giugno 26, 2010
di scrittoriprecari
Molte cose erano diverse nella seconda metà degli anni Ottanta. Lo Stadio Olimpico era ancora splendido e scoperto. Montezemolo (Montezuma!) non ci aveva messo le mani, Italia ’90 era ancora una prospettiva e così sedevamo tranquilli sui gradoni numerati, col cuscinetto portato da casa (avevo e conservo ancora quello con l’effige sacra del divino Paulo Roberto da Xanxere). Da marzo in avanti in Tribuna Tevere si stava a torso nudo, con cappellino alla muratora, fatto piegando per bene due o tre fogli del Messaggero, del Corriere dello Sport-Stadio o dei giornali in distribuzione gratuita, prima dell’ingresso. Guardando al di là della Monte Mario, si vedeva lo zoccolo duro dei tifosi della madonnina di Monte Mario, sulla collina, tranquilli e portoghesi (ma non vedevano tutto il campo, eh no!). Io dovevo ancora superare le elementari. La vita non era molto difficile: la settimana passava tra scuola e palestra, Commodore 64 e qualche libro. Qualche volta papà tornava da lavoro per cena, se non era troppo nervoso era stupendo. Ma la domenica, finalmente, era tutto per me. Noi avevamo il nostro rito: niente week end, si sta insieme allo stadio. Eravamo, nel 1986, reduci dalla terribile delusione di Roma-Lecce.
Eriksson aveva appena intrapreso la sua terza (e ultima) stagione sulla panchina della Roma. Praticavamo una zona spettacolare ed efficace. C’erano parecchie giovani riserve, ragazzi romani e romanisti, che giuravamo potessero rinverdire i fasti di Rocca, Conti, Giannini. Diversi di loro avevano contribuito alla vittoria in Coppa Italia, dolce e amara consolazione post Roma-Lecce. Erano Settimio Lucci, libero, una carriera poi spesa tra Empoli e Piacenza. Lento ma pulito e ordinato. Paolo Mastrantonio, terzino sinistro esplosivo. Si ruppe una caviglia, cambiò piede e sparì presto dalla circolazione. Attilio Gregori, portiere di notte (quando si giocava la Coppa Italia), che in campionato credo rimase sempre vicino a Sven, fu poi ottimo mestierante per una dozzina d’anni altrove. C’era Tony Di Carlo, molto amato dalle tifose, protagonista d’una tripletta a Cremona. C’era Impallomeni, che oggi lavora per Sky. Era un’ala molto tecnica, Costacurta gli distrusse la carriera con un intervento dei suoi. C’era Paolo Baldieri, che allora sembrava una sorta di gemello astrale di Peppe Giannini. Grande promessa inespressa. Naturalmente, tra i titolari c’era il Principe, Peppe Giannini. C’era Bruno Conti, c’era Ciccio Desideri da Monteverde, che Ciarrapico avrebbe venduto per un piatto di lenticchie. Romani a parte, c’era un giovane attaccante che arrivava da Cesena, a inaugurare una mini-serie che avrebbe scritto un pezzettino di storia della Roma. Anni dopo i tifosi, altrove, l’avrebbero chiamato Condor, ma questa è un’altra storia.
Era giunto dunque a Roma, a infiammare le mie speranze di bambino e a sostituire il futuro Cobra, Sandro Tovalieri da Pomezia, un ragazzo alto e con l’aria un po’ svampita, protagonista di qualche buona stagione nelle serie inferiori. Si chiamava Massimo Agostini, e noi speravamo fosse una buona alternativa al Bomber di Crocefieschi, non solo una promessa.
Peraltro, da bambino, vedevo i giovani sempre come un riflesso di me. Ci speravo e sognavo facessero cose immense. Meglio se erano romani, ma questo Agostini poteva vantare un cognome famigliare. Da poco se n’era andato a finire la carriera altrove Agostino, capitan Dibba. Bastava cambiare una vocale e il coro, ‘sto ragazzo, ce l’aveva già. Volendo.
Ma la storia della Roma è piena di fallimenti e ombre. E Agostini era una di queste. Giocò la sua prima stagione in una Roma di Eriksson, l’ultima dicevo, allo sbando; stagione mediocre, sempre lontani dal vertice, e dire che c’erano Carlo Ancelotti e Conti e Boniek, Nela e Pruzzo, Tancredi e Giannini. Le prime volte che entrava in campo tutti ce lo studiavamo con interesse. Era alto e legnoso, non troppo veloce e non troppo tecnico. A metà stagione avevamo capito che era una pippa. Troppo tardi, mica si può tornare indietro.
Il pubblico in Tribuna Tevere è una casta a se stante. Non solo vede bene la partita – a differenza di quanto accade in Curva o in Distinti, il campo da lì riesci a inquadrarlo tutto, angolo per angolo, e non serve la fantasia – ma la vede da molti anni. Negli anni Ottanta, i vecchi soci vitalizi erano ancora in tanti, e sapevano sgamare un mezzo giocatore, un mestierante o una pippa in una manciata di partite. Furono loro, incazzati come bestie e sempre più amareggiati, a raccontarmi la verità su Agostini, quando ancora speravo che essendo giovane e promettente e strappato alla concorrenza dell’odiata Rubentus lui avrebbe giocato un ruolo importante, una bella stagione.
Mio padre mi aveva insegnato a non ripetere le parolacce, ma ce ne fu una in particolare che mi rimase impressa, era nuovissima e mi sembrava magica. Sciatica.
Il legnoso Agostini, in quella stagione anonima e mediocre, un giorno tentò un colpo che proprio non era nelle sue corde. Una rovesciata. Si stava sullo 0 a 1 o sull’1 a 1, qualcosa del genere. Tutte le frustrazioni della settimana i tifosi le riversavano sul campo. Una Roma mediocre è sempre terapeutica, in questo senso, ma questo l’avrei capito molti anni dopo.
Fu così che quando Agostini si voltò, si sospese in aria, imitò Parola e s’inventò quella sorta di bicicletta o di rovesciata su cross di Berggreen, prima ancora che colpisse il pallone qualcuno aveva già inteso. Vidi – con discreto spavento – il collo d’un vitalizio una fila sotto di noi diventare rosso, rosso fuoco, e una vena ingrossarsi a dismisura. S’alzò in piedi assieme al Condor, le mani a pala, e dai più oscuri recessi dello stomaco gridò qualcosa che somigliava a “a’ sciaticaaaaa”, assieme a un ricco l’anima de li mejo mortacci tua e de tutta Cesena. Agostini forse aveva percepito una forma di ostilità, forse aveva sentito qualcosa e s’era spaventato. Ciccò il pallone, che andò a spegnersi a bordo campo, ben lontano dalla porta e dal senso del gioco del calcio.
Probabilmente nessuno di noi avrà mai visto questa azione, all’epoca Novantesimo Minuto e la Domenica Sportiva mostravano solo le migliori azioni. Io ero là, ero un bambino felice perché potevo stare qualche ora assieme a mio papà e guardarmi la partita assieme a tutta la città, credevo ancora nel principio che un giovane promettente non poteva non spaccare il mondo. Capii allora, mentre Agostini crollava rovinosamente a terra, che i quotidiani sportivi scrivevano qualche bugia per illudere il pubblico e fomentare la campagna abbonamenti, in Estate.
Due anni dopo, dopo un’altra mediocre stagione sotto la guida d’un redivivo Barone Liedholm, Agostini tornò a Cesena, mestamente, avviando una seconda carriera che l’avrebbe portato a giocare dappertutto, sognando anche qualche gol. Nella Roma ne fece sei in due anni, come un buon terzino di spinta.
La causa – nessun giornale lo scrisse con chiarezza – era una mostruosa sciatica, misterioso male che apparve con chiarezza immonda a un vecchio vitalizio della Tevere, quando il Condor volava per rovesciare un pallone a bordo campo. Da quel giorno, scoprii che tra i mali dell’umanità c’era il mal di schiena. El Condor Pasa.
Gianfranco Franchi
Estratto da Monteverde (Castelvecchi, 2009)
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