione ha davvero – per usare una parola che tutti detestano – una missione. Basta raccontare al mondo cose che sono già agli atti. La mia vicenda spesso viene definita un fenomeno mediatico. Può sembrare riduttivo o offensivo, ma è esattamente così.
(Gomorra ai tempi della crisi, intervista a Roberto Saviano, «Internazionale» del 20 marzo 2009, p. 37)

La seconda considerazione riguarda la natura parziale di «questa verità», parzialità che fa retrocedere la possibilità di azione politica dell’intellettuale. Poiché i «nomi» che andrebbero fatti, secondo il dilemma pasoliniano, sono quelli di tutti i responsabili, a qualunque livello, e non soltanto quelli relativi a ciò che vedono gli occhi (i clan casalesi, in Gomorra). Quindi l’opera di denuncia può esaurirsi solo attraverso una composizione di visioni parziali che, come un mosaico, messe insieme restituiscano il quadro completo. Ma se il terreno si sposta dall’intelletto al piano emotivo e viscerale (un piano fondamentale nello stile di Saviano e che ha in Gomorra il suo esito più alto), fino a rendere più importante il secondo, se il contenuto veicolato dalla retorica diventa morale o ideologico, e se viene a mancare una prassi, allora, ritornando all’intervista, essere «fenomeno mediatico» per l’intellettuale-farmaco non è «riduttivo» né «offensivo». È piuttosto una pericolosissima degenerazione, poiché nel frattempo i responsabili che non sono stati denunciati avranno il tempo di mettersi al riparo, magari sfruttando l’attenzione rivolta dall’opinione pubblica a quelli denunciati, e poiché l’intellettuale-farmaco diventa rappresentazione di intellettuale ad uso e consumo delle masse. C’è un passo nell’articolo di Pasolini che parla proprio di ciò:

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si definisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
(Il romanzo delle stragi, p. 90)

Se si guarda alla recente iniziativa di Saviano degli “elenchi”, si nota come la degenerazione sia in fase assai avanzata. Con gli elenchi si è addirittura giunti al di sotto dell’ipocrita dibattito morale e ideologico di cui parlava Pasolini: tutto ora è emozione e bellezza collettiva in cui identificarsi, manca qualunque dimensione critica, intellettuale o razionale. Gli elenchi sono «carta costituente di se stessi» (5): domina un principio di identificazione in cui il soggetto che prova l’emozione e la scrive nell’elenco si autoreifica (ossia “io sono la cosa che mi piace”); quella con gli elenchi non è perciò una relazione basata sul gusto (“mi piace”). Addirittura agli elenchi si conferisce una capacità magica, poiché «i dettagli comuni inseriti negli elenchi smettono di essere cose trascurabili e divengono dettagli fondamentali».
Sono dunque all’opera i due rischi sopra indicati:

Sentimenti antichi, desideri vivi, lampi di gioie quotidiane irrinunciabili.
[…]
È da qui che mi piace pensare l’inizio di una possibile e necessario percorso, un insieme di desideri di felicità che si uniscono. Non il paese incattivito, egoista, in fondo disperato in cui ciascuno bada solo ai fatti propri, dove tutti sono ugualmente sporchi, compromessi, piegati, e quindi tutti uguali nella meschinità.

Come si può vedere, infatti, non è importante il messaggio codificato negli elenchi, ma l’esistere a-critico degli elenchi come oggetti emozionali: lo stesso Saviano è secondario, rispetto ad essi. Inoltre i nemici individuati, ora, non sono responsabili di un golpe secondo il dilemma pasoliniano, ma semplicemente persone al di fuori del meccanismo di identificazione, che lo rifiutano o non lo riconoscono:

Elenchi banali, diranno i cinici, pieni di ipocrisia e di falso buonismo, diranno i saccenti. Ma chiunque abbia ascolto sincero delle parole sa che sono loro a banalizzare, impauriti dalla semplicità quando diviene senso della vita e soprattutto punto fermo di felicità.

Si è perciò nella demagogica situazione in cui vengono additati come nemici degli eversori emotivi, la cui colpa non è politica, né morale o ideologica: la colpa è quella di non riconoscere la reificazione delle emozioni attraverso gli elenchi, il loro valore autofondativo.
Da notare che nel lessico usato da Saviano prevale ancora il richiamo e l’attenzione stilistica a ciò che è corpo e carne, parentela, legame. Tuttavia è sparito qualunque accenno alla propria condizione di intellettuale-farmaco, al provenire da una terra ‘infetta’. La malattia, il ‘virus’ è allontanato da sé, e proiettato sugli altri, così come sono presenti accenni a ciò che è cura e medicina, sempre esternalizzati:

[…] il sentimento dei legami va oltre la cerchia del sangue. L’amore per i genitori, anche malati […]. C’è il piacere di ridere, a crepapelle, sino alle lacrime: risate terapeutiche capaci di contagiare e curare chi è triste. […] la ricerca della felicità, che si fa corpo in questi elenchi. […] un’Italia integra, pulita […].

L’atteggiamento, dunque, l’ethos incarnato dalle parole di questo Saviano è quello del demagogo che crea un senso collettivo in cui ciò che è critico è potenzialmente una minaccia e va visto a priori con sospetto, poiché l’atteggiamento critico distanzia se stessi dalle cose; un demagogo particolarmente efficace, va detto, poiché popola questo senso collettivo con un immaginario che proviene “dal basso” e che si limita ad amministrare attraverso la retorica e l’autorevolezza conquistata in precedenza. Un procedimento la cui pericolosità è sintetizzabile in queste due frasi: «la dimensione privata di molti messa insieme può divenire pubblica. È da qui che mi piace pensare l’inizio di un possibile e necessario percorso, un insieme di desideri di felicità che si uniscono». Ciò che manca, oggi, è un aspirante tiranno in grado di fare sua questa visione populista, ma è chiaro che, rispetto alla visione populista berlusconiana, che è calata dall’alto (il mito della «discesa in campo»), quello degli elenchi è un populismo complementare.

 

NOTE

(1) Apparso sul «Corriere della sera» del 14 novembre 1974. Si è fatto uso del testo che compare in Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2008, pp. 88-93, dove compare con il titolo Il romanzo delle stragi.
(2) Il romanzo delle stragi, p. 89.
(3) Si cita da R. SAVIANO, Gomorra, Milano, Mondadori, 2006.
(4) Gomorra, cit., pp. 71-150.
(5) cito dall’articolo Cinquantamila ragioni per vivere / Tutti gli elenchi della felicità linkato in precedenza.

Storia del giudizio universale così come l’ho visto io

Non abbiamo nessun tipo di certezza su ciò che riguarda i processi mnemonici che seguono gli eventi collettivi, i fatti che una porzione di popolazione mondiale ricorda per anni, per decenni, per millenni, o in qualche caso solo per ore. Non sappiamo molto su questo argomento, ma conosciamo la prassi che segue e consolida i ricordi collettivi. La prassi consiste più o meno in tre domande.

Tu dov’eri quando è successo?

Tu che facevi quando è successo?

Tu con chi eri quando è successo?

 

Quando è successo il giudizio universale io ero nel bagno di casa mia.

Quando è successo il giudizio universale io piangevo davanti allo specchio del bagno di casa mia, e pensavo che dovevo smetterla di piangere e di guardare lo specchio mentre piangevo, pensavo, sì, me lo ricordo, pensavo che dovevo uscire immediatamente dal bagno, infilarmi le scarpe e poi tornare indietro, nel bagno, e piangere ancora un po’ davanti allo specchio, e poi prendere il bagno schiuma che avevamo comprato insieme nel negozio dei cinesi che vendono tutto a 1 euro, e correre verso i bidoni dell’immondizia, e scaraventare l’oscena confezione plasticosa con sopra disegnate le mandorle e i fichi, e poi tornare a casa, e piangere ancora un po’.

Quando è successo il giudizio universale io ero solo, piuttosto solo.

 

Prima di tutto, questo non è un racconto fantascientifico, e secondo di tutto, il giorno del giudizio universale non è come tutti si aspettavano che fosse.

Ora, con il senno di poi, è facile dire che Michelangelo si sbagliava, e molti, prima del giudizio universale, avrebbero detto che non era possibile che Michelangelo potesse sbagliarsi su una cosa del genere, ma è così e basta.

Per correttezza vorrei citare anche i nomi di altri pittori che si sono sbagliati:

– Giotto, affresco nella Cappella degli Scrovegni a Padova;

– Buffalmacco a Pisa;

– Franco e Filippolo de Veris a Campione d’Italia;

– Luca Signorelli a Orvieto

– (gli altri non sono elencati perché non mi piacciono).

 

Ero nel bagno di casa mia a piangere, dicevo, cercando di evitare il viso nello specchio, quel viso che macinava carta igienica al ritmo di un cingolato, spremendo il naso quasi perfetto che mi ritrovo sulla carta assorbente da 1.20 euro comprata dai cinesi sotto casa.

In effetti il problema del giudizio universale è universale perché tocca tutti, e perché tutti noi viviamo nel culto della personalità, e perciò il giudizio universale non può non essere definita una carognata, dal punto di vista sia particolare che universale.

Il mio particolare punto di vista, se il lettore facesse uno sforzo di immaginazione, era deludente, per uno che si appresta ad accettare passivamente il giudizio.

Le gambe piegate mimavano una posizione kundalini per niente geometrica, con un ginocchio, il sinistro, piegato sotto il destro, e con un piede, quello destro, piegato sotto il peso delle natiche sofferenti, e con il corpo, tutto quanto, in definitiva, prostrato come quegli uomini che si piegano sui tappeti, e con questa posizione per niente kundalini me ne andavo per la via che il giudizio stava per imprimere sulle umane galere.

Le mie ultime esperienza in fatto di carognate erano molto salaci, a volerle vedere con occhio esperto, con l’occhio di chi sa che la vita offre certi spunti, e che se hai abbastanza ossigeno da respirare quando la vita decide di offrirti questi spunti, allora forse tutto passerà, e poi anche la vita, dicono. Ed è questo che ti fa incarognire, quando ti capita una carognata, perché escludi le carognate, quando vivi, e perché escludi che ti ricapitino, quando ti sono appena accadute. Ma la vita è così, non c’entra niente con gli oblò e non è nostra per niente, nonostante qualcuno dica che invece no, è nostra.

No, è mia.

 

Prima che accadesse quello che poi sarebbe accaduto, avevo letto due libri di due scrittori che mi piacevano, due libri lontani nel tempo, ma belli. Il titolo di entrambi riportava la parola “vita” come soggetto. Uno era La vita agra, l’altro La vita oscena. Ora, purtroppo, non ricordo chi fossero questi due scrittori, e non ricordo neanche tanto bene la trama dei due libri, però so che li ho amati, a modo mio.

Ecco, il fatto che la vita sia agra e oscena lo trovo purtroppo verosimile, se prendo un bel respiro e cerco di rivedere quel ragazzo magro, con i capelli arruffati, crespi, maleodoranti, piegato come un contorsionista mentre cerca di recuperare peli pubici dallo scarico del bidè.

Il lettore con buona memoria si sarà ricordato di aver letto poco sopra che ero solo, quando è accaduto il giudizio universale, e forse si sarà incuriosito a leggere di me che cerco matasse di pelo intrecciato nello scarico del bidè.

 

TEMA: Perché ero solo quando è successo il giudizio universale?

SVOLGIMENTO: Ero solo perché una carogna aveva alitato sulla mia vita instabile, più che agra, precaria, più che agra, più che oscena, lubrica.

PRIMO INDIZIO SBAGLIATO:

Per quanto riguarda l’escatologia cristiana, il Giudizio universale (o Giudizio finale) avverrà alla fine dei tempi (questo è chiaro, perché se arriva il giudizio i tempi finiscono, altrimenti che giudizio sarebbe?).

Questa escatologia cristiana dice che Dio giudicherà tutti gli uomini in base alle azioni da loro compiute durante la vita, e destinerà ciascuno al Paradiso oppure all’Inferno. Il problema di questa dottrina è che fa riferimento ad una celebre parabola di Gesù (Matteo 25,31-46), e tutti noi sappiamo che le parole sono importanti, ma ancora di più chi le trascrive.

SECONDO INDIZIO SBAGLIATO:

Quindi secondo l’escatologia cristiana c’è prima un giudizio particolare, quando la gente muore, e poi un giudizio universale, con la fine dei tempi, a cui segue la resurrezione della carne, e cose così. Poi va detto che altre confessioni cristiane, ad esempio i Testimoni di Geova, ritengono invece che anche le persone non possano accedere al Paradiso terrestre o alla distruzione eterna fino al Giudizio universale.

Quindi ci sarebbe una specie di muro, un’architettura che siamo molto bravi a costruire, che impedirebbe alle anime di accedere al Paradiso o all’Inferno fino al Giudizio Universale. La cosa mi delude.

TERZO INDIZIO SBAGLIATO (SINTESI DELLE altre ESCATOLOGIE):

Poi ovviamente arrivano i protestanti, con una loro tradizione, ispirata da alcuni passi biblici che sostengono che immediatamente prima del Giudizio universale ci sarà una bella battaglia finale tra le forze del bene e quelle del male nel luogo, letterale o simbolico, del monte di Megiddo o Armageddon, presso Gerusalemme. Questi hanno veramente esagerato, e tra l’altro la loro idea di battaglia, io lo posso dire, è stata usata come calco da tutti i governi del mondo negli ultimi cinquecento anni, almeno credo.

L’equivalente nell’escatologia islamica è la qiyama (però non ci dilunghiamo su questa perché siamo occidentali ed eurocentrici, e non ci interessano queste cose esotiche).

L’escatologia ebraica prevede il Messia (ed è quella che mi sta più simpatica, perché non prevede grandi battaglie e neanche molti morti, credo).

Nell’Induismo Garuda Purana tratta diffusamente dei giudizi e delle punizioni dopo la morte (ma non sono mai riuscito a leggerle tutte, perciò basti il pensiero).

 

Ero solo perché un tizio biondo mi aveva rubato prima la mia ragazza e poi la mia amante. Ero solo perché la mia ragazza era andata a vivere con questo tizio, un tizio con la voce ridicola, grossa come le voci dei vecchi tromboni che calcano le scene imitando il vecchio Lear, un tizio che non potevo sopportare quando la mia ragazza andò a vivere con lui, questo fu difficile da sopportare, e un tizio che immaginai più tardi, quando anche la mia amante aveva scelto lui, e lo immaginavo in varie posizioni, in diversi momenti della giornata, scuoiato e flagellato (a colazione) secondo i precetti di Garuda Purana, oppure strigliato e schiaffeggiato per bene (a pranzo) dalla barba del signore con la barba mentre chiede pietà (emettendo grida e urletti acutissimi) sul monte di Megiddo, oppure infilzato dallo zoccolo di un cavallo (a cena) nella grande battaglia finale. Il fatto è che quando sono triste e solo non mi va di cucinare, perciò mangio quello che trovo, quello che si trova nelle confezioni di plastica che qualcuno, con una certa lungimiranza, ha deciso di lasciare in frigorifero o nell’armadietto delle sorprese. L’armadietto delle sorprese è una specie di Babele in cui tutte le spezie conosciute nel mondo in cui vivo io si incontrano. Lì dentro puoi trovare cose preziose.

 

Come quasi tutti i romantici sono un feticista. Mi piace l’associazione della parola bacio al colore della carta che si usa per incartare le uova di Pasqua, per esempio, e sono un sostenitore dell’attività del sistema limbico del mio cervello.

Da bravo feticista adoro la mia amigdala. E adoravo la sua. La loro.

Ma sono anche un tipo impulsivo, dal punto di vista emozionale, e devo dire che il mio ippocampo è un bastardo stakanovista, perché ricorda i fatti nudi e crudi, continuamente, mentre la mia amigdala ne trattiene, come quelle spugnette a forma di papera che i miei lasciavano galleggiare nella vasca da bagno, il sapore emozionale.

Quindi il fatto che il giudizio universale sia accaduto mentre piangevo cercando peli pubici nello scarico del bidè è strettamente connesso al concetto che mi sono fatto della parola “fallimento”. Io credo che a un fallimento si debba reagire, e che la reazione al fallimento abbia bisogno di una carica emozionale piuttosto concentrata, e che se questa concentrazione non dovesse bastare, perché al fallimento N°1 è subito seguito il fallimento N°2, allora non si può fare nulla, e quindi la parola “fallimento” non può far altro che accompagnarsi alla parola “umiliazione”. Ma l’umiliazione deve essere forte, fortissima. Perciò raccoglievo pezzi di pelo pubico dal bidè (o bidet, se preferite).

L’argomento era il giudizio universale, o sbaglio?

 

Il giorno del giudizio universale, in tutto il mondo, a seconda dei fusi orari
vigenti, (nel mio caso erano le 04:25 del mattino) le persone dimenticarono una parola, il suo significato e tutte le connessioni che quella parola aveva con la loro “vita”;
ognuno dimenticò una parola diversa, e nonostante vani tentativi, nessuno riuscì mai a ricordare cosa significasse quella parola, né a cosa fosse legata;
dimenticammo anche i sinonimi, perché il giudizio agì così;
le persone, in quel primo giorno di giudizio universale, impazzirono un po’;
devo dire che ci furono miliardi di equivoci.

Il giudizio, secondo gli studi fatti ad oggi, agisce in questo modo:

le parole dimenticate non potranno più essere imparate nella lingua in cui sono state dimenticate. Perciò gli esseri umani dovranno ricostruire i loro ricordi, dovranno sforzarsi di parlare lingue a loro sconosciute, come succedeva migliaia di anni fa tra i pescatori, che parlavano una dozzina di lingue a testa (ma tutte male). Ma nessuno potrà scegliere la lingua della parola dimenticata.
Così, ci si potrà spiegare solo conoscendo molte lingue. Tutti studieranno
molto. Il tempo cambierà spessore. Le priorità saranno altre.
Il giudizio universale sarà una grande manna. Perché i dialoghi saranno molto
molto divertenti. E tutti sapranno qualcosa di tutti.

Ma non ne sono tanto sicuro.

Marco Lupo

Aspetta primavera, Lucky

Aspetta primavera, Lucky (Edizioni Socrates, 2011)

di Flavio Santi

 

Arrivo la sera morto, con gli occhi cotti come due uova in padella.

 

 

Ci sono dei libri che non ci lasciano indifferenti per principio, perché appartengono al nostro mondo ancor prima che alla scrittura, alla loro scrittura.

È un fatto strettamente personale, qualcosa che incrocia il nostro percorso fatto di altre letture e altre riflessioni; qualcosa che ci avvicina per principio al libro in questione, che ce lo rende fin troppo prossimo. Insomma, ci sono libri che per mille motivi non sfuggono a una lettura partigiana, viziata da un’invasione di campo che ci spinge a ingaggiare una lotta, più che una lettura: con o contro di loro.

È da queste premesse che nasceva il mio iniziale scetticismo nei confronti del libro di Flavio Santi, che tra tutti andava a toccarmi proprio il mio adorato Bianciardi (e il Bandini di John Fante); motivo per cui ho apprezzato di meno le prime pagine, dove ancora dovevo liberarmi dai miei pregiudizi e da ogni resistenza dettata dalla diffidenza nei confronti di una certa sfrontatezza dimostrata dall’autore – eppure, mi dico oggi che l’ho letto, in quel momento non ero forse la stessa persona convinta del fatto che sia meglio cimentarsi coi grandi e rischiare un grande fallimento, piuttosto che gareggiare col primo babbeo che va di moda?

E infatti dicevo dell’incipit, dove il protagonista sogna Pasolini, mica noccioline: Pasolini che anziché esser fuggito a Roma si è fermato in Friuli, a lavorare come insegnante nelle scuole medie, e che non ha più tempo per scrivere poesie né provare a fare un film. È a partire da questa invenzione dell’inconscio che Santi ci regala un’invettiva sulla condizione dell’intellettuale nel terzo millennio; in particolare quella di un traduttore – ed ecco qua Bianciardi e la sua Vita agra – che deve combattere con un mondo editoriale ridotto a spettacolo grottesco, a fiera delle vanità, dove la sopraffazione è un valore riconosciuto da tutti.

I personaggi che abitano le pagine di questo romanzo restano impressi al pari del protagonista, nel quale può riconoscersi chiunque viva oggi sulla propria pelle la condizione di lavoratore precario: basti pensare al collaboratore editoriale Danilo Casupola – che ripete continuamente: «A quando il botto?» riferendosi al Pirellone o Torracchione bianciardiano –, licenziato per far posto a un raccomandato; o allo scrittore Adamantino Pollastri, uno molto potente e in vista, uno che si lamenta del suo successo che l’ha trasformato in “brand”; senza dimenticarsi di Tano Dere, un conduttore televisivo che fa trasmissioni sui libri senza mai averne letto uno.

Il prodotto di questo mondo, a cui il protagonista rimane attaccato a costo di enormi sacrifici – perché ci starebbe volentieri al posto di Adamantino Pollastri, anziché dover elemosinare traduzioni per pagare le bollette –, è una persona incapace di esplodere, tanto per non discostarci dalle pagine della Vita agra: un uomo che anche volendo non distruggerebbe niente, circondato com’è da sole macerie. Un uomo che a forza di accettare è diventato persino incapace di scegliere, diviso fra due donne così come lo è fra il sogno e la realtà: da una parte la moglie Giulia, che ancora crede all’utopia (al comunismo), e di cui è innamorato di un amore delicato ma evanescente; dall’altra Sveva, che raggiunge a Roma ogni volta che può per sfogare le sue pulsioni sessuali – due parti che non formano comunque un intero: quella Simone Weil che è il sogno erotico segreto del protagonista.

Per quanto odi il potere e l’aura d’arroganza e ipocrisia che lo circonda, Fulvio Sant – alter ego dello scrittore, che suona all’orecchio come una sorta di kamikaze – è un uomo che non riesce neanche più a urlare i suoi vaffa, ma che al massimo se li sogna, e che come lo struzzo (della copertina del libro) mette la testa sotto terra; ma ci sente lo stesso, eccome se ci sente. Infatti non c’è niente di consolatorio in questo libro, a partire dalla scrittura stessa di Santi, che arriva dritta al cuore del problema e delle cose: una scrittura che mette in subbuglio e lascia il segno, e che soprattutto non risparmia nessuno, né vincitori né vinti.

 

Simone Ghelli

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 13

[puntate precedenti]

Non voglio con questo farvi intendere che gli altri tre fossero dei briganti da meno, o che non fossero anche loro già provvisti di idee malsane, soltanto che la grande trovata venne al toscano come conseguenza della legge di trasmutazione dall’originale – il Luciano Bianciardi – al personaggio che costui si era ritagliato addosso. Insomma, egli seguì né più e né meno ciò che stava scritto in quel romanzo a lui tanto caro, forse perché partorito in quella maremma maiala la cui storia rispecchia per certi aspetti quella dell’italico stivale: un luogo impervio e bonificato, trasformato e trasfigurato dal boom economico, che ha visto nascere e crollare il mito di una modernizzazione destinata a rimanere appannaggio di pochi.

Ma chi erano poi questi altri personaggi della combriccola?

Seguendo l’ordine di apparizione, sempre per attenerci a fatti di cronaca irrimediabilmente compromessi dalla finzione, c’era il poeta dei monti Aurunci, che per sbarcare il lunario eseguiva lavoretti da muratore e da imbianchino, tanto che pare scrivesse più col pennello che con la penna. Questo, per non essere da meno, s’era messo in testa di somigliare addirittura a Vasco Pratolini, che ne aveva fatti tanti di mestieri, ma non certo quello di stuccare i buchi nei muri. Probabilmente quest’uomo che estraeva poesie dal secchio della calcina, com’ebbe a scrivere un suo estimatore dopo averlo incontrato tra i vicoli di Colle val d’Elsa (e che ci facessero là entrambi, rimane per me uno dei tanti misteri di questa storia), rimase affascinato dalle ambientazioni neorealiste dello scrittore fiorentino, ma ancora di più dalla scelta di rendere protagonisti i personaggi del popolo: appunto, imbianchini e muratori.

Ma il più spassoso era quello che si credeva un Ezra Pound remixato a colpi di neomelodici napoletani e coi pantaloni a bracala tipo gangsta rapper, e che si fece crescere la barba per apparire ancora più maledetto, col risultato che gli ci zompavano dentro le pulci al ritmo dei suoi versi. Pare fosse proprio lui il più gettonato sul palco, quello che ammaliava il pubblico, che con labbra penzoloni si godeva questo saltimbanco del calembour. Era anche l’unico a conoscere a memoria le proprie parole, che sputava velocissime sul microfono, mentre gli altri quattro andavano avanti con i fogli in mano, come degli attori che stiano provando la loro parte, con il bel risultato d’incepparsi ogni tre righe. Perché dal vivo, a onor del vero, non è che essi fossero poi tutta questa cosa straordinaria: semplicemente degli scrittori che leggevano le loro cose, con stili assai diversi, e forse piacevano proprio per questa presunta genuinità e biodiversità.

Resta invece l’ombra del dubbio sul quinto e ultimo, in ordine di apparizione, componente, ché non volle somigliare a nessuno – forse perché comparve effettivamente soltanto in quel di Milano? – ma che per non sciupare il trucco venne accostato al Camillo Boito, un po’ per il fiero cipiglio, e un po’ per l’esser scapigliato e dunque romantico e decadente, nonostante una corporatura da lottatore che non si confaceva certo al paragone. Sicuramente vi era però un’affinità nella scelta dei temi, che entrambi ricercavano la bellezza in tutte le sue forme, e in primo luogo quella femminile, da lusingare a forza di periodi contorti e di fascinose metafore; e qui si chiude il cerchio, se me lo concedete, sull’argomento donne, sul quale potete adesso sentirvi liberi di trarre le vostre conclusioni.

Simone Ghelli