Fútbologia

Riproponiamo qui, in attesa di Fútbologia, l’indice dello speciale che Scrittori precari curò per i Mondiali del 2010.
Fútbologia è un festival di 3 giorni che si terrà a ottobre a Bologna, con conferenze, reading e incontri. In mezzo proiezioni di film e documentari, torneo di calcio a cinque, bar sport, workshop di costruzione della palla per bambini. E tanto altro ancora.
Fútbologia
è un modo per ripensare il calcio. E tanto altro ancora. Leggi il resto dell’articolo

Pubblicità

Fine pena mai: intervista agli sceneggiatori

Quella che segue è un’intervista seguita a una chiacchierata che ha fatto da preambolo alla proiezione del film Fine pena mai (2008), avvenuta tempo fa al Margot di Roma.

 

Simone Ghelli: Perché la scelta di un libro autobiografico come Vista d’interni  (2003) di Antonio Perrone?

Massimiliano Di Mino: Credo di non ricordarlo con precisione. Con molta probabilità eravamo alla ricerca di una storia estrema e drammatica, di una catabasi senza ritorno. Per dirla romanticamente è il libro che ha trovato noi. La storia che ci è cascata sotto gli occhi era forte e per di più vera, e la scrittura sentita, ma spesso ingenua, ci consentiva di muoverci con grande libertà, lasciandoci lo spazio di raccontare quello che volevamo; in altre parole, la cacciata da un paradiso, la persecuzione di Prometeo.

Pier Paolo Di Mino: Sia nel lavoro cinematografico che in quello narrativo (come in Fiume di tenebra), o in maniera ancora più evidente quando abbiamo ricostruito, diciamo secondo le indicazioni di Plutarco, le biografie di Pertini o di Garibaldi (i vari libretti rossi) abbiamo lavorato su una materia desunta dalla realtà. Indubbiamente la prima necessità sentita è quella di rivelare la natura fantastica e intrinsecamente metaforica del reale, di scappare dalla fantasia del realismo e da quella affine del fantastico. La realtà è un’apparizione, una rivelazione. E in maniera particolare i fatti biografici di personaggi che hanno assunto in maniera tragica il destino umano, come il nostro criminale nato, Tonio, sono una rivelazione sul destino, sulle pulsioni, sulle distorsioni e glorie di ognuno di noi. Quando abbiamo incontrato questo libro (abbastanza casualmente:uno dei registi è salentino, come Tonio e come la casa editrice che ha pubblicato la sua autobiografia) siamo rimasti colpiti dalla possibilità di attingere a un materiale poco filtrato dalla letteratura. Il libro si presentava come il reportage di un’anima. Leggi il resto dell’articolo

Il libretto rosso di Pertini

Sandro Pertini è stato, ed è, il Presidente più amato dagli italiani. Rappresenta quella figura etica di uomo incorruttibile e di indefesso combattente per la libertà di cui oggi più che mai si sente il bisogno. Il libretto rosso di Pertini è un saggio fra letteratura e storia, che raccoglie gli scritti e i proclami politici del grande Presidente di tutti gli italiani e ne ricostruisce l’entusiasmante biografia, dalle sue imprese durante la Prima Guerra Mondiale alla Guerra di Resistenza durante la Seconda, passando per l’esilio e il carcere, fino ad arrivare alla Presidenza della Repubblica. I Di Mino, autori del romanzo Fiume di tenebra, sull’epopea dannunziana a Fiume, e de Il libretto rosso di Garibaldi, completano così un percorso ideale alla riscoperta dell’epica nazionale, ridisegnando la figura di Sandro Pertini, in una chiave moderna e originale, come mito ancora attivo. Leggi il resto dell’articolo

Il piccolo Michaux #3 – Editoriale

Il viaggio così come è andato veramente, almeno secondo Pier Paolo Di Mino.

Del resto non andare al Salone di Torino, con lo struscio in mezzo ai banchi, il chiacchiericcio da bar sport in salsa aulica, la festa di Minimum Fax, e tutte quelle strette di mano fra bella gente, è come non vedere il Festival di Sanremo: astrarsi dai piaceri delle vecchie casalinghe a cui non sono più rimasti nemmeno i rammarichi è un tirarsi fuori dalla mischia comunque pericoloso. E poi la bellezza non è mai gratuita, e, anzi, va estratta con fatica, magari trovandola nell’insolito. Leggi il resto dell’articolo

Intervista a Giuseppe Garibaldi

È arrivato in libreria il secondo lavoro di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino “Il libretto rosso di Garibaldi” (Purple Press), un vero e proprio compendio che racchiude quanto si volesse sapere sull’eroe italiano attraverso lettere, proclami e scritti di varia natura.

Per parlarne e approfondire abbiamo puntato molto in alto, scomodando lo stesso Giuseppe, che abbiamo scoperto essere il vero artefice della nascita del libro.

Quanto segue è la pura verità.

 

È vero che lei ha imposto ai Di Mino di scrivere un libro che la riguardasse?

La vostra è una generazione delicata, vegetariana: chiamate “imposizione” ciò che è semplicemente un consiglio dato con forza. Nella vita ho imparato a fare le cose alla spicciolata, con veemenza e senza pensare troppo. Mai ritrovarsi a dire che «pensando, consumai la ‘mpresa che fu nel cominciar cotanto tosta». Sono versi di Dante, il secondo italiano più importa della storia dopo di me. L’importante è fare. Per esempio, l’Italia: non è come la sognai, ma la rivoluzione è come l’amore, e in amore è meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati.

Perché lo ha fatto?

Perché in fondo la vita di un uomo si riduce al racconto che se ne può fare. E penso che farei peccato più grave fingendo modestia se non reputassi la mia vita un racconto che vale proprio la pena di essere fatto. Io stesso vi provai, cimentandomi con calamo e carta. E molti sono quelli che hanno usato la loro arte per proseguire la mia leggenda. Ma oggi, in questa Italia immiserita, vituperio delle genti (è sempre il secondo italiano più importante che lo dice) vedo riaffacciarsi una nuova pubblicistica che mi dipinge come un ladro (io che non ho mai accettato un soldo da nessuno e ho sempre vissuto poveramente!). Qualcuno mi ha accusato di essere un negriero (io che ho liberato schiavi lungo tutte le coste d’America: Aguyar, fratello mio, mi sei testimone!). Mi si accusa di essere la fonte dei mali del nostro bel meridione, e si dimentica che sono stati i soldati piemontesi, e non le mie giubbe rosse, a fare gli eccidi di contadini calabri e campani; non io ho vuotato le casse del ricco regno delle due Sicilie e ridotto quella terra felice a una colonia interna. Dare la colpa di tanti mali alla mia opera di liberazione è cosa vana e folle quale l’accusare un padre dei mali di un figlio per averlo messo al mondo. Non voglio dimenticarmi di parlare di Bronte, che mi grava sul petto: ma dirò solo che la strage terroristica (perché questo fu praticato da quei contadini) non è la stessa cosa di una rivoluzione. Parlare male di me, significa parlare male di una rivoluzione che cercava di realizzare giustizia e libertà. Con questo libro voglio far smettere questo vaneggiamento, perché si torni a parlare di giustizia e libertà.

È vero che lei è un socialista?

Non vedo come potrei essere definito diversamente. Sono stato il primo internazionalista per aver combattuto per tutte le cause progressiste di tutti i paesi del mondo. E l’ho fatto perché gli uomini potessero vivere in un mondo libero, dove il contadino avesse la sua terra e l’operaio il suo diritto al lavoro e alla vita la più dignitosa possibile: dove non vi fosse posto per il tiranno, l’ingiustizia, la violenza. Il mio è il socialismo delle persone, e non una teoria su un libro di filosofia. Il mio socialismo è vivo non in teoremi astratti, ma nella certezza che la marea socialista finirà per sommergere l’impreparata nave dello Stato.

È vero che lei non aveva rispetto per le donne?

Se amare una donna è non rispettarla, allora mi assumo la colpa.

È vero che lei è stato in Messico?

Mi manca. Un mio nipote, in effetti, ha combattuto lì, ma preferisco non parlare di lui.

Sono vere le cose che si dicono sul suo coraggio?

Vere. E anche se non le fossero, sarebbe dovere e responsabilità ineludibili di un uomo e di un rivoluzionario vantarle. La cosa più brutta che può accadere ad un uomo, e ad una nazione, è di perdere il coraggio; anche solo quello di sperare in una vita migliore.

Come ci si sente ad essere l’Eroe dei Due Mondi? Donne ovunque eh!?

Non è tutto rose e fiori. Per esempio, ricordo in Inghilterra tutta quella gente che mi acclamava, e mi dava segni di affetto, ma poi non volevano farmi fumare il sigaro dentro quelle stanze tutte tappezzate fino a far perdere i sensi a un povero uomo. Per non parlare dell’avermi costretto a coricarmi in orari proibitivi, tipo anche le dieci di sera. E poi le donne, contesse e affini, con quelle astruse complicazioni come l’andare a letto senza stivali. Se vogliamo parlare di vera felicità, parliamo di Caprera e della mia Armosino: una donna vera, con due mani così!

Cosa troveremo in questo libro?

Quei discorsi e quei proclami che rappresentano il mio pensiero vivo: il mio costante invito a tutte le generazioni umane a combattere per il diritto contro l’ingiustizia. Ricordate: lo schiavo solo ha diritto di far la guerra al tiranno!

Cosa non troveremo?

I Di Mino non solo hanno raccolto un ragionato catalogo di miei scritti, hanno anche ridisegnato la mia figura di rivoluzionario e di uomo in una nota introduttiva che è un invito alle generazioni presenti. Io, finita la mia vita mortale, sono ormai un racconto sul quale modellare il proprio impegno umano e, quindi, politico. È un libretto esortativo: quindi non troverete la testimonianza dolente della delusione che nutro nei confronti di questa Italia che pure ho espresso con tanta forza in molti luoghi. È ora di guardare avanti!

Chi le scriveva i discorsi?

Mi pare i Di Mino, no?

È soddisfatto del lavoro svolto dai Di Mino?

Ancora non l’ho letto. Comunque, sì.

Ma lo sa che prima hanno scritto un libro su D’Annunzio? Che ne pensa?

Fiume di tenebra, un romanzo sulla Reggenza del Carnaro, che è l’ultima impresa risorgimentale e, quindi, garibaldina. Ricordo di aver consigliato con forza anche al D’Annunzio di scrivere un libro su di me. Poi, pieno di entusiasmo, il simpatico poeta mi ha addirittura emulato. Nei festeggiamenti di quest’anno, non verrà nemmeno nominato. Tanto gli italiani hanno dimenticato la loro storia, e non sanno più chi sono!

Ci saluti come meglio crede.

Vi saluto, augurando a tutti una nuova Fiume, un nuovo Risorgimento: augurandovi lo splendore di una nuova Repubblica Romana, senza disperare mai, perché ovunque sarete con i vostri ideali di giustizia, libertà e bellezza, là sarà Roma.

 

Intervista a cura di Alex Pietrogiacomi

IL LIBRETTO ROSSO DI GARIBALDI

IL LIBRETTO ROSSO DI GARIBALDI – Discorsi, scritti e proclami dell’uomo che inventò l’Italia sognando una patria socialista (Purple Press, 2011)

a cura di Pier Paolo e Massimiliano Di Mino

 

Riportiamo un breve estratto del nuovo lavoro firmato dai fratelli Di Mino, che a distanza di pochi mesi dall’uscita di Fiume di tenebra escono con un nuovo libro in cui la storia si fonde col mito, che è poi da sempre una delle possibilità che può darsi la scrittura per resistere a una malattia che sembra ormai spopolare nel nostro paese: la perdita della memoria.

Segnaliamo che il libro verrà presentato mercoledì 2 febbraio alle ore 18:30 presso la Casetta Rossa, in via G.B. Magnaghi 14 a Roma (zona Garbatella).


Ci hanno insegnato che non esistono più i miti, o che non è abbiamo più bisogno. In cambio ci danno per articolo di fede che quello di cui abbiamo bisogno, invece, è di produrre e comprare coscienziosamente. Sarebbe più onesto e corretto dire, quindi, che i vecchi miti sono stati soppiantati, con utile operazione teologica, da un nuovo racconto della vita non meno fantasioso di qualsiasi altro racconto. In questa favola bella si immagina la vita come una competizione senza limiti, con leoni e gazzelle che, in barba alla loro reale natura, vivono una vita insonne gli uni cacciando e gli altri fuggendo.

Si capirà, dunque, come siano divenute viete, per non dire pericolose, le vecchie storie che ci avvertivano sugli eccessi egotici degli eroi, con Achille e le sue schiere di ubbidienti mirmidoni pronti al massacro, o con Beowulf che manda a marcire tutto il regno pur di dimostrare il suo valore. Ci dicono che sono robe di scuola piena di polvere.

Non godere più dei benefici di tale avvertimento porta a conseguenze quali sono visibili, oggi, agli occhi di tutti.

La metafisica commerciale contemporanea, poi, deve considerare come vere nemiche quelle storie che ci guidavano nel mondo con coraggio, generosità e astuzia, tipo la storia di Odisseo, il re contadino che torna a casa e, con il porcaio Eumeo, un giovane figlio e una moglie abbandonati, caccia gli usurpatori e pratica giustizia e libertà. Splengler diceva che la civiltà sarà salvata da un plotone di soldati: è vero, ma il plotone è sempre composto dalla gente più strampalata.

Pensate, poi, se un mito ce lo troviamo incarnato, ed è anzi il nostro eroe, un eroe di questo mondo. Anzi di due, ma molto concreti e poco trascendentali: insomma un eroe il cui avvento non va spettato con fede. Pensate se, questo eroe, è l’eroe di cui il mondo sentiva veramente il bisogno (ce lo assicura il comandante Ernesto Che Guevara), e si chiama Giuseppe Garibaldi.

Fiume di Tenebra

È la notte di un giovedì quando, venuto a Roma per un reading di Scrittori precari, mi ritrovo a casa del subcomandante Liguori, in attesa dell’Intercity delle 4:28 che da Roma Tiburtina mi avrebbe riportato a Firenze.

Evidentemente non pago di quanto bevuto durante la serata, il subcomandante sfodera una bottiglia di calvados. Dico che non importa, che sono troppo stanco per bere. Lui versa. Mi faccio un bicchiere, poi un altro. Poi un altro.

Aggrappato al tavolo, cerco di posticipare il torpore, che è ottimo per affrontare l’Intercity delle 4:28 (non c’è mai posto e allora se sei bello stanco ti schianti nel corridoio, la borsa come cuscino, e tanti saluti), ma prima devi arrivarci, al treno.

Sto per desistere e chiudere la serata addormentandomi al tavolo con la testa sulle braccia, come a scuola, quando lui attacca a leggere qualcosa:

Nel settembre del 1919…

Visto il periodo e i gusti del subcomandante, penso che possa essere Rilke, il che non mi smuove. Forse, sballando di nove anni, bofonchio un “li leggerò, i quaderni, lo giuro…”, ma lui va avanti:

…arditi, sbandati, artisti di mezza tacca, orge in mezzo alle strade, donne che si davano a chiunque, e gli uomini pure con gli uomini; e la popolazione che veniva nutrita fantasiosamente a cocaina. Ma questo sarebbe ancora un metodo come un altro per vivere, perché il grave era che…

Io alzo gli occhi, troppo sonno e troppo calvados per capire di cosa parli il brano che sta leggendo, ma la buona prosa, insomma, quella uno la riconosce in qualunque condizione. Lui continua:

… aveva ribattezzato la marina militare fiumana con il nome degli antichi pirati dell’Adriatico, gli uscocchi, e l’aveva mandata a derubare le navi degli altri, al grido di eia eia alalà. A Fiume si campava con la pirateria, sebbene si dicesse che,

oltre che sulla provvidenza piratesca, D’Annunzio dovesse fare conto sull’aiuto di qualche banchiere: ma molti troveranno la differenza troppo sottile. E non finisce mica qui, perché si diceva anche che a Fiume erano peggio dei bolscevichi, e che Lenin in persona avesse approvato tutta la questione: Carli e Marinetti, con le bombe a mano nella giacca, a Fiume si presero una bella ubriacatura comunista. Insomma: un puttanaio: un immenso puttanaio.

Mi ritrovo improvvisamente rivitalizzato. E quindi parla di Fiume, questo brano! La storia della Reggenza Italiana del Carnaro l’avevo scoperta già da ragazzino, leggendo “TAZ” di Hakim Bey, e da lì avevo sempre sospettato che questo D’Annunzio qualcosa di buono lo avesse, se nelle sue vene scorreva almeno un po’ d’anarchia, e metteva l’Oroboros sulla bandiera. Mi entusiasmo, gli chiedo di leggermi qualche altra pagina. Lui va avanti, ma ben presto l’orologio sulla parete mi chiama al treno. Raccolgo i miei coccini e chiedo come si chiama quel libro, che lo voglio cercare.

A sentire che è un libro in lavorazione, un libro-italiano-contemporaneo e non un testo ripescato chissà dove, ci rimango secco. Il subcomandante mi promette che appena esce me lo farà avere. Preso il treno, mi addormento nel corridoio lercio

vagheggiando imprese da “disertore in avanti”.

E qualche mese dopo mi arriva davvero, il libro. Bello anche a vedersi, seppiato come uno lo immagina, con la faccetta del Vate in un cammeo. Fiume di Tenebra, si chiama. Di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, Castelvecchi editore 2010.

Leggo di Serra, di Keller, Comisso e Ada, di generali per cui il frustino non è solo una decorazione, di una estate dell’amore (un autunno-inverno, a voler esser precisi) in anticipo di quarantasette anni e di un piccolo D’Annunzio tutto nervi e sogno. Sono piaceri.

Vanni Santoni



Fiume di tenebra – L’ultimo volo di Gabriele D’Annunzio (Castelvecchi, 2010)

di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino

 

[Leggi qui il prologo]

[Leggi qui il capitolo “Aspettando il tenente Keller”]

Aspettando il tenente Keller *

Il capitano Serra, seguendo la luce livida di un corridoio buio e dritto, aveva finito per trovare una stanza, e ci si era rinchiuso dentro.

Un tempo la stanza, ficcata in questo recesso appartato dell’edificio, quando il palazzotto ospitava ancora gli uffici di qualche stabilimento del porto, doveva essere stata il rispettabile pezzo di terra salva, il sacro posto di lavoro di qualche impiegato: certo, a quei tempi non doveva puzzare tanto.

Qualcuno, ora, ci aveva infilato un letto, una sedia con un paio di camicie sudate sopra, e, sotto, stracci.

La stanza aveva anche un tavolo con una candela che doveva servire a illuminare questa miseria dall’odore tanto forte da batterci i pugni sopra: era lo schifoso odore che questi ragazzi portavano addosso, e lasciavano ovunque passassero. Era l’odore di qualcosa che stava morendo senza saperlo.

La porta non aveva chiave. Serra infilò una sedia sotto la maniglia e provò a capire se qualcuno lo avesse seguito.

Sentiva il tossico agire ancora in lui, ma sentiva anche la pressione di un meccanismo autonomo che gli aveva imposto di alzarsi, muovere il corpo e cercare, come un animale ferito, un riparo.

Era ancora stordito e umiliato dal veleno, lo sapeva, e non poteva, non doveva far correre i pensieri troppo velocemente. Non doveva permettere loro di fluire. Doveva sforzarsi di renderli solidi, stabili, immobili.

Nel riparo di quella stanza, doveva fare quello che avrebbe fatto qualsiasi animale: cercare di vincere. Doveva tirare fuori da quella stanza il maleficio di quei ragazzi, il loro odore morboso di ragazzi, di pupazzi stupiti, desiderosi di adorare un idolo, lì distesi a terra come una tribù pronta a qualsiasi sacrificio, con le uniformi lise, sporche. Con i loro costumi da circo. Con le loro facce da circo. Questi uomini erano stati al fronte, avevano combattuto, avevano ucciso, erano sopravvissuti;

e ora non facevano altro che parlare di questo: di questa loro grande guerra, come se fosse la prima ad essere stata combattuta, o l’ultima; e a parlare di quando, presto, prestissimo, sarebbero tornati a combattere, perché per loro la guerra è vita: cuccioli di cane con i loro libri del liceo pieni di stupidaggini sulla vita e la morte.

Si distese sul letto e, qui, all’improvviso, la trafittura di alcune migliaia di morsi: se la stanza fosse stata illuminata avrebbe potuto vedere delle piccole bestie salirgli sul corpo. Oppure avrebbe visto che non c’era nessuna piccola bestia, e che era la pianta che gli prendeva i pensieri e glieli scioglieva in questo liquame. Doveva afferrare questo liquame, e trasformarlo in pietra.

Ma poi bussarono forte alla porta, e i pensieri persero di importanza. E anche l’odore dei soldati. E anche gli animali che lo mordevano.

Bussarono alla porta e il capitano Italo Serra si sentì strappare come da un imbuto, da una vertigine, da una voragine. Cavò una rivoltella dai pantaloni.

«Capitano, capitano», disse una voce da dietro la porta, «mi apra, ci siamo conosciuti poco fa giù al cantiere, ma lei non mi ha voluto ascoltare».

Il capitano Serra ripose l’arma.

«Temo si confonda,soldato, non sono mai stato al cantiere».

«Con rispetto, capitano, ma si confonde lei».

Probabile. Possibile. Tutto era possibile. Serra non poteva fare a meno di prendere in considerazione l’evidenza che tutto era possibile.

«Scusami soldato, ora ricordo, ma stavo riposando. Possiamo riprendere il nostro discorso domani?».

Serra sentì scoppiare una risata e si accorse che il soldato non era solo. Aveva sentito una risata di donna, e anche che il soldato stava tappando la bocca con una mano a questa donna.

«No, capitano, domani non ci sarebbe più niente da dirci. Guardi che non sono venuto da solo», la risata si fece più forte, «sono con un’amica, una bella amica e giù tutti ci dicevamo, il capitano è appena arrivato, e pure lei giù in cantiere…».

«No, soldato. Ora sono stanco, soldato».

«Ma capitano…».

«Ho solo voglia di riposare, ringrazia tutti».

«Ma capitano non vuole neanche aprire la porta per salutare la nostra amica?».

«Vattene!», concluse Serra, e aggiunse, «per favore».

Serra sentì la voce del soldato che faceva una sorta di rantolo in gola, e la donna che lo accompagnava ridere ancora. Li sentì allontanarsi, e scendere in strada calpestando delle scale

di ferro che non gli sembrava di avere mai salito, e allora si alzò dal letto, e si accorse di sentire di nuovo la carne a fargli da spessore tra ossa e pelle.

Andò alla finestra e riconobbe, o gli sembrò di riconoscere, un soldato della Disperata che si allontanava abbracciato a una bionda visibilmente ubriaca o intossicata, che indossava un paio di calzoni da granatiere: difficile dire se era più la donna ed essere sgraziata dalla divisa o la divisa ad essere offesa dalla donna.

I due cantavano, o ridevano, e la donna, gli parve, indicava la luna, come se si accorgesse per la prima volta da che era al mondo della sua presenza; come se non ci fosse stata mai prima al mondo un’altra luna come quella.

Ma doveva essere così, pensò Serra: Fiume aveva una sua propria luna, una luna calata sul fondale di questa inutile tragedia in pochi atti. E lui, Serra, era qui per recitarne l’ultimo.

L’atto finale: avrebbe preso contatto con Guido Keller, e il tenente lo avrebbe portato al suo obiettivo: il Comandante Gabriele D’Annunzio.

E poi lo avrebbe ucciso. Avrebbe ucciso Gabriele D’Annunzio.

Non era la prima volta che uccideva un uomo. Non era la prima volta che gestiva un caso del genere. Ma il fatto dolorosamente strano era, semmai, che gli sembrava che questa dovesse essere l’ultima.

Era a Fiume. Avrebbe preso contatto con Keller. Forse qualcuno, già dentro la città, avrebbe cercato di aiutarlo. Non sapeva niente di preciso. Una missione senza rete: ma andava benissimo così.

La pianta lo stava lasciando andare. Era stanco. Si sentiva infinitamente stanco e vecchio, ma la pianta gli stava scivolando via dal corpo.

Si accorse di avere il cappotto addosso; che non se lo era mai tolto, con dentro cuciti i documenti, e le carte. Se lo sfilò e si diresse, al buio, verso il tavolino. Ci si sedette. Accese la candela, e prese la cartella con i documenti, e li tirò fuori: documenti ufficiali, documenti ufficiosi, documenti che non esistevano e nessuno aveva redatto, lettere private, lettere d’amore, voci di corridoio. Molta carta, anche per questa ultima questione delicata che qualcuno gli aveva chiesto di risolvere con discrezione e senza i freni di alcuna morale inerte. Molta carta, anche per questa ultima missione che, al suo cuore rotto e avvelenato, pareva tanto straniera, come essere morti e, da morti, essere capitati in un altro mondo.

Un mondo a parte.

Prese queste carte, tutti i documenti e, uno a uno, li avvicinò alla candela. I fogli bruciarono, con lentezza, come un incantesimo. Il fumo riempì la stanza, da soffocare, e il capitano Serra si alzò e aprì la finestra, e respirò l’aria fredda del mattino che si avvicinava.

E con il mattino sarebbe sparito, infine, l’incantesimo della pianta, questa tristezza, questo orrore di sentirsi così straniero e ultimo.

Si sporse dal parapetto e lo scavalcò. Si ritrovò su una terrazza. Qui, a lato della scalinata, appollaiata sulla ringhiera, gli sembrò di scorgere un’aquila.

Una grande aquila con il becco adunco che, in quel momento, stava guardando il capitano Serra dritto negli occhi.

Poi l’aquila si stancò di guardarlo e si alzò in cielo. E allora il capitano attraversò il terrazzo, ne scavalcò la balaustra, e scivolò giù per la scalinata, seguendo l’uccello.

Massimiliano e Pier Paolo Di Mino

*Estratto dal romanzo

FIUME

DI TENEBRA

L’ultimo volo di Gabriele D’Annunzio

(Castelvecchi editore)

Da ottobre nelle librerie.

Leggi anche il Prologo