Improvviso

di Zeno Cavalla

Ormai le prove erano inconfutabili.
Bastava che Adele provasse a ripensare alla sua vita, che cadeva preda di una sonnolenza irresistibile. Appena arrivava a dirsi “oddio, non di nuovo”, ecco che già dormiva come un sasso. Spesso sognava proprio di essere una statua di pietra, semisepolta in mezzo a un giardino: un posto qualunque, in cui la gente giocava a pallone o si andava a ubriacare all’ombra di un sambuco. Talvolta era grande, enorme, lei cosi magra e felice di esserlo, sproporzionata come la rovina di un tempio cambogiano. Una statua nuda sdraiata prona sulla terra, talmente grande che la gente attorno era troppo vicina per riconoscere le fattezze di una donna. Alberelli, muschio e arbusti la coprivano in parte e le coppiette si infrattavano a far l’amore tra una e l’altra delle sue dita, o dove la fessura che separava le natiche arrivava quasi a congiungersi col suo sesso; ma era una statua e non c’era nessuno spazio tra le sue gambe, le quali formavano un blocco unico. La cosa più strana era quando le capitava di ripensare alla sua vita, si addormentava, e quindi sognava di essere una statua che ripensava alla sua vita: allora le sembrava che gli episodi della sua infanzia non fossero un inventario di oggetti familiari e nemmeno un laccio che le stringeva la gola, quanto piuttosto una materia ostica e difficile che un Leggi il resto dell’articolo

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