La società dello spettacaaargh! -17

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Ciao Matteo,

nel tuo ultimo intervento ti soffermi sul ruolo dei mostri nell’espulsione dell’osceno. Mi è venuto spontaneo domandarmi quale fosse il ruolo delle vittime. È una questione sulla quale sto meditando da un po’ di tempo, andando più che altro a intuito: la chiamo la questione delle tecnomistiche, e riguarda la trasformazione delle vittime in simulacri sentimentali.
Chiamo tecnomistica quel fenomeno che si verifica a seguito della mediatizzazione dell’identità – l’immagine, il nome proprio – di una vittima di un incidente o di un’ingiustizia, quando questa identità è posta letteralmente alla portata di chiunque; spesso accade qui che questa identità sia trasformata in un simulacro di dolore collettivo. Leggi il resto dell’articolo

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Elogio dell’ignoranza

L’uomo non somiglia alla scimmia solo perché ha in comune con lei il corredo genetico o, come vorrebbe Jorge de Burgos, il riso. L’uomo ha in comune con la scimmia, essenzialmente, la curiosità. Il lato distintivo dell’intelligenza è la curiosità, è risaputo, lo dice anche Aristotele nella Metafisica («Tutti gli uomini, per natura, desiderano sapere») che il genere umano tende sempre a sapere o a cercare di sapere. Dello stesso parere sembrava Martin Heidegger quando diceva «Non possiamo non chiedere perché». Ed è proprio questa la parolina magica: “Perché?”. Tutto parte sempre da qui: “Perché?”. Ma supponiamo, per amor d’ipotesi, che l’uomo fosse onnisciente. La spinta al conoscere non ci sarebbe. Di conseguenza non ci sarebbe neanche la curiosità. E se non ci fosse la curiosità, il carburante per il meccanismo dialettico intellettivo, inevitabilmente, andrebbe in malora.

Come gli immortali che Borges descrive ne l’Aleph si sono disamorati della vita, così le ipotetiche creature onniscienti sarebbero poco più che dei dogmatici col cattivo vizio dell’aver ragione. «Solo l’individuo libero può meditare e creare, in questo modo, nuovi valori, sociali», disse Einstein, ma se è onnisciente non ha libertà perché le sue stesse conoscenze lo limiterebbero come se fosse (questo voleva precisamente dire Einstein) in una dittatura. Non creerebbe valori sociali perché in una società di onniscienti non c’è nulla da creare o da dire che non sia già stato concepito. L’onniscienza porterebbe all’inazione e all’ignoranza dialettica. Se tutti sappiamo tutto, che bisogno c’è di parlare e interagire? So già che vuole il mio prossimo da me, so già che lui sa tutto e so che lui sa che io so tutto. «L’uomo è il principio delle azioni» (Aristotele) solo se ha bisogno di tali azioni. E un non-onnisciente messo con un onnisciente? Certo che ci sarebbe dialogo: ma sempre e solo per la curiosità del non-onnisciente. Se sbaglio e vengo in possesso della verità, imparo. Se non sbaglio e so già tutto, non imparo e vegeto. «Una cosa è dimostrare che un uomo ha torto, una cosa è metterlo in possesso della verità», teorizzò Locke nel Saggio sull’intelletto umano, ma ovviamente lui si riferiva a persone normali, cioè non in possesso della verità. Gli onniscienti sono già in possesso della verità, la loro vita è grigia e senza sorprese, già scandita e definita. In loro è radicata la gnoseologia della capra cotta, che ben si sa dove può andare. Da nessuna parte!

«La verità dovrebbe essere il respiro della nostra vita», disse Gandhi, ma un respiro non deve arrivare a soffocarci. In un mondo di onniscienti Machiavelli non sarebbe mai esistito, non avrebbe mai scritto «Colui che inganna troverà sempre chi si fa ingannare» ne Il principe: chi devi ingannare fra onniscienti? L’onniscienza, portando all’immobilità intellettuale, porta anche al pragmatismo più sfrenato: da qua il possibile, da là l’impossibile, da là l’opportuno, da lì il nocivo. Questo vuol anche dire fine delle aspirazioni: «Un’aspirazione chiusa nel giro di una rappresentazione; ecco l’arte» (Benedetto Croce, Breviario di estetica). Fine dell’arte. Come sempre parlava bene Einstein a un’umanità di non-onniscienti: «Ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto» (nel suo Come vedo io il mondo). Quanto c’è d’umano in un onnisciente?

In La democrazia in America il Tocqueville dice che «I popoli democratici provano per la libertà un gusto naturale». Questo lo pensava lui, ma in un mondo di onniscienti la libertà e la democrazia sono un optional: che me ne faccio di un ordinamento se io stesso conosco l’ordinamento dell’universo? E anche l’amore ci andrebbe di mezzo: fine della conquista (so già chi, come, dove, quando, perché conquistare), fine della passione (so tutto dell’altro, non ho il gusto della scoperta e della quotidianità e dell’intimità romantica), fine del «Quel che si fa per amore è al di là del bene e del male» (Forza Nietzsche!). Boezio, nella Consolatio, dice che «ogni condizione è felice quando sia accettata, con sereno equilibri»”: questo è proprio l’atteggiamento dell’onnisciente. Sereno equilibrio. E poi si finisce come Boezio: a pelar patate su una roccia aguzza mentre castori demoniaci ti mordono le chiappe. Addio Newton che con gli occhioni sognanti ti domandi: «Da dove provengono l’ordine e la bellezza che vediamo nel mondo?» (argomento poi distrutto da Richard Dawkins in L’illusione di Dio). In un mondo d’onniscienti lo prenderebbero a calci nel sedere e gli darebbero dell’imbecille. A Newton. Come consolazione potrebbe rimanere la bellezza che, come diceva Nietzsche, ha la voce sommessa per essere compresa sola dalle anime più deste. Ma il filosofo parlava di anime deste, un onnisciente – lo abbiamo visto prima – è ormai dormiente e anestetizzato. Insensibile, forse anche alla bellezza.

E allora, tirando le somme, si direbbe che a essere onniscienti, non solo si perde il gusto delle cose, ma anche quello della vita stessa. Non esiste un mondo di onniscienti perché «La totale privazione del bene, dunque, significa inesistenza. E, viceversa, l’esistenza suppone il bene» (Sant’Agostino lo dice nelle Confessioni) e «L’uomo seleziona a proprio beneficio, la natura a beneficio di ciò che accudisce» (Darwin lo dice ne L’origine della specie).

 

Antonio Romano

13 storie inospitali

13 storie inospitali (Lavieri, 2010)

di Hans Henny Jahnn

L ‘ultima volta che ho avuto tra le mani un libro della collana Arno di Lavieri, si trattava dell’ottimo Tecniche di basso livello di Gherardo Bortolotti, dunque mi sono avvicinato a 13 storie inospitali di Hans Henny Jahnn già carico di aspettative positive. Nonostante tali premesse, sono rimasto sbalordito. Sbalordito fin dal primo racconto, Ragna e Nils, uno dei più vecchi – vale la pena ricordare come 13 storie inospitali sia composto da sei racconti tratti da Perrudja, del 1929, e sette tratti da Fluss ohne Ufer, trilogia i cui volumi uscirono rispettivamente nel 1949, nel 1950 e nel 1961 – nel quale da subito si impone agli occhi del lettore una prosa scarna, di brevi e perentori periodi, fortemente connotata nella direzione della fiaba o della leggenda, e a tratti addirittura illogica, almeno nel senso di un completo rifiuto dei rapporti causa-effetto di marca psicanalitica. Il secondo racconto, La storia dello schiavo, ha confermato il mio sbigottimento: avevo difficoltà a collocare l’autore, tanto all’interno della letteratura tedesca che di quella mondiale; alcuni elementi mi ricordavano i racconti fantastici di Hoffmann; altri potevano ricordare Döblin, ma l’armonia, quella era affatto diversa; altri ancora mi portavano altrove, in territori propri del mito. Mito norreno, a prima vista, ma in seconda lettura anche – e forse più – ellenico e orientale. Ho pensato che avrebbe potuto essere così uno scrittore appartenente al “canone” di un’altra umanità. Di un mondo parallelo. Sul momento ho creduto che questa sensazione si originasse semplicemente dalla mia relativa ignoranza in letteratura tedesca, ma è bastato fare qualche superficiale ricerca per scoprire che era condivisa dai più eminenti studiosi che si fossero avvicinati all’opera di Jahnn, un fiume segreto, che scorre sotterraneo accanto a quello sul quale naviga e dal quale si abbevera normalmente chi legge e chi scrive. Mi è venuto in aiuto Jahnn stesso col terzo racconto, L’orologiaio, che insieme all’ottavo, Kebad Kenya, è quello che più ha il sapore di un manifesto – o di una maschera funebre, come viene suggerito da Domenico Pinto nel risvolto di copertina. Ma non rovinerò al lettore il piacere di leggerli, e scorgervi in controluce gli intenti, l’approccio dell’autore. Se mai poi è importante: ad essere importante è, credo, il fatto che Jahnn entri a gamba tesa sui cosiddetti “grandi temi” – la morte innanzitutto, e poi l’eros, la possibilità della metafisica, l’estetica, il tempo, il doppio, la modernità… (potrei continuare) – e lo fa a modo suo, in un modo, forse, che ci sarebbe oggi chiaro (e caro) se certi germi intellettuali e sensuali, fioriti nello spaziotempo di Weimar, non fossero stati spazzati via dall’avvento del nazismo. Spazzati via assieme ai loro “genitori”, a parte uno: quel Jahnn che anche dopo la guerra, misconosciuto, ha continuato sulla sua linea, una linea idiosincratica, panerotica, a tratti spietata (quasi imbarazza la durezza dello scrittore nei confronti del suo protagonista, in Cavalli rubati o ne Il tuffatore), aspramente critica nei confronti della civiltà occidentale, e tuttavia del tutto priva di una risposta, di una qualsiasi alternativa, se non una straziante, costante nostalgia dei sensi.
Il titolo originale dell’opera è 13 nicht geheure Geschichten: il termine “nicht geheure” era utilizzato da Heidegger nel senso di “non familiare”, e in effetti non è familiare (per me, ma sono pronto a scommettere che non lo sarà per nessun altro lettore), il mondo di Jahnn, e proprio per questa unicità, oltre che per la sua lampante bellezza, vale la pena scoprirlo. Ai lettori non posso dunque che consigliare la lettura di questa mirabile raccolta, arricchita da una postfazione di Andrea Raos e da un saggio di Ferruccio Masini; agli editori, il recupero e la traduzione di Fluss ohne Ufer, un “Fiume senza rive” in cui sono ormai certo che sarà dolce immergersi e forse anche morire, lasciandosi poi trasportare dalla corrente come i molti “morti per acqua” che popolano la presente raccolta.

Vanni Santoni