Carta taglia forbice – 6

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Parte seconda – I monologhi della prima persona

Si dà il caso che io mi trovi a mio agio con i Michael Laski di questo
mondo, con quelli che vivono fuori dal mondo invece che al suo
interno, quelli il cui senso di terrore è così acuto che ricorrono
all’impegno in cause estreme e disperate; ne so qualcosa anch’io
della paura e apprezzo gli elaborati sistemi con cui certa gente
riesce a riempire il vuoto, apprezzo l’oppio dei popoli in tutte
le sue forme, da quelle accessibili come l’alcol e l’eroina e la
promiscuità a quelle difficili da trovare come la fede in Dio o
nella Storia.

Joan Didion

Una grande città dell’Europa occidentale

Lui.

Ho pensato alla morte molto spesso. Da quando ero piccolo e, se ricordo bene, le mani non arrivavano alla maniglia di una porta. Mio padre mi sgridava e io morivo soffocato. Mia madre mi negava qualcosa e io morivo impiccato. La processione al funerale era una cosa straziante e io piangevo più degli altri. Ero un maestro dell’autocommiserazione. Ho iniziato a scrivere allora. E non ho mai smesso. Continuo a commiserarmi.
Mi hanno insegnato un mucchio di cose, nel corso degli anni, ma nessuna di queste cose è stata capace di chiarirmi perché sono così e continuo ad essere così come sono.
Come sono è facile da spiegare: Leggi il resto dell’articolo

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GNAP! – la tecnica dello schiacciapatate

Riportiamo l’intervento di Jacopo Nacci comparso su Yattaran

Prima o poi mi deciderò a compilare e pubblicare un elenco delle fallacie e delle mosse retoriche subdole che si stanno propagando in Italia in questi anni in modo massiccio e preoccupante: basti pensare all’uso diffusissimo e spensierato dell’argomento a uomo o del processo alle intenzioni. Temo abbiamo a che fare con la prole deforme nata dalle Nozze di Relativismo e Televisione: si tratta di fallacie e mosse che il loro stesso substrato ideologico incorona come uniche forme retoriche moralmente legittime; il medesimo substrato ideologico, intanto, rovescia senza pietà argomenti e dimostrazioni nel cestino delle dialettiche immorali; tutto ciò sta trasformando una parte della popolazione in troll (nel senso internautico) e l’altra parte in soggetti schizofrenici costretti a interrogarsi e rispondersi da soli; se gli schizofrenici che si interrogano e si rispondono da soli mi fanno venire in mente Socrate in Gorgia 506c-507c, i troll mi fanno venire in mente – più che sofisti come Gorgia, Callicle o Polo – i puffi neri, o i film di zombie dove i virus si impossessano dei cadaveri; e credo sia significativo che, nella filmografia sugli zombie, gli zombie si siano fatti via via sempre più rapidi e aggressivi. Leggi il resto dell’articolo

Guerra: una raffinata forma di masochismo

Le sole persone di buon senso che incontriamo

sono quelle che condividono le nostre opinioni.

La Rochefoucauld

 

Mi riesce un po’ difficile convincermi che tutti

possano aderire al mio punto di vista, che si

trovino tutti sulla mia lunghezza d’onda, con

tanta compattezza, senza che qualcuno dissenta.

Fabrizio De André

 

Solo in due casi penso che una persona sia

cretina: quando non mi capisce o quando

mi capisce perfettamente. Io, ormai, non

cerco neanche più di capirmi.

Antonio Romano


Il concetto del doppio ha sempre affascinato l’umanità. Il doppio è la chance, l’ipotesi, l’alternativa (per Rank sei frocio, ma questo è un’altra questione): bianco o nero, alto o basso, vero o falso. Questi – che a prima vista possono sembrare degli opposti – sono dei clamorosi doppi. Il fatto che se non è bianco è nero, implica che l’oggetto in questione abbia la potenzialità intrinseca d’essere sia bianco che nero, cioè di poter modificare la propria colorazione senza cambiare la propria identità. Questa è doppiezza.

Il fatto che i miei calzini siano neri anziché bianchi non esclude che possano essere bianchi anziché neri, ma sempre calzini restano. Questa è doppiezza. Il fatto che un uomo dica una verità anziché una menzogna non esclude che possa dire una menzogna anziché una verità, ma sempre lo stesso uomo è. Questa è doppiezza. O meglio è la scelta, o la chance o l’ipotesi o l’alternativa che ci permette di mentire o di dire la verità oppure di cambiare calzini a seconda dei pantaloni.

Il concetto del doppio si è espresso per secoli anche sotto forme impensabili. Per esempio, una forma del doppio è l’antinomia. Il fatto che una frase possa contraddire se stessa è l’espressione della doppiezza del discorso. Il discorso dovrebbe servire a comunicare, ma, se finge di comunicare, la comunicazione va a farsi benedire. Se una frase si contraddice – e si dimostra non vera – diventa inutile. Una celebre antinomia della scuola megarica è la semplicissima frase: «Sto mentendo». Un attimo! Che vuol dire «Sto mentendo»? Evidentemente che sto mentendo sul mentire. Allora dico il vero? No, se ho detto che sto mentendo.

È interessante questa antinomia visto che, sotto le mentite spoglie della comunicazione, nasconde l’incomunicabilità (dovrei forse rammentare Lacan, che spiega il dramma del disavanzo fra desiderio e parola: ma non mi va di alzarmi a cercare in libreria). Questa frase non porta a termine il suo compito – la comunicazione – perché non serve a comunicare alcunché; ha lo stesso valore della domanda «Di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?»: il vero significato, l’essenza e la funzione della domanda vengono annullate e vanificate in quanto la domanda si risponde da sola. È incomunicativa, inutile. E anche in questo c’è doppiezza: in una domanda che è contemporaneamente risposta.

Un’altra antinomia, stavolta dei logici medievali, è: «Socrate dice: “Platone dice sempre il falso”, Platone dice: “Socrate dice sempre il vero”. Chi mente dei due?». Anche qui c’è doppiezza, visto che sia Socrate che Platone sono contemporaneamente bugiardi e sinceri.

Un caso interessante – e forse illuminante a proposito di questa tematica – ce lo dona il popolo dei Maya. Questo popolo straordinario, su cui ancora molto deve essere scoperto e detto, riuscì a sincronizzare il calendario solare con quello lunare creando un nuovo calendario di 364 giorni (il 365° avanzante fu dedicato alla Festa del Tempo: momento in cui i Maya si divertivano sfrenatamente. Tale giorno non veniva neanche computato, come se non fosse mai esistito… tipo Una notte da leoni); questa sincronizzazione potrebbe essere facilmente interpretata come il sintomo d’un’ossessione (non per nulla i Maya sono anche chiamati “Maniaci del Tempo”) oppure, meno facilmente e più costruttivamente, come il desiderio profondo d’annientare la doppiezza; scandire il tempo secondo il sole o secondo la luna è un caso eclatante di doppiezza. I Maya avranno così voluto cancellarlo. Sempre i Maya, in questo campo, offrono un secondo spunto di riflessione. Quando si salutavano usavano una formula che recitava: «In lak’ech», io sono un altro te stesso. Questo popolo doveva aver intuito che l’umanità soffre di doppiezza nei termini di “io” e di “altri”; teoricamente si potrebbe azzardare che avessero anticipato ideologie politiche come il comunismo prevedendo un abbattimento dei ruoli psico-antropologici; sempre teoricamente si potrebbe azzardare che abbiano abbattuto i presupposti per la lotta sociale, per le faide, per la rivalità e per l’invidia (difficile pensare che per un Maya sarebbero valsi gli ultimi due gradi della gerarchia dei bisogni di Maslow): anche in questo caso sembra quasi che abbiano voluto eliminare la doppiezza della società, le differenze fra “io” e gli “altri”. Però, cosa avrebbe risposto un Maya alla domanda: «Preferisci te o me?». Probabilmente non avrebbe saputo rispondere, se è vero che “io sono un altro te stesso” (si pensi alla coincidenza nell’etimo della parola “persona”). Fortunatamente a queste antinomiche doppiezze linguistiche pose una regola (dunque un limite) Russell, stabilendo che le proposizioni non devono essere autoreferenziali. Intendiamoci: Russell non ha eliminato le doppiezze del discorso, le ha solo arginate. Le doppiezze, cioè gli opposti all’interno di uno stesso soggetto o oggetto, implicano l’armonia; gli opposti che convivono sono, a loro modo, armonici. Ma l’armonia non è sempre positiva. Armonia, che ha la stessa radice di arma, comporta appiattimenti, e tutti gli appiattimenti comportano repressione (non soluzione) delle differenze e dei problemi. L’armonia è solo il paravento dietro cui combattono gli opposti. Tale “guerra” (bisogna giustamente intendere questa parola, senza vizi d’interpretazione) per Eraclito è il fulcro stesso dell’esistenza. Dico che bisogna giustamente interpretarla perché, attraverso i millenni, certe parole hanno perso via via il loro autentico significato e si sono dovute avvalere di vari aggettivi (guerra d’offesa, guerra di difesa, guerra preventiva, guerra intelligente, guerra espansionistica, guerriglia).

Biante di Priene, uno dei Sette Savi, diceva che il più pericoloso degli animali selvatici era il tiranno e di quelli domestici l’adulatore. Hobbes, invece, disse: «Le due virtù cardinali in guerra sono la forza e la frode». Il tiranno e l’adulatore, che per Biante erano animali pericolosi, si sono trasformati nelle due virtù cardinali della guerra per Hobbes: la forza e la frode.

Hobbes, si sa, non era un campione di pacifismo (non per nulla è sua la teoria del «Homo homini lupus». L’espressione, in realtà, è da far risalire alla seconda parte – verso 495 – dell’Asinaria di Plauto, in cui è possibile leggere «lupus est homo homini». Altre possibili fonti potrebbero essere ricercate nel settimo capitolo, paragrafo primo, dell’Historia naturalis di Plinio e nel primo paragrafo della centotreesima delle Epistule di Seneca), ma questo la dice lunga su almeno un dato: la guerra è la parte sporca della nostra coscienza, quella che vuole prevalere sull’altro.

Igiene del mondo una sega! Se Marinetti avesse perso qualche arto in battaglia o fosse stato costretto in un letto per tutta la sua esistenza (o sulla sedia a rotelle come Evola) non avrebbe detto cose del genere. All’inizio uno dei Savi disse che la forza (ovviamente la forza “cattiva”, impersonata dal tiranno) e la frode (impersonata dall’adulatore) erano pericolose, in seguito l’empirista del ‘600 le fece diventare le virtù cardinali della guerra e, infine, il futurista tramutò la guerra in una cosa necessaria e giusta. Non vi pare che ci sia una logica ferrea in questa follia? In ogni caso la guerra non è giusta, a prescindere dagli aggettivi con cui la si voglia accoppiare.

La cosa più folle, però, è che non sono sempre gli opposti a fare guerra. Spesso e volentieri sono proprio gli omologhi a combattere fra loro. Francia, Germania e Inghilterra non hanno fatto altro per secoli e non perché diverse, ma perché troppo simili. Questo dovrebbe far riflettere: se attacchiamo una persona che ci somiglia troppo (almeno quanto si somigliano Francia, Germania e Inghilterra) significa che abbiamo gravissimi problemi con noi stessi.

 

Antonio Romano

L’ombra del destino

L’ombra del destino (Gialli Rusconi, 2010)

di Daniele Cambiaso e Ettore Maggi

 

 

Considerato che non sono un appassionato di spy story e di thriller, che il genere entra poco nel novero delle mie letture, questa storia scritta a quattro mani dai liguri Daniele Cambiaso e Ettore Maggi è stata una piacevole sorpresa – forse perché c’è qualcosa in più di una storia di spie.

La narrazione de L’ombra del destino procede per vicende parallele, scritte, secondo quanto apprendiamo in un’intervista recente a cura della scrittrice Marilù Oliva, con una «scaletta di massima, nella quale gran parte delle idee della trama e degli snodi narrativi» si devono a Cambiaso, laddove Maggi ha lavorato al prologo e al montaggio delle scene.

Si apprezza nel libro la compattezza stilistica delle stesure, che bene sembrano amalgamate in un lavoro che punta giocoforza molto sulla vicenda; i due scrittori si sono distribuiti le parti e le hanno perfettamente incastrate poggiando essenzialmente sulle voci alternate dei due protagonisti.

Si chiamano Stefano e Giulio, sono due studenti universitari e vengono coinvolti in una brutta storia di terrorismo mentre gli anni di piombo volgono al termine. Alla situazione in realtà sono estranei – e alla Storia, quella dei libri, sono destinati a partecipare come pedine in mani altrui. Per scampare il carcere difatti Stefano verrà fatto ispettore di polizia e Giulio tenente dei carabinieri. Al servizio di qualcuno che potrà manovrarli a piacimento, i due conosceranno traffici d’armi, mafie del nordest, formazioni militari che combattono nella ex-Jugoslavia, servizi segreti e una congerie di personaggi sinistri coinvolti in ambigue trame politiche.

Il destino nel titolo è quello che lega i due amici – non degli sprovveduti (se non all’inizio della storia), e tuttavia impossibilitati a modificare il corso degli eventi; è anzi la consapevolezza di far parte di un meccanismo troppo più grande di loro e che annienta alle fondamenta l’illusione di un paese democratico, ciò che spicca nel respiro stesso della narrazione. Due storie destinate a incrociarsi, costruite in soggettiva, e che hanno il merito di far percepire al lettore il racconto dal di dentro – il lettore sa solo quello che sanno i personaggi, al netto delle proprie capacità intuitive, si capisce –, il che crea la tensione e l’attesa implicite in questo genere di narrativa. La necessità di leggere nella cronaca una controstoria della politica “deviata” è evidente ma non nuoce al romanzo – i rischi di didascalia li corre piuttosto nel dire troppo qualche volta, nell’utilizzare immagini non sempre di primo conio, privilegiata com’è la funzione denotativa della lingua. I dialoghi fanno il loro duplice mestiere, di farci conoscere i personaggi e mandare avanti la storia (si mente in abbondanza in questa storia, e mentire è un’azione); insomma, sono serrati quanto basta e tengono bene il ritmo. L’ombra del destino è il primo titolo di una nuova collana Gialli Rusconi che si presenta in una confezione editoriale apprezzabile e qualche refuso di troppo.

Michele Lupo

FACEBOOK, UN LIBRO DI FACCE /2

Perché FB spaventa meno? Perché sostanzialmente è più simile al pianerottolo di un condominio o a una piazza, ovviamente rapportati al villaggio globale. Il motivo è semplice e basta ricercarlo nella natura dello stesso FB.

Non si tratta di un blog né di un sito né di un motore di ricerca: a differenza di un blog non ci sono ampie parti dedicate allo scritto, a differenza di Youtube non ci sono ampie parti dedicate ai video, a differenza di Google non ci sono notizie da trovare.

La vera essenza di FB è la possibilità di scrivere in una stringa risicata il proprio status, di poterlo commentare e di poter fare lo stesso con tutti gli “amici”. Certo, posso pubblicate degli scritti, ma in una sottoparte chiamata “Note”: ma quello che veramente conta è sapere cosa fanno gli altri miei “amici” grazie alle “notifiche”.

Il meccanismo posto in essere da FB è quello tipico del pettegolezzo: sapere tutto di tutti, come in ogni condominio che si rispetti, oppure – grazie alle foto – guardarsi in faccia e sapere qual è lo stato d’animo del mio “amico”, proprio come in una piazza. Non per nulla è il social network per eccellenza.

FB incute meno timore perché, senza voler essere ulteriormente rivoluzionario, recupera invece qualcosa: l’identità. Se i cybernauti dell’origine tenevano moltissimo all’anonimato, oggi si mettono in Rete con nome e cognome.

FB ha questo scopo, benché involontario, fin dal nome: un libro di volti. Tutti si debbono poter guardare, sapere chi sono e sapere come sono fatti. Basta con la menzogna.

Se prima si usciva di casa per sapere che facevano i propri amici, oggi ci si chiude in casa e s’interroga FB.

 

Antonio Romano

I GENDARMI DEL BUON GOVERNO VECCHIO – Parte quinta abbondante

[Parte prima Parte seconda Parte terza Parte quarta]

«Pronto Luigi, come stai? Ti disturbo?»

«Ciao, beh veramente stavo iniziando un modellino, ho montato oggi i primi pezzi, ma ci vorranno anni, poi te lo farò vedere, sarà un gran bel cingolato. Dimmi tutto».

 

Non so come dirtelo e soprattutto non capisco se lo sto pensando o lo sto dicendo al mio amico. Opto per il nascondergli la verità, la verità fa male spesse volte. Io non vorrei mai sentirmi dire la verità, preferisco vivere nella menzogna, che a suo modo è più onesta e meno ipocrita della realtà delle cose. Io non voglio sapere che il diretto per Milano porta venti minuti di ritardo, ritardo da cosa? Cosa me lo dici a fare? Che ormai sono in stazione a girarmi i pollici! Portasse cento minuti di ritardo magari tornerei a casa, mi fumerei una sigaretta e tornerei in stazione con calma… e poi? Magari il ritardo diminuisce e perderei anche il treno, no. Preferisco attendere l’arrivo senza preoccupazioni, tanto poi durante il viaggio, il treno il tempo lo recupera. Fossero anche duecento minuti ma lo recupera. È una continua lotta contro il tempo, una corsa ad ostacoli per giunta. Una corsa dove se ti stanchi hai il Gatorade nella mano destra, mentre nella sinistra la staffetta da lasciare al tuo compagno che però è tornato a casa a fumarsi la sigaretta, visto che aveva letto il ritardo di cento minuti. E allora che fai? Devi aspettare il tuo compagno che torna da casa, che magari gli puzza l’alito di tabacco secco. Ed intanto l’avversario ti ha oltrepassato leggero, che accenna pure un sorriso coi piedi. No, guarda: preferisco vivere nella menzogna. Cosa mi interessa sapere se tu mi tradisci o meno. Fallo e siamo tutti e tre più contenti. Meglio felici in tre che depressi da soli. Non trovi? Dici che è un atteggiamento malsano? Diglielo al capostazione, diglielo a lui se è malsano! E vedrai come ti risponde!

«Io malsano?!» così ti risponderebbe.

No, no. Perché dovrei far soffrire un amico che non vede il genitori da anni? Perché dovrei uccidergli quella speranza che magari nutre nella sua già deperita anima marcia, piena di vodka e modellini in scala 1:1? Meglio tacere.

 

«Va bene Andrea, ora però calmati, cosa c’entra tutto questo discorso con la telefonata che mi hai fatto?» Cazzo! Stavo pensando a voce alta. Il che se ci pensate bene è un po’ assurdo. Anche perché ero sicuro di non aver mosso le labbra della bocca. Sarò forse un ventriloquo involontario? Ci riprovo. Luigi mi ascolti? (sempre senza aprire bocca)

 

«Sì Andrea! Ma sei impazzito? Cosa vuoi?» Poso la cornetta di colpo senza dare spiegazioni.

 

Non credo di essere io, probabilmente è il telefono il vero problema, mi convinco sia quello il problema.

 

Scendo in strada e mi avvio dal norcino. In fila, prima di me, un anziano signore indeciso se acquistare delle pere o delle mele. Sbuffo timidamente. Il norcino mi guarda stizzito, il signore si volta, mi squadra come un compasso che squadra un foglio bianco e indignato mi urla: «Ma andassero di traverso a te, maleducato villano!»

 

Porca puttana stanno sentendo i miei pensieri. Penso.

«Certo,» rispondono simultanei il norcino ed il vecchio.

 

Fuggo senza comprare nulla, afferro la bici e prendo a correre verso il parco, devo uscire da questa situazione assurda. La volante dei Gendarmi mi si affianca e mi chiude la strada. Sono nei guai, penso. Devo convincere me stesso di essere un bravo ragazzo. La vedo dura ma devo farlo. Non mi vengono in mente altre soluzioni. Nella volante sono in tre, io sono da solo con la mia bicicletta. L’auto si blocca, il gendarme più alto si avvicina, alza il braccio, mi scuote il ginocchio e mi chiede i documenti.

«Da grande voglio diventare un gendarme, dovrei chiedere loro come fare domanda,» penso mentre cerco la carta d’identità dal portafogli.

«È un bene che facciate questi controlli, è pieno di irregolari in giro,» gli dico.

«Lo sappiamo benissimo cosa è il bene e cosa è il male,» dice il piccoletto mentre osserva la mia foto. Non ero uscito benissimo in quella foto, avevo un gran mal di testa quel giorno.

«Dove stavi andando a quella velocità?»

«Tentavo di perdere i chili in eccesso»

 

Il gendarme nella volante si accende una sigaretta elettronica, mi guarda e mi sorride. Non so cosa pensare, ma lo faccio lo stesso.

 

CONTINUA…

Andrea Coffami aka Angelo Zabaglio