La società dello spettacaaargh! – 8

[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7]

Caro Jacopo,

grazie innanzi tutto per la precisazione sull’Illuminismo. Mi rendo conto che l’avevamo trattato da diverse prospettive, girando un po’ intorno a una sua definizione, solo sfiorata. Faccio presente, per sintetizzare le nostre posizioni e i nostri linguaggi (ma correggi pure se scorgi errori, mi raccomando) come nel breve scritto di Kant sia toccato un discorso da me posto:

Forse una rivoluzione potrà sì determinare l’affrancamento da un dispotismo personale e da un’oppressione avida di guadagno e di potere, ma mai una vera riforma del modo di pensare.

Ossia che la riforma del modo di pensare non può prescindere dal percorso individuale: ci si può emancipare dall’oppressione in quanto istituzione sociale, ma questo non determina, di per sé, una liberazione individuale, in particolare per quanto riguarda le categorie di pensiero. Ciò ritorna anche nel discorso che fai, mi pare, sulla contiguità tra fascismo e berlusconismo (che condivido in particolare sull’elemento che individui, il «me ne frego»): ci siamo liberati di quella nefasta dittatura, ma ciò non ha coinciso, immediatamente e automaticamente, con l’emancipazione dal modo di pensare fascista. Leggi il resto dell’articolo

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La legalità? Attenti a quando scade! /5

La legalità scade perché è frutto di una dialettica, quindi maciullata dal meccanismo dell’integrazione fra opposti. Ad aggravare la mobilità della legalità ci si mette il sistema economico industriale che, strappando all’agricoltura (sottoposta molto di più a vicissitudini extraumane) il primato produttivo, consente all’uomo di darsi sue proprie regole di vita in misura decisamente maggiore. E qui nasce il problema: queste regole che l’uomo si dà sono di valore o di principio? Leggi il resto dell’articolo

FACEBOOK, UN LIBRO DI FACCE /4

Iniziamo da un concetto lacaniano: noi siamo sintomo della società, a bagno nella struttura. Ergo, tutto ciò che siamo è sommatoria di input esterni, memi che si diffondono attraverso la grande maglia della comunicazione.

Con la Rete, ovviamente, i memi si diffondono ancor più velocemente, di solito per imitazione. L’imitazione di un comportamento porta alla diffusione del comportamento stesso, sia che si tratti di un aybabtu in engrish sia che si tratti d’un marchio.

Questa diffusione continua di memi in un regime di ipercomunicazione è destinata alla nuova tipologia antropologica umana, ossia soggetti molto empatici e – di conseguenza – molto emotivi (ritorniamo agli scripta che diventano verba), disposti a inebriarsi continuamente di suggestioni, a vibrare a ogni accenno di desiderio.

Questi “ipervibranti” sono il pubblico adatto al marketing – porno, viral o guerrilla che sia. Somigliano a una matassa di sensori che suonano a ogni cadere di foglia, cercano nelle scene decurtate al final cut refoli di sentimenti e di nuovi input, accorrono in massa nella piazza mediatica per far rimbalzare la palla su ogni muro bloggerico non appena i guerriglieri del marketing intessono un finto scoop per pubblicizzare qualcosa.

In Rete, siccome vige il fenomeno dell’autonomia e della virtualità, diventiamo tutti – volenti o nolenti – dei memi e, siccome la maggior parte dei memi di Internet è un ipervibrante, automaticamente si tende al fenomeno tipico del meme: la deriva memetica, ossia il cambiamento che il meme subisce rimbalzado qui e là. Sono pochi i memi a godere dell’inerzia, la maggior parte di modifica come una sfera di plastilina che cade da un balcone. Ecco come i gusti delle persone, ormai tramutate in memi, si adattano alle esigenze del mercato.

L’imitazione e l’emotività diffondono i memi, con un piccolo aiuto dai nostri geni, che a quanto pare funzionano come “sistema mirror”: impariamo a imitare ciò che ci sembra buono, non che lo debba necessariamente essere, basta che ci sembri tale, dunque tutto ciò che ha carisma riesce a farsi imitare, quindi a diffondersi sul diffusore di memi per eccellenza, Internet. Casi scolastici della psicomemetica: gli slogan, le figure meschine dei politici, i tormentoni, le canzoni, gli status symbol.

Gli ipervibranti vivono di tensioni desideranti, quindi il pornomarketing è l’ideale per far proiettare tale tensione dai corpi ai marchi degli oggetti circostanti: è tattica diffusa creare video porno amatoriali (i più cercati in rete) al solo scopo di rendere visibili alcuni marchi. Il pornomarketing (che va, appunto, dal porno casalingo all’ammiccamento di una ragazza mangiando un gelato) è la forma di viral marketing più efficiente e conosciuta, la più studiata dagli esperti del guerrilla marketing.

Costoro, ex o ancora militanti di gruppi underground sovversivi o anarco-insurrezionali o vattelappesca, attraverso l’inventiva sempre all’erta e la creatività immutata e sperticata dello squalo culturale, riescono a insinuarsi non senza genio degl’ipervibranti coi mezzi che abbiamo su menzionato. Anche i test di Internet, le banche date dei motori di ricerca, il numero di clic ricevuti da determinati articoli altro non sono che metodi per indicizzare i consumatori e capire dove battere.

Il sistema del guerrilla marketing sembra complesso e innovativo, ma è semplice e non particolarmente originale: in realtà si tratta di applicare il situazionismo al marketing, così come Guy Debord applicò il marxismo allo spettacolo (non sono forse forme di détournement entrambe?). Se si rapporta la loro opera nella piazza mediatica a quella dei situazionisti nelle piazze reali è possibile riscontrare numerose similitudini: l’idea dello spettacolo come rappresentazione della società e quindi l’idea di sopprimere la contemplazione dello stesso (la pubblicità in video è stantia), l’abilità nel creare “situazioni” mediatiche (i finti scoop), il superamento dell’arte in senso classico – accusata di sclerotizzare e reificare l’esperienza – per il recupero della vita vera (i situazionisti volevano quella fisica, qui ci sta bene anche la vita vera di Second Life).

Ma cosa rende questo metodo vincente? Perché il situazionismo non riuscì a interrompere il flusso ininterrotto dello spettacolo inebetente e il guerrilla marketing sì?

I guerriglieri sono riusciti nell’opera borgesiana di distruggere la fede del consumatore nel referente, di smontare le certezze di chi guarda un film o una foto o fa un test su FB, d’annullare il “discorso ininterrotto” che Debord denunciava ne La società dello spettacolo.

Per capire come hanno fatto dobbiamo ricordarci di quanto abbiamo già detto riguardo a Facebook: la differita della risposta. Mentre per i mezzi di comunicazione canonici c’è la necessità della presenza del ricevente (l’attenzione paranoica di cui si è già detto), nei sistemi più recenti della Rete la presenza del ricevente non dev’essere continua.

Con questa differita siamo all’aurora di un importante cambiamento: quello che finora è stato l’ipervibrante potrebbe trasformarsi nel nuovo tipo antropologico dell’“ipsoverso”.

Facendo per un momento riferimento alle ricerche di Mario Perniola, potremmo dire che il corpo dell’ipervibrante è un gomitolo di emozioni, che la sua vita si svolge in funzione di riti privi di miti (se esiste un rito, ma non un mito di riferimento, basta porre al posto di quest’ultimo una sequenza di marche a rotazione per ottenere una moda o una diffusione memetica) e che la sua conoscenza cerca ancora di arrivare a una meta (cioè il rassicurante pianerottolo di FB).

L’ipsoverso ha già fatto tesoro della crisi della dialettica, sa navigare abilmente in un mare di opposti e arriva all’accettazione dell’enigma insolvibile. Ha smesso di vibrare all’unisono col mondo fittizio dei media, perché niente in quel mondo è inequivocabile, ha preso a vagare in se stesso alla ricerca delle proprie pulsioni, le uniche che – in un mondo dove tutto è volatile e arbitrario – contino davvero qualcosa.

 

Antonio Romano

Metodica delle cose inutili – Ancora sulla psicologia e le pratiche spirituali

Ancora sulla psicologia e le pratiche spirituali.

Questo numero della nostra rubrica insiste ancora sul tema dell’uso della psicologia e della pratica spirituale: ognuno è libero di trarre da questa insistenza una sua personale considerazione sulla centralità di queste due branche del mercato nelle nostre esistenze.

Ed è proprio questa centralità che ci impone di scegliere bene, tra le tante offerte, quella migliore, la più adatta, dico, a praticare l’inutilità, ad essere inutili. Queste poche note varranno come un semplice e agile vademecum.

Diffidate gente (questo vale sempre) dalla complessità; la complessità ingolfa l’immaginazione, e quindi fa cultura; e la cultura gonfia, come dice San Paolo: e questo è peccato. E, allora, la prima cosa che dovrete fare nel diventare clienti di uno psicologo o di un maestro spirituale è che la sua dottrina operi innanzitutto su un candido semplificatore appiattimento della vostra compagine esistenziale. Qualcuno vorrebbe farvi cadere in mille lacci; qualcuno vi verrà prima o poi a raccontare che l’anima nessuno può dire che esista, ma nessuno può dire che non faccia per intero tutta la nostra vita. Quale astruseria! È più facile e chiaro dire che l’anima esiste punto e basta (come nella storia del rabbino che incontra un suo collega e gli dice che Dio gli ha parlato; il secondo rabbino non gli crede, gli chiede di dimostraglielo se non vuole passare per mendace. Ma il primo se la cava benone: Dio non parlerebbe mai a un bugiardo). Imponendoci che l’anima esiste punto e basta otteniamo un risultato importante (si chiama concretismo): l’unica domanda successiva possibile è: allora dov’è l’anima? La risposta più semplice che sia stata trovata è: dentro. Tagliare l’anima da dove è sempre stata, fuori, nel mondo (anima mundi) viene comodo alla nostra causa perché riporta tutto al privato, in greco idios, da cui idiota: e voglio vedere qualcuno dirmi che essere idioti e inutili non sia la stessa cosa. A quel punto noi abbiamo l’anima che è una cosa che abbiamo dentro, al buio, chiusa. E al buio, e poi col fatto che siamo idioti, non riusciamo più a distinguerla dallo spirito, non sappiamo vederla differenziata nei sui vari aspetti, nelle sue infinite anime (ci fanno pena i poveri neoplatonici con le loro demonologie).

Allora badate bene che il vostro psicologo o il vostro maestro vi dica che dentro avete qualcosa (spirito, anima, prana, energia, superpoteri) che non si capisce bene cosa sia, ma che, per essere tenuta stantia dentro, e poi dentro un idiota, è malata. E qui dobbiamo passare al secondo punto fondamentale: se uno è malato va curato. Così dobbiamo ragionare.

Una volta se uno era cieco lo mettevano a fare il poeta, tipo Omero, o, fino a sessant’anni fa in Giappone, lo sciamano (lo Stato totalitario nipponico si è efficientemente liberato da questo retrivo retaggio: ora i ciechi fanno i barboni). Uno che è malato va curato. Cosa otteniamo con questo? Che l’uomo, per dire, è all’ottanta per cento fatto di acqua, e il resto sono cattivi pensieri, sogni conturbanti, strane fantasie, ansie, manie, paranoie: ci curiamo, leviamo le ansie e le paranoie, e cosa otteniamo? Diventiamo delle bottiglie d’acqua.

E così la sera torniamo a casa, dopo esserci mondati dai peccati lì dallo psicologo o dal guru, nella nostra casa privata, come degli idioti; ci poggiamo sul nostro tavolino come una bottiglia, e possiamo constatare di essere puri e calmi, anche se questa casa non la pagherò mai, anche se non ho un lavoro fisso, anche se per me non ha un vero senso vivere e non mi fa neanche più effetto che stanno massacrando di botte sotto casa mia degli emigrati.

Tanto è sotto, è fuori, dove non ho più anima.

Pier Paolo Di Mino

Decadence Lounge

“Produttore discografico cerca brani inediti da lanciare sul mercato”.

“Lanciare sul mercato”… Dimmi come scrivi e ti dirò chi sei. Ma non mi spavento. Via Manassei. E’ vicino a casa mia: una passeggiata di un quarto d’ora. Vado. E’ una palazzina anni ’70 in una sonnolenta zona residenziale abitata da gente perbene. Gente tranquilla, gente che lavora. Gente che quando ti incontra non ti nega mai un buongiorno. Citofono. “Sì, vengo per l’inserzione”. Ultimo piano. Attico e superattico. Suono il campanello. “Prego si accomodi” borbotta la ragazza, scostandosi dalla porta come se la mia incapacità di entrare passando attraverso il suo corpo le arrecasse un’insostenibile combinazione di noia e fastidio. Mi accomodo e aspetto. Aspetto a lungo. Finalmente arriva trafelato un ragazzetto sui venticinque, in pantaloncini e infradito. “Oh, eccomi qui. E’ per l’annuncio vero? Siete proprio tanti. Tutti che scrivono canzoni! Vieni con me. Hai portato qualcosa da ascoltare? Vediamo. Sei pezzi? Troppi. Ti svelo subito un segreto: nessuno ascolterà mai sei pezzi. In un CD per un produttore ne devi mettere due, massimo tre. La gente che fa il mio mestiere non ha tempo da perdere. Non è cattiveria, ma tu capisci…”. Si interrompe un attimo per riprendere fiato e faccio in tempo a presentarmi e a chiedergli per quale etichetta lavora. “No, io non lavoro… Sto creando un progetto solista mio personale. Roba forte. Ti farò sentire. Quando posso nel frattempo do una mano a mio padre, che è produttore e cerca sempre cose che fanno il botto subito… Ah, guarda qua: lui è un grande!”. Mi indica una foto che lo ritrae accanto ad un cantante di comprovata ignoranza la cui popolarità, specie tra le ragazzine, è inversamente proporzionale alle qualità artistiche. Cerco di mostrarmi minimamente colpito. Nel frattempo continuiamo a percorrere corridoi e ad attraversare stanze cosparse di oggetti costosi e possibilmente vistosi: sembra che l’appartamento non abbia fine. Arriviamo in una camera illuminata da una vetrata che dà su un ampio terrazzo. Ci sono uno stereo, una tastiera e un paio di poltroncine. “Qui è dove creo. Qui prendono vita le idee!”. Per un attimo, assecondando una connessione mentale non del tutto logica, la mia memoria va alla stanza di Beethoven che avevo visitato qualche anno prima a Bonn. Si mette alla tastiera e comincia a suonare in preda ad un poco condivisibile slancio di esaltazione. “Intanto ti faccio ascoltare qualcosa di mio, così capisci”, dice. Inizia a cantare una canzone che parla di un ragazzo non meglio identificato e di una ragazza avvenente che si scambiano alcuni fluidi corporei all’interno di un’automobile in riva al mare a ferragosto mentre sorge il sole e l’autoradio fa da sottofondo, in uno stile che presenta inquietanti affinità con quello del suo idolo incorniciato. “Capisci? Questo è un prodotto che funziona! Chiunque ha vissuto una situazione simile. Chi vuoi che non si immedesima? Chi vuoi che non ha baciato una ragazza in macchina? Beh, solo uno sfigato! Capisci?”. Capisco. Intanto inserisce il mio CD nello stereo e dalle casse sgorgano suoni familiari che in quel luogo mi appaiono insolitamente alieni. Passano circa dieci secondi. “Tu capisci che questo materiale è impresentabile? Non dico che è brutto, perché magari ad ascoltarlo poi mi piace pure, ma sono passati dieci secondi e ancora stiamo all’introduzione: il pezzo ancora non parte, non decolla. Non è cattiveria, ma tu capisci no? Uno ascolta dieci secondi di intro di pianoforte – bellissimo, per carità! – e fa skip al pezzo dopo, perché un produttore non ha tempo. Non è cattiveria… E poi con un pezzo così a Sanremo che ci fai? Se proprio ti va bene al massimo ci prendi il premio della critica. Noi non dobbiamo prendere i premi: noi dobbiamo vendere i dischi. Tu capisci… Ah Karen… Vieni ti presento… Ti presento… Com’è che ti chiami? Ah sì, ti presento Alessandro, che è venuto a portarci dei pezzi, roba un po’ d’autore, un po’ tipo poesia, capito come?”. La ragazza che si chiama Karen si affaccia dalla porta a vetri. Ha addosso il minimo indispensabile e ostenta la sua provocante ed eccessiva bellezza con una certa arroganza. “Lei è la ragazza mia. Fa la modella. Ci siamo conosciuti la settimana scorsa in Austria. Ora l’ho messa in contatto con gente che sta nel giro del cinema”. Penso “e ‘sti cazzi”, dico “ah, sì?”. La ragazza svanisce senza proferire parola. Forse non parla la nostra lingua.

“Ora ti faccio ascoltare qualche altro pezzo mio”.

Chiudo gli occhi e aspetto che finisca.

Alessandro Hellmann

Anteprima da “Decadence Lounge” (editrice Zona, 2010)