‘A STRAGGE D’A’MARANELLA

‘A STRAGGE D’A’MARANELLA

    – Buongiorno.

    – Prego!

    – Marlboro light e una ricarica Vodafone da 50.

    – Marlboro light le ho finite signorina, e la ricarica ce l’ho solo da 20.

    – Allora mi dia Camel light e due ricariche da 20.

    – Ho le Camel gialle e solo una ricarica da 20.

    – E le Pall Mall blu ci sono?

    – Solo da dieci.

    – Mi dia due pacchetti.

    – E la ricarica?

    – Me ne dia soltanto una da 20.

    – Ho anche quelle da 10.

    – Allora una da 20 e tre da 10, ne ha?

    – Soltanto due.

    – Va bene, mi dia solo quella da 20. Quant’è?

    – Con le sigarette, 23e70.

    – Ecco.

    – Non ne ha spicci?

    – Come scusi?

    – Non ho il resto.

    – Ho soltanto 100 euro, mi dispiace.

    – Aspetti che mando il ragazzo a cambiare, Mario vieni!

    – (…)

    – Mario? Mario? Ah Marioo!!

    – (…)

    – Scusi ma ho molta fretta non fa niente, devo andare.

    – Signorina aspetti ‘n attimo! Mario viè un po’ qua, vai a’ cambià i soldi de sta signorina da Oreste! Ah Mario ma che stai a’ fa’? Mariooo!!!

    – Grazie lo stesso, arrivederci.

    – Eccolo qua signorina, ah disgraziato ma che n’ce senti?

    – Aho ma che voi? stavo ‘n bagno!

    – Non posso più aspettare, devo andare, buon giorno.

    – Ma signorina è ‘n attimo!

    – Grazie lo stesso. Buongiorno.

    – Scusi tanto, arrivederci.

    – Ammazza che bionda!

    – Ah disgraziato, lo sai chi è quella?

    – Me sembra tanto ‘na battona!

    – Mortacci tua Mario! Nun scherzà, ‘o sai chi è?

    – Te dico de no, nun l’ho mai vista!

    – E te credo! S’è appena trasferita coi fiji e er marito. O sai chi è er marito, Mario?

    – Chi è, er sindaco?

    – Si, er papa! Ma che stai a’ di’? possibile che nun sai gnente? Oreste n’t’ha detto gnente?

    – Ma che me doveva dì? Se po’ sapè chi è sta bionda o stamo a fà i pacchi?

    – Che stamo a’ fa?

    – I pacchi, i ‘ndovinelli! Me dici chi è?

    – È a’ moje de uno, uno famoso.

    – Aridaje! A moje de Totti?

    – Si, de Bruno Conti!

    – È un calciatore?

    – Macché calciatore!

    – Uno d’a’ tv?

    – Manco ppegnente!

    – Un regista? ‘No scrittore? Un finanziere?

    – None, none none! Nun ce stai proprio!

    – Un politico?

    – Quasi.

    – Er sindaco?

    – Ah Mario ma n’ce senti? O me stai a cojonà?

    – Ah, io te starebbi a cojonà? A’ Cristià? Io? ma poi che me frega a me de sta stronza e del marito sua! Se n’è pure ita!

    – Ah Mario, co sta gente nun se scherza, stai ‘n campana! Statte attento!

    – Ma chi, co quella? Ma se n’c’avrà manco 20 anni?

    – E infatti che te sto’ a dì? Ar marito devi da sta attento!

    – Ma se po’ sapè chi cazzo è sto marito de sto cazzo? Eh? Chi è?

    – T’ho dico?

    – Ah Cristià e daje un po’!

    – Quant’anni c’hai Mario?

    – Si, tu sorella quant’anni c’ho!

    – Quant’anni c’avevi nell’80?

    – Lo dicevo io che stamo a’ fa i pacchi!

    – Dajè ma’, quant’anni c’avevi? ‘Na decina?

    – De meno. Famo cinque.

    – Se te dico Bologna e te dico due agosto e poi te dico

    – A Cristià e strigne un po’! Tu ‘na cosa me devi da dì!

    – A’ stragge de Bologna, Mario.

    – ‘Mbè?

    – Come ‘mbè?

    – Che vor dì?

    – Che vor dì? Er marito de quella c’entra ca’ stragge de Bologna!

    – Si, ‘n par de cazzi!

    – Eh, ‘n par de cazzi si!

    – Ma che stai a’ di! A’ cazzaro!

    – Cazzaro a me? A’ regazzì, n’te permette!

    – A stragge de Bologna, a’ Cristià? Ma che stai a’ dì?

    – A’ verità Mario, è a’ verità!

    – E chi tt’ha detto?

    – A parte che l’ho visto e se riconosce

    – Chi tt’ha detto, Oreste?

    – Che c’entra Oreste?

    – Tt’ha detto oreste?

    – Si vabbè ma che vor dì?

    – Ecco appunto capirai, Oreste! A stragge de sto cazzo, Cristià!

    – Mario sei proprio ‘n regazzino, comunque io t’ho avvisato, vedi che vuoi fa!

    – Me devo da sta attento Cristià’?

    – Te devi da sta attento si!

    – Sinnò poi arimette n’antra bomba vè? A Torpignattara Cristià? A’ stragge d’a’ Marannella, o magari a’ Policastro, a’ scola!

    – Scherza scherza, ma poi nun te lamentà! Co sta ggente nze sa mai, nun zo mica cambiati! Se so’ ripuliti ma so’ sempr’i’stessi! Ma che ne voi sapè tu, che ne sapete voi ggiovani d’e’ bombe e de sti zozzi che ‘e metteveno! Sai quanti ne pistavamo io e Oreste alla tua età? Erano artri tempi, e sai che te dico? Che se stava mejo allora, artro che!

    – Bella Cristià, se vedemo!

Pierluca D’Antuono, 16 marzo 2010

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Il cagnolino rise

Il cagnolino rise *

Le ore in quell’ufficio impolverato (la polacca non fa mai un buon lavoro la mattina delle pulizie) si erano consumate più lente del solito e scampare allo stillicidio assassino mi era parso ancora più gravoso oggi. Alle sedici e trenta varcai la soglia, come ogni venerdì. La città si srotolò generosa sotto i miei piedi. Con passi avidi e irriconoscenti la calpestai per quindici minuti, senza mai alzare lo sguardo. Dopo trent’anni a Roma, il Colosseo fa l’effetto di una latrina, un gigantesco cesso annerito dall’usura, visto dall’alto naturalmente. Finalmente a casa. Sono le cinque, l’inverno ha già ottenebrato quella che era cominciata come una giornata di sole. Immaginare questa scatola compressa come una casa è un’opera di alta e furiosa alienazione: d’altronde sono un genio della finzione.

Faccio la mia doccia, quella che uso per eliminare le scorie della vita ingiacchettata. L’acqua fredda mi avvizzisce l’affare e il cuore si riempie di pena per quel pezzo d’anatomia su cui da almeno vent’anni non riesco ad esercitare alcuna autorità.

Avvicino la faccia allo specchio, nessuna traccia di maschio. Leonardo passa il turno a Leonida, unica regina del venerdì sera capitolino. Sul letto l’abito rosso m’aspetta. Mezz’ora di trucco e il gioco è fatto. Niente Carrà, stasera sarò originale.

Fottuti froci-padri di famiglia, solo loro mi desiderano e solo loro maledico. Pensare di lasciarmi scopare da uno che di giorno fa il marito mi eccita. A piacermi, in realtà, è l’idea che lui sia un padre. L’attrazione irrazionale verso mio padre non l’ ho cancellata nemmeno con l’analisi. E non è la storia del poveraccio che si ammala di omosessualità perché figlio di un uomo assente e violento. Mio padre c’era, mi amava e accettava la virulenza della mia parte femminile, chiamiamola così. Il sessantottardo era un tipo avveduto per l’epoca e io un uomo nato omosessuale, innamorato del proprio padre e per questo destinato a restare solo, almeno affettivamente.

La vita reale mi annoia, mi nutro di finzione e le metamorfosi del venerdì mi saziano. Il mio travestimento è arte. Riempite le tette, mi passo le mani sui fianchi, ciondolando le anche ossute e lo specchio risponde austero con un’immagine tutt’altro che deludente. Leonida stasera è proprio una fica, mi sussurro tutta sussiegosa. L’amore non mi interessa. L’amore non lo conosco e, come tutte le cose fuori controllo e cognizione, lo temo. Dunque lo rifuggo, quando sento il suo odore di zucchero, cambio immediatamente direzione. Gli uomini mi desiderano e mi basta, per sopravvivere, intendiamoci. Io non sono felice. Leonardo non è felice. Leonida non è felice. Entrambi portano a casa la pelle, cedendosi il passo di tanto in tanto. Quella volta al Blood, dieci anni fa, me la ricordo come se fosse ieri. Avevo da poco cominciato a fare marchette: la vita per una che non voleva scendere a compromessi con la normalità affettata e imposta a volte va guadagnata così. Che cazzo volete saperne voi nati maschi in corpi di maschi. Al Blood quella sera d’estate conobbi Luca, un ragazzo confuso e angosciato dalle pulsioni opposte che il suo corpo e la sua mente manifestavano. Faceva il duro, il maschio che aveva accompagnato una sua amica lesbica a rimorchiare. Dieci anni fa ero di una bellezza conturbante. Sempre stato glabro, parevo un angelo, la decifrazione del mio sesso era complicata. Parevo una donna, profumavo di donna, ma le mani erano di uomo, le spalle sapevano di forza. E Luca rimase folgorato. La lesbica si accorse subito di tutto, certe cose le sentiamo in anticipo tra di noi. Al terzo drink Luca era tra le mie braccia, fingendo di non sapere del Leonardo che nascondevo tra le chiappe. Mi accertai che la dark room fosse vuota e nera. Lo presi per mano e lo invitai ad entrare, rassicurante e puttana. Volevo lasciarmi scopare. Gli presi le mani e gliele infilai nelle mie mutandine di pizzo. All’epoca ero ancora nuova dell’arte. All’epoca pensavo ancora che l’amore non avesse regole, generi, verità. All’epoca credevo ancora di essere normale. Di fronte a noi c’era una peritosa riproduzione della Marilyn di Warhol che ci fissava. A destra, in un angolo illuminato di rosso, c’era una statua, un bulldog inglese di ceramica, un fottutissimo cane bianco, grottesco e pacchiano. Ricordo il momento in cui Luca mi sfilò l’uccello: aveva la faccia di chi non credeva ai propri occhi. Io esplosi in una risata grassa e indecorosa, per mascherare paura e vergogna. Anche il cagnolino rise, quel fottuto animale di ceramica si mosse, almeno così mi sembrò. Ero talmente frastornata che immaginavo anche dio ridere di me. Luca mi pestò a sangue, ma questa è un’altra delle tante storie violente che potrei raccontare. Comunque, è da quel giorno che l’amore ha smesso indiscutibilmente di interessarmi. E’ da quel giorno che ho rinforzato la convinzione che quella madre algida e lontana m’aveva conficcato nel petto: uno come me non merita amore. Il sesso m’interessa, essere attraversata dall’incontenibile brama maschile mi lascia al mondo. E mi basta. La parrucca, le tette posticce e smisurate, sono il mio escamotage, la mia finzione di vita. E questa farsa mi serve per sopravvivere degnamente. I giudizi e i rancori non li temo. Leonardo di giorno, Leonida di notte. Quando il sipario si chiude sono un essere umano addolorato e solitario. Le mie lacrime le asciugherò con le lenzuola, quando la mia stanza vuota mi accoglierà di ritorno dall’ennesima festa in cui vi ho fatto divertire.

D’altronde io sono un genio della finzione.

Maura Chiulli

* Racconto pubblicato nell’antologia E il cagnolino rise (Tespi, 2009)