Il presagio della civiltà (appunti barbarici)

Pubblichiamo due poesie inedite di Eduardo Olmi, autore del recente libro intitolato Il porcospino in pegaso.

1.0. PONENTE

lo vedi con due file intasate di ventenni
doppio senso di marcia in scale mobili,
mentre lungo la gradinata di mezzo
solo un cane sculettante incalza il metrò
e pensi:
5-10 minuti in doccia a testa
dentro l’ingranaggio di ogni giorno
quando il fiume lì accanto scorre via
da sempre e non ha mai
venduto orologi.

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La linea infinita

La rubrica Interlinea ƒ64 nasce dalla collaborazione tra La Rotta per Itaca e Scrittori precari: una volta al mese, uno scrittore, leggendo tra le righe di una fotografia, ci racconterà una storia in profondità di campo.

Quello che segue è il secondo racconto.

di Ilaria Mazzeo da una foto di Andrea Pozzato

 

Da Rogoredo a Stazione Centrale ci sono undici fermate della linea gialla della metro.

Sara lo sa perché le ha contate sulla cartina, e le sembrano inaffrontabili, infinite; ostili.

Tutto è ostile, da due anni a questa parte.

Inizia a scendere le scale, con il cuore che ogni tanto, le pare, salta un battito; ma poi lo recupera in velocità.

Sara si fa forza stringendo in mano il suo ciondolo. Glielo ha regalato suo padre, molto tempo fa. Poi si tocca la pancia, e attraverso la maglia sente quel calore che la rassicura. Sembra dirle: «Non sei sola».

Sola lo è stata, per tanto. Percorrendo il lungo corridoio che porta ai tornelli, Sara cerca di non pensare a quello che sta facendo, ma non ci riesce. Butta le chiavi di casa in un cestino, e prosegue, rasentando il muro, con la gente che la supera velocemente, senza degnarla di uno sguardo.

L’idea gliel’ha data Julia Roberts.

Qualche sera prima, in tv, ha visto un vecchio film con lei protagonista. Il titolo era stupido: A letto con il nemico, ma Sara ha seguito con grande attenzione, mentre suo marito russava nell’altra stanza.

Nel film, la diva Julia è sposata con un animale che la picchia e la umilia in tutti i modi; i due vivono in una casa bellissima con vista sull’oceano, e il pazzo è un uomo alto, prestante, con folti capelli neri.

Sara e suo marito vivono in un bilocale con vista sui binari della stazione di Rogoredo, e lui non somiglia proprio per nulla a un attore americano; per il resto, però, la situazione è la stessa. E lei, come la Roberts nel film, ha deciso di scappare.

Fino a pochi giorni prima una soluzione del genere non le era balenata alla mente nemmeno nelle sue fantasie più sfrenate; neanche dopo l’ennesima umiliazione subita al Pronto Soccorso, dove una dottoressa, a occhio sua coetanea, le aveva detto apertamente che quei segni sul collo e sulla schiena non erano compatibili con nessuna caduta, e che la smettesse di prenderla in giro, per favore.

Lei era stata zitta e aveva tenuto gli occhi bassi, come quando, a scuola, la beccavano impreparata; si era fatta medicare e incerottare per bene ed era filata a casa a preparare la cena, terrorizzata che lui tornasse da lavoro e non trovasse il piatto in tavola.

Sara arriva al tornello e tira fuori il biglietto, che, nell’agitazione, le cade per terra. Lo raccoglie con mani tremanti e lo inserisce nella fessura.

Con gli occhiali da sole, là sotto, vede a malapena dove mette i piedi, ma non se li toglierà per nessun motivo, così come non si toglierà il cappellino da baseball con la scritta “I love Milano”, comprato appositamente su una bancarella del mercatino di Senigallia per poterci poi nascondere i capelli sotto. Nel film, la Roberts si metteva una parrucca bionda. Lei non avrebbe saputo dove andare a comprarla e, comunque, ha pochi soldi.

Il tornello si sblocca e Sara passa oltre, cercando di non accelerare. Si guarda intorno: nessuno fa caso a lei. Forse, grazie allo zaino e al cappellino, può passare per una turista. Vorrebbe correre, ma non lo fa; fino a stasera, del resto, lui non potrà accorgersi della sua fuga. Non hanno il telefono fisso, a casa, e lei ha simulato uno scippo con conseguente perdita del telefonino, proprio il giorno prima. Lui, naturalmente, si è incazzato di brutto, e le ha urlato che se lei, inutilezoccola, è così stronzadeficiente da farsi derubare dal primo rumenodimmerda che passa per la strada, a lui nonglienefregauncazzo, e il cellulare, almeno per ora, non glielo ricomprerà, ziocane.

In realtà il cellulare Sara ce l’ha nello zaino, ma con un’altra Sim, acquistata ieri.

La sua è andata a lanciarla nel Naviglio Grande, insieme alla fede; così, se mai le ritroveranno, magari penseranno che si è suicidata, o che l’hanno uccisa. Per lei va bene. Le sarebbe andato bene anche morire, fino a pochi giorni fa; ora, però, non vuole più.

Sara è sulla banchina, adesso; il tabellone luminoso comunica che al prossimo treno per Maciachini mancano tre minuti. Avrebbe preferito trovare il treno già pronto ad accoglierla nella sua panciona lucida, ma non tutto può andare come nei film. Ora che è riuscita ad arrivare fin quaggiù si sente più forte: non credeva che ce l’avrebbe fatta. Forse allora è vero che non è quella nullità che il marito sostiene.

Ripensa a sua madre, a quando le ha telefonato, ieri. Non la sentiva da due anni, ma non si è stupita che la voce fosse sempre la stessa, uguale a quella che ha continuato a venire a trovarla in sogno: bassa e decisa, senza mai un’esitazione. Sara, invece, balbettava. Mi aiuterai, mamma? Sì. Posso venire da te, mamma? Sì, figlia mia. Ti voglio bene, figlia mia.

«Anche io, mamma».

Sara lo dice ad alta voce, entrando nel treno della metropolitana, diretta alla Stazione Centrale, da dove ripartirà per Napoli, e da lì per Agropoli, il suo paese. Qualcuno si volta a guardarla, ma lei bada solo a trovare un posto libero per sedersi. Rogoredo rimane alle sue spalle, e anche Porto di Mare, Corvetto, Brenta

Sara tiene le mani posate delicatamente sul grembo, per sentire ancora quel calore forte, rassicurante.

«Ce ne andiamo, piccolo mio,» mormora. E sorride.

Pubblicità occulta

Io lavoro per una casa editrice. Mi chiamo Giovanni ed ho i peli sulla schiena. Il mio lavoro è un part-time dal lunedi al giovedi, dalle 7 del mattino alle 10 e dalle 12 alle 14. Nelle due ore di buco non passo fare nulla di che, ma sono libero e mi godo la mia libertà. Di solito mi appoggio in libreria e mi leggo i romanzi a puntate. Dico a puntate perché mi leggo ogni giorno una ventina di pagine dello stesso libro. Entro alla Feltrinelli, mi sorseggio un the e mi sfoglio le pagine di qualche classico, tutti libri che poi non compro, tanto stanno lì, come se fosse una mia libreria personale, me li leggo pian piano ma senza acquistare mai nulla, li considero miei. Il mio lavoro consiste nel prendere la metro, arrivare al copolinea, uscire dal vagone, prendere la stessa metro ma in direzione opposta, arrivare all’altro capolinea, cambiare linea metro ed arrivare al capolinea della seconda linea metro, uscire dal vagone e ritornare indietro. Così ogni giorno dalle 7 alle 10 e dalle 12 alle 14. Naturalmente non devo fare solo questo, io lavoro per una casa editrice, una di quelle “famose”, di quelle che “vendono”, di quelle che hanno autori che vanno in tivvù, quindi, una volta in metro mi devo ricordare di tenere bene in evidenza il libro che sto leggendo, solitamente mi affidano le nuove uscite. È pubblicità subliminale. Devo essere come un attore: devo saper piangere se il libro è drammatico, devo ridere fino alle lacrime se il libro è comico, devo spaventarmi ed ogni tanto chiudere il volume (come se fosse posseduto dal demonio) nel caso si tratti di un romanzo horror, devo mettere in evidenza la mia erezione se sto leggendo un libro erotico, devo iniziare a parlare di luoghi comuni e malcostume italiano con il malcapitato vicino, se sto leggendo un saggio politico di qualche giornalista televisivo. È un lavoro semplice e redditizio che mi permette di vivere decentemente. Siamo parecchi a fare questo lavoro, solo nella mia casa editrice ne siamo una decina. Quindi: quando vedrete un ragazzo che nella metro è immerso in qualche lettura e sembra pure soddisfatto di quello legge, pensate pure tranquillamente che si tratti di un pubblicitario.

Angelo Zabaglio e Andrea Coffami

L’inferno – I pendolari in metro

GIRONE II – I pendolari in metro

La cosa meno rassicurante per una persona è scendere da qualche parte. Scendere sempre di più e arrivare sotto. Sotto vuol dire stare più in basso, un valore negativo che porta ad una situazione di svantaggio nella nostra percezione del mondo.

Una fila interminabile di corpi scende da una scala mobile, poi da un’altra, poi un’altra, per arrivare sotto e partire, esplorare il mondo dei vermi sotto terra. Il tempo di abituarsi all’aria rarefatta e poi via sul veloce metro che ad ogni frenata fa volare scintille dal basso e dall’alto. La tensione dei cavi si limita a variare il minimo prestabilito, giusto per rendere il tutto poco stabile, ma mai instabile. La velocità e i sobbalzi rendono l’equilibrio precario, regalando giramenti di testa e conati di vomito che solo raramente avranno la possibilità di uscire allo scoperto per spargere quel po’ di noi che c’è rimasto attaccato alle budella. Le mani sudate scivolano sui pochi appigli ambiti da una moltitudine di persone. Le persone in eterno viaggio… sempre in cerca di qualcosa che le distolga dal lineare flusso di eventi, ma come al solito niente, solo altre fermate, sempre le stesse.

Persone che cercano di guardare tutti e pretendono di capire tutti, d’inquadrarli, diffidando di tutti per non sbagliare. Non un dialogo tra sconosciuti, nemmeno un semplice sorriso. Non sono ammesse espressioni costruttive, solamente sguardi arrabbiati, stravolti, sofferenti e sadici.

Gli inadattabili guardano schifati ogni diversità e appena pensano di vivere condizioni altrui così incredibili quanto disgustose fremono dalla paura, paura che tendono a reprimere con un odio paralizzato, di quelli che bruciano dentro e basta, senza venire mai a galla per “paura”. Codardi.

Questi simpatici personaggi si trovano sempre in prossimità delle porte, pronti a fuggire. Proprio nel momento dell’apertura vengono inondati dal grasso rancido degli ingranaggi delle porte e sono sbattuti in fondo al vagone assieme ai diversi. Ora, sotto gli sguardi delle persone per bene interpretano le parti del diverso.

Il diverso non è accettato, capito, e per questo è libero di fare quel che vuole. Solo lui sa che si può fare tutto. Basta essere sostenitori delle proprie individualità. Per fare questo ci vuole coraggio, il coraggio di fare quel che si vuole. Se ne fregano degli sguardi della gente stupidamente infastidita e forse solamente gelosa, gelosa di quel coraggio o di quell’indifferenza che li rende unici.

I diversi nel loro momento di grazia deciderano di scendere e ce la faranno, fin a quando saranno tutti giù ad aspettare di salire su un’altra vettura, ma nessuna carrozza sarà più pronta ad ospitarli. Pian piano tutti loro deruberanno gli altri stronzi dalla mente ristretta e assumeranno i loro panni per poi lottare e tenere fuori dal loro mondo i loro fantasmi. Spettri liberi e incuranti dell’opinione pubblica.

Daniele Vergni