Yes, I can – #TUS2

Machiavelli[Quello che leggerete non è il testo di Torino Una Sega 2 che avevamo programmato di pubblicare oggi. Purtroppo pare che l’autore scelto abbia mentito su un master svolto a Chicago, e allora per correttezza abbiamo deciso di pubblicare il testo di Pino Scannamonaca. Lo splendido 40enne Pino ha letto la ricetta Leprè in salmì, e questo Yes, I can che farà felici i fan di Machiavelli e del Collettivomensa]

oggi mi stavo per tagliare il cazzo volontariamente. ma mi spiego.
stavo leggendo il Principe di Machiavelli, capendoci davvero poco, tamen se si considerrà bene tutto, ho alzato lo sguardo verso la finestra della mia cameretta e ho visto degli stormi giganteschi di rondini o checosasono che volavano nel cielo sopra i palazzi della stazione, erano miliardi, lì nel cielo a garrire, a inseguirsi, ad accalcarsi in masse informi e poi sciogliersi velocemente e di nuovo, tant’è che quando si addensavano diventavano un un’unica maschera nera che oscurava tutto il mio piccolo angolo di cielo visibile dalla mia finestra. da qualche parte avevo letto come il moto degli uccelli fosse determinato e non casuale e come stagliandosi nel cielo gli uccelli componessero delle figure ben precise, magari figure di uccelli molto più grandi delle singole componenti in modo da spaventare i predatori, ma non mi importava, perché quelle rondini se la stavano spassando lì nel cielo, si inseguivano, piroettavano, scendevano in picchiata, poi si rialzavano placide nel cielo, a beffeggiare la forza di gravità e noi poveri umani che non sapevamo alzarci d’un palmo. sembrava uno spettacolo messo in scena solo per me, che se avessi chiuso le imposte si sarebbero subito acquietate, ma poi le chiudevo e quando le riaprivo erano ancora lì ed erano ancora di più, arrivavano da ogni parte, in massa, e non si sapeva perché lo facessero, forse facevano primavera, ma in ogni caso era febbraio. Leggi il resto dell’articolo

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La società dello spettacaaargh! – 4

[La società dello spettacaaargh! 1 23]

Caro Jacopo,

mi spiace davvero di non poterti svegliare da quello che chiami «incubo», ma in questa veglia che oscilla tra l’orribile e l’assurdo, se ti è di qualche consolazione, non sei solo.
Concordo con te quando parli del precipitare «dalla […] contraffazione della logica, che allontana il concetto di verità della realtà, all’inconsistenza della realtà, che genera indifferenza», e di come ciò si accompagni al «deterioramento della capacità morale» (ossia «capacità di sentire i valori») che «agisce come un feedback anche sulla logica e sulla verità, perché anche nella logica non cogliamo più valore, e anche nella verità non cogliamo più valore, e l’indifferenza si rafforza». E ti ringrazio, perché, per dirla come Montale, hai dichiarato certe dinamiche «con lettere di fuoco» che bene restituiscono il loro agire brutalmente su «l’animo nostro informe». Non era compito facile, ma ci sei riuscito egregiamente. Leggi il resto dell’articolo

Elogio dell’ignoranza

L’uomo non somiglia alla scimmia solo perché ha in comune con lei il corredo genetico o, come vorrebbe Jorge de Burgos, il riso. L’uomo ha in comune con la scimmia, essenzialmente, la curiosità. Il lato distintivo dell’intelligenza è la curiosità, è risaputo, lo dice anche Aristotele nella Metafisica («Tutti gli uomini, per natura, desiderano sapere») che il genere umano tende sempre a sapere o a cercare di sapere. Dello stesso parere sembrava Martin Heidegger quando diceva «Non possiamo non chiedere perché». Ed è proprio questa la parolina magica: “Perché?”. Tutto parte sempre da qui: “Perché?”. Ma supponiamo, per amor d’ipotesi, che l’uomo fosse onnisciente. La spinta al conoscere non ci sarebbe. Di conseguenza non ci sarebbe neanche la curiosità. E se non ci fosse la curiosità, il carburante per il meccanismo dialettico intellettivo, inevitabilmente, andrebbe in malora.

Come gli immortali che Borges descrive ne l’Aleph si sono disamorati della vita, così le ipotetiche creature onniscienti sarebbero poco più che dei dogmatici col cattivo vizio dell’aver ragione. «Solo l’individuo libero può meditare e creare, in questo modo, nuovi valori, sociali», disse Einstein, ma se è onnisciente non ha libertà perché le sue stesse conoscenze lo limiterebbero come se fosse (questo voleva precisamente dire Einstein) in una dittatura. Non creerebbe valori sociali perché in una società di onniscienti non c’è nulla da creare o da dire che non sia già stato concepito. L’onniscienza porterebbe all’inazione e all’ignoranza dialettica. Se tutti sappiamo tutto, che bisogno c’è di parlare e interagire? So già che vuole il mio prossimo da me, so già che lui sa tutto e so che lui sa che io so tutto. «L’uomo è il principio delle azioni» (Aristotele) solo se ha bisogno di tali azioni. E un non-onnisciente messo con un onnisciente? Certo che ci sarebbe dialogo: ma sempre e solo per la curiosità del non-onnisciente. Se sbaglio e vengo in possesso della verità, imparo. Se non sbaglio e so già tutto, non imparo e vegeto. «Una cosa è dimostrare che un uomo ha torto, una cosa è metterlo in possesso della verità», teorizzò Locke nel Saggio sull’intelletto umano, ma ovviamente lui si riferiva a persone normali, cioè non in possesso della verità. Gli onniscienti sono già in possesso della verità, la loro vita è grigia e senza sorprese, già scandita e definita. In loro è radicata la gnoseologia della capra cotta, che ben si sa dove può andare. Da nessuna parte!

«La verità dovrebbe essere il respiro della nostra vita», disse Gandhi, ma un respiro non deve arrivare a soffocarci. In un mondo di onniscienti Machiavelli non sarebbe mai esistito, non avrebbe mai scritto «Colui che inganna troverà sempre chi si fa ingannare» ne Il principe: chi devi ingannare fra onniscienti? L’onniscienza, portando all’immobilità intellettuale, porta anche al pragmatismo più sfrenato: da qua il possibile, da là l’impossibile, da là l’opportuno, da lì il nocivo. Questo vuol anche dire fine delle aspirazioni: «Un’aspirazione chiusa nel giro di una rappresentazione; ecco l’arte» (Benedetto Croce, Breviario di estetica). Fine dell’arte. Come sempre parlava bene Einstein a un’umanità di non-onniscienti: «Ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto» (nel suo Come vedo io il mondo). Quanto c’è d’umano in un onnisciente?

In La democrazia in America il Tocqueville dice che «I popoli democratici provano per la libertà un gusto naturale». Questo lo pensava lui, ma in un mondo di onniscienti la libertà e la democrazia sono un optional: che me ne faccio di un ordinamento se io stesso conosco l’ordinamento dell’universo? E anche l’amore ci andrebbe di mezzo: fine della conquista (so già chi, come, dove, quando, perché conquistare), fine della passione (so tutto dell’altro, non ho il gusto della scoperta e della quotidianità e dell’intimità romantica), fine del «Quel che si fa per amore è al di là del bene e del male» (Forza Nietzsche!). Boezio, nella Consolatio, dice che «ogni condizione è felice quando sia accettata, con sereno equilibri»”: questo è proprio l’atteggiamento dell’onnisciente. Sereno equilibrio. E poi si finisce come Boezio: a pelar patate su una roccia aguzza mentre castori demoniaci ti mordono le chiappe. Addio Newton che con gli occhioni sognanti ti domandi: «Da dove provengono l’ordine e la bellezza che vediamo nel mondo?» (argomento poi distrutto da Richard Dawkins in L’illusione di Dio). In un mondo d’onniscienti lo prenderebbero a calci nel sedere e gli darebbero dell’imbecille. A Newton. Come consolazione potrebbe rimanere la bellezza che, come diceva Nietzsche, ha la voce sommessa per essere compresa sola dalle anime più deste. Ma il filosofo parlava di anime deste, un onnisciente – lo abbiamo visto prima – è ormai dormiente e anestetizzato. Insensibile, forse anche alla bellezza.

E allora, tirando le somme, si direbbe che a essere onniscienti, non solo si perde il gusto delle cose, ma anche quello della vita stessa. Non esiste un mondo di onniscienti perché «La totale privazione del bene, dunque, significa inesistenza. E, viceversa, l’esistenza suppone il bene» (Sant’Agostino lo dice nelle Confessioni) e «L’uomo seleziona a proprio beneficio, la natura a beneficio di ciò che accudisce» (Darwin lo dice ne L’origine della specie).

 

Antonio Romano

L’inutilità del genio post-moderno /2

Entriamo ora nel vivo. «Ogni uomo è un debitore e un mimo, la vita è teatro e la letteratura è una citazione»: Emerson, Società e solitudine. Questa citazione extra ci dà il là per la prossima domanda pleonastica e retorica che dobbiamo porci: di che cosa la letteratura è la citazione?

(Citazione, dunque contagio da un testo all’altro. Contagio esclusivo perché non per tutti e non in tutte le modalità).

Se questa letteratura di cui ci riempiamo la bocca è, come abbiamo visto, un’illusione repertiata e reiterata all’infinito nello spazio e nella storia ed è anche un morbo elitario, inevitabilmente dobbiamo ricercare la sua fonte originaria – cioè la cosa di cui è citazione – in campi analoghi a quelli rilevati.

Illusione (o menzogna o sogno o visione o come si vuole), morbo, fenomeno elitario: dove arriviamo? Arriviamo a una malattia poco comune che ha molto a che fare con l’illusione.

Marx e Freud dicevano (mutatis mutandis) che l’automatizzazione (leggi: reiterazione, compulsività) aliena e uccide (alienazione e thanatos, questi i principi che approfondirono in tal senso). Dunque, questa malattia rara d’illusione vestita, è mortifera e alienante.

La risposta diventa improvvisamente chiara, addirittura lampante: la letteratura è citazione della follia.

L’arte della follia. Il rapporto fra follia e creazione artistica ha creato da sempre curiosità e interesse. Perfino la follia di Nietzsche, quindi non un artista nel senso “tradizionale” o “comune” del termine (è meglio sorvolare sulle sue liriche pubblicate postume in uno stile decisamente brutto e accademico), ha stimolato non poco la fantasia degli studiosi, impegnati a capire se sia stata la follia a influenzare la sua filosofia o se la sua filosofia abbia determinato la follia (in questa sede preferisco trascurare il cinico dato della febbre sifilitica).

Quella di Nietzsche è un caso decisamente poco comune: prescindendo dalle modifiche apportate dalla sorella filonazista Elisabeth, la sua opera si caratterizza per la complessità con cui si snoda attraverso tematiche e registri stilistici assai differenti. Dall’organico saggio letterario-filosofico La nascita della tragedia all’apologo filosofico-favolistico espresso quasi unicamente per aforismi del Così parlò Zarathustra, al libro quasi propriamente filosofico di Considerazioni inattuali o Umano, troppo umano.

Ben consapevole del rischio che si corre di sollevare diatribe già ricorse nel mondo della filosofia e della letteratura, sono tentato di sottolineare la raffinata letterarietà dell’opera del filosofo. Pare quasi che Nietzsche abbia compreso l’importanza d’un linguaggio capace di coinvolgere ed esprimere, lontano dai peripli linguistici d’un Kant o d’uno Hegel (non a caso i testi di quest’ultimo furono definiti da Schopenauer «il più inutile, insulso sproloquio di cui si sia mai accontentato una testa di segatura» espressa nel «linguaggio più orribile e anche assurdo, che ricorda il delirio dei folli»). Sembrava aver colto il problema stesso del dire, così come lo colse in seguito Heidegger, che probabilmente ne aveva abbastanza di dover lavorare con un linguaggio che lo costringeva a scrivere frasi come «Nello stato emotivo l’Esserci è già sempre emotivamente aperto come quell’ente a cui esso è rimesso nel suo essere in quanto essere che esso, esistendo, ha da essere».

Lo stile nietzschiano è sobrio, ma ricco; asciutto, ma evocativo; abbordabile, ma elegante. Si tratta d’una vera e propria opera di divulgazione, fatta sia per filosofi che per letterati che per uomini comuni.

Quindi anche per Nietzsche si può innescare una delle suddette diatribe su filosofia e letteratura. Diatribe del tipo: Leopardi, Esopo, Dante Alighieri, De Sade, Borges, Machiavelli, Henry Miller, Orazio, Jean de La Fontaine, S. Francesco sono più scrittori o più filosofi? Confucio, Rousseau, Platone, Sartre, S. Agostino, Pascal, Giordano Bruno, Erasmo da Rotterdam, Kierkegaard, Voltaire sono più filosofi o più scrittori? Per non parlare di casi affini a quelli di La Rochefoucauld, Buddha, Hölderlin, Novalis o lo stesso Nietzsche.

Ma non è questo l’argomento di cui stiamo parlando, perciò ritorniamo al discorso interrotto poco fa.

Un altro dei molti punti in comune fra follia e arte è Van Gogh. Impressionista ante litteram, colpito dalla nausée du vivre prima di molti altri, fragile e forte, visionario e depresso. In lui c’è la sintesi di molti motivi esistenziali e anarchici, superomistici e decadenti, artistici e volgari: un Machiavelli della pittura, azzarderemmo.

All’orecchio di Van Gogh si possono dare mille significati (oltre quelli ufficiali): rifiuto, depressione, ribellione, autolesionismo pseudo-religioso e ancora ricerca di sé, effetti della vita, edonismo masochista, etc…

Come mille significati si possono dare allo stile e alle opere di De Sade, alla sua psicologia, alla sua dialettica, alla sua follia, agli intermezzi filosofici in Justine o in Filosofia del boudoir o nei Dialoghi filosofici.

E ancora il succitato Hölderlin, morto folle dopo essere stato un precoce filosofo e un precocissimo poeta. Quasi identico a Lucrezio, che addirittura, come riporta l’arguto padre della chiesa S. Gerolamo, scriveva per intervalla insaniae.

Tirare le somme di quest’argomento è quasi impossibile (non dico del tutto impossibile solo perché sono convinto che nulla sia impossibile), oltre che per scarsità di studi in merito, perché si cadrebbe sicuramente nell’opinione soggettiva.

L’unico modo per capire se la follia sia elemento integrante della produzione artistica o se piuttosto la produzione artistica conduca alla follia sarebbe diventare pazzi o artisti (che, in fin dei conti, sono praticamente la stessa cosa: o, meglio, sia i folli che gli artisti godono della “lateralità”).

Oppure si potrebbe provare a sostenere la seguente ipotesi: l’artista è un pazzo e viceversa.

Cosa fa l’artista nelle sue opere? Coglie il circostante, lo destruttura… lo smembra, lo rielabora pezzo per pezzo e lo ricostruisce in una propria maniera originale. Il processo patologico della follia è il medesimo. Il pazzo destruttura e ricostruisce la realtà a proprio uso e consumo.

La creazione dell’opera d’arte, insomma, si serve dello stesso processo di derealizzazione del mondo che nel folle è spontaneo. L’artista si serve della sua sensibilità e della sua cultura per ricostruire la realtà, la ricostruisce – per così dire – “umanisticamente”. Mentre il folle opera tale processo servendosi d’una logica; della sua logica, che ricostruisce tutto in termini fondamentalmente incomprensibili per gli altri esseri umani. Ma logicamente! Potremmo arrivare a dire che, mentre l’artista “pecca” di soggettività, il folle conserva una certa logicità all’interno della sua follia. È vittima della propria logica, mentre l’artista lo è della propria sensibilità.

E seppure fosse illogico, il folle, sarebbe comunque antiumanistico.

De Sade, all’incrocio fra arte e follia, dava dei significati propri a concetti comunemente accettati dalla società a lui contemporanea. Così come un secolo dopo avrebbe fatto Nietzsche con la filosofia, Van Gogh con la pittura e come aveva fatto Lucrezio con la poesia.

Tutti loro avevano trasposto la destrutturazione del reale nell’arte, con risultati davvero eccezionali. Altri intellettuali e artisti, pur bravissimi e preparatissimi, non sono stati in grado di raggiungere i risultati di uno dei personaggi succitati.

E perché questo? Perché non erano “pazzi”.

 

Antonio Romano