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Saranno anche precari, ma di certo non sono scrittori (Libero, 1/9/09)

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La mia religione*

aprile 17, 2012 di scrittoriprecari Lascia un commento

di Stefano Vigilante**

Mi chiamo Edoardo, sono operaio specializzato. La sera quando torno dalla fabbrica sono così stanco che metto in dubbio pure la mia esistenza e mi chiedo se è possibile che ci sia un creatore di tutto questo. Poi mi guardo allo specchio come mi sono ridotto e penso che tutto sommato è chiaro che discendiamo dalle scimmie.
Ma non sono il solo ad avere queste crisi mistiche.
Ilde che lavora alla calcestruzzi m’ha detto: Edoardo io non credo più a niente, ho pure partecipato a questi viaggi nei santuari, ma alla fine sempre sola sto e con la casa piena di batterie di pentole che m’hanno venduto e che devo pure finire di pagare.
E Ilde non sa neanche cucinare. Leggi il resto dell’articolo

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Filed under Generale, Scritture Tagged with buddista, calcestruzzi, centocelle, crisi mistiche, cucinare, eolo, fabbrica, indù, indiani d'america, la mia religione, laura de marchi, libreria il mattone, monologo, operaia elda, operaio specializzato, rai3, scimmie, stefano vigilante, televisione, tintoria, toro seduto

I fuoriusciti

marzo 3, 2011 di scrittoriprecari 11 commenti

I fuoriusciti (Stilo Editrice, 2010)

di Michele Lupo

A un certo punto una mattina non mi sono più alzata dal letto. Non mi vedevo più che mi alzavo, se posso esprimermi così.

In Italia, si sa, i racconti sono un genere piuttosto bistrattato (e aggiungo purtroppo), tanto che se non fosse per internet rimarrebbero pressoché fuori da ogni riflessione letteraria. Nel nostro paese preferiamo puntare invece sui romanzi, preferibilmente se di esordienti, oppure scandalizzarci della poesia che non vende, ma dei racconti importa a pochi. Nessuno si preoccupa di dar loro dignità estetica o risalto mediatico, se non quando si tratta di lanciare qualche antologia tematica in cui inserire testi di autori già noti (se non al pubblico, almeno alla critica).

Eppure, i racconti sono da sempre una palestra di scrittura, forse il luogo più adatto a verificare la genesi di una lingua e di uno stile. Spesso, poi, rappresentano persino una sorta di esercizio spirituale: l’osservazione di una disciplina a cui difficilmente (soprattutto di questi tempi) ci sottomettiamo.

È questo il caso dei racconti di Michele Lupo, inanellati come tanti piccoli romanzi – i più cattivi direbbero romanzi abortiti, e invece io insisto sul fatto che qua siamo davanti alla prova lampante della dignità del genere: essi funzionano benissimo così, perché un’opera si fa abitare indifferentemente dal numero delle pagine che la compongono.

Le storie de I fuoriusciti disegnano infatti un affresco ben preciso, indicato fin dal titolo, per quanto conservino una loro autonomia. I personaggi che entrano in scena (termine appropriato, direi, vista la copertina con uno dei famosi bar di Hopper) sembrano infatti patire, ognuno per sé, di un proprio ingombro personale: fisico o mentale poco importa, purché si sentano sempre fuori luogo. Stanno appunto uscendo di scena, ma sono ancora sotto i riflettori: e nel salto dal palco, in quell’ultimo balzo, mettono l’ultimo residuo di peso che gli rimane – prima d’involarsi, per sempre.

La scrittura di Lupo – asciutta e complessa al tempo stesso – contribuisce a rafforzare nel lettore questa sensazione. Prendiamo l’ultimo racconto, il più bello a mio parere: in Congedo assistiamo all’atto finale di un percorso in cui la staffetta è passata di mano in mano (o per meglio dire di fallimento in fallimento), fino all’esaurimento di ogni possibilità: un esaurimento che passa per il rifiuto della comunicazione – la protagonista che getta il telefono, dentro il quale la voce di uno spasimante continua a insistere – e di conseguenza per una scrittura che sembra perdere ogni velleità descrittiva per farsi a tratti puro pensiero: un monologo interiore disturbato da stralci di conversazioni.

Alla fine, rimane l’autismo del soggetto, il suo richiudersi nella scrittura – gli ultimi versi di una poesia della protagonista (Oh, anche questa notte è colma d’echi la terra, e di grida).

Forse, allora, non è proprio un caso se il primo racconto inizia con il riferimento a un televisore (Tornando a casa, ci pensò un po’ su: si sarebbe seccato anche lui se qualcuno gli avesse spento il televisore sotto gli occhi), mentre l’ultimo mette in scena la distruzione di un suo omologo: una via d’uscita luddista che rende giustizia all’arte del racconto.

 

Simone Ghelli

Filed under Generale, Ghelli S., Letture Tagged with antologie, autismo, comunicazione, conversazioni, critica, distruzione, edward Hopper, esordienti, fallimento, fughe, internet, lingua, Michele Lupo, monologo, palco, poesia, raccolte, racconti, riflettori, romanzi, scena, stile, Stilo Editrice, televisione

Italia De Profundis

febbraio 19, 2010 di scrittoriprecari 11 commenti

“La mente è una malattia che disvela la salute”.

La mente di Giuseppe Genna è una palude che ribolle di vita, nell’acquitrinio melmoso dei sentimenti tutto il talento dello scrittore italiano erutta con scrupolosa potenza lasciando allibita qualsiasi capacità percettiva o critica.

Italia de profundis (Minimum fax, 2008)

di Giuseppe Genna

In Italia De Profundis non si entra nella nostra penisola, nelle sue problematiche sociali, o meglio, se viene fatto è marginalmente (per quanto il termine marginale possa essere adottato nel corpus letterario di questo sensazionale scrittore), in funzione del vero Profondo, di quello reale, costante, spiazzante. Quello dell’Uomo Giuseppe Genna.

In un tentacolare gioco di rincorse, di cuniculi lasciati senza via di scampo il romanzo annienta la sua stessa entità trasformandosi in un viscerale monologo dell’inconscio. Un monologo corale dove “la parola sta cadendo, l’immagine sta cadendo”, ma per far spazio a cosa? A chi? Al vissuto. Al vivere. Non alla vita.

In questo libro c’è la celebrazione del vivere, dell’annaspare tra le pieghe peccaminose, ostentate con magistrale autoreferenzialità, dell’esistere. Di quel quotidiano che trascende il respiro, che forse lo abbatte, ma che in realtà è il motore principale della nostra foga di andare avanti, conscia o inconscia che sia.

Scegliere e sbagliare sono le chiavi disegnate dalla mano del bambino Genna, capace di grandi scarabocchi o sottili ideogrammi stilistici, per una narrazione che sembra diventare un diario lascivo alla portata della voyeuristica fame degli italiani, dei lettori che altro non aspettano che poter puntare un dito e alzare un esclamazione vessatoria e imperativa. Masochismo? Forse. Provocazione? Indubbiamente forse. Fatto sta che tutta l’autocelebrazione dei propri anni, delle malattie, dei nomi sembra qualcosa di familiare, di soggiacente alla bocca immobile dei nostri oscuri segreti.

La morte, la carne morente del tessuto epidermico di un’anima che sa giocare con le proprie sofferenze esorcizzandole nel racconto, nello splendido vestito della parola pronunciata per lacerare la lingua secca degli occhi che leggono, si trasforma nel susseguirsi delle pagine fino a raggiungere un parossismo azzeratore di giudizio.

Ogni frase entra dentro il corpo che ascolta le lettere e le mette in fila, entra per non lasciare più posto a un raggio di luce fittizio, falso, ipocrita. C’è bisogno di luce nera, c’è bisogno di onestà non indottrinata ma inoculata lentamente ad ogni respiro, che rende il “De profundis” un luogo capace di diventare rifugio sicuro, patibolo di paure, muro per inutili scuse e letto su cui giacere con se stessi nel silenzio del cuore.

In tre righe? Odio e amore per un libro senza mezze misure.

Alex Pietrogiacomi

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