Questi maledetti toscani

avantiveloceÈ|_2a+3aOK2Piano B edizioni inaugura la sua nuova collana di narrativa italiana Avantiveloce »| con Toscani maledetti, una raccolta di racconti curata dal giovane critico fiorentino Raoul Bruni. Toscani maledetti cerca di tracciare lo stato dell’arte del racconto in Toscana, da sempre una terra d’elezione di questa forma narrativa, dove con Boccaccio è nato il racconto occidentale moderno e dove, nel secolo scorso, esso ha raggiunto alcuni degli esiti più alti in ambito italiano (Papini, Tozzi, Palazzeschi, Pea, Tobino, per non fare che alcuni nomi). Leggi il resto dell’articolo

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Let. In. 13

[Diventa anche tu uno scrittore inesistente su Scrittori precari: invia i tuoi Let. In., seguendo queste istruzioni, a carlo.sperduti84@gmail.com. I migliori saranno inseriti nelle prossime puntate della rubrica]

Let. In.
Antologia di Letteratura Inesistente a cura di Carlo Sperduti
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REVISIONISMO

Su “Lettera al figlio” di Hermann Kafka

(Applausi)

Eeee… Ed eccoci qui di nuovo… Riprende, dopo il consueto spot dell’Acippe, sponsor nostro e della manifestazione, la diretta radiofonica di Fahrenint dall’oratorio del palazzo vecchio di Pordenone scalo, dove stiamo seguendo le “Ferie del Libro”, da noi stessi sostenute, promosse, ideate, sostenute e quindi seguite nel loro svolgimento in questi giorni. Abbiamo con noi Manolo Scolta, critico e direttore di Orizzontali… Benvenuto, intanto.

Benvenuti anche a voi, agli ascoltatori e al pubblico delle Ferie.

In occasione dell’anniversario della morte di Franz Kafka la nostra rete sta dedicando ampio spazio, all’interno di ogni suo programma, al ricordo di uno dei più importanti scrittori del ’900. Segnaliamo, ad esempio Leggi il resto dell’articolo

Theresa Green

ascolta: http://www.youtube.com/watch?v=VI4L_wnOiiw

 

Il mondo la riaccolse in un istante.
Come ognuna delle altre volte fu come riemergere dal buio, come se la luce si riaccendesse improvvisa. Fu risvegliarsi senza tempi intermedi, rinunciando all’ultima carezza del torpore e all’eredità dei sogni che resta sospesa prima di essere fissata nella memoria o dilapidata in pochi istanti.
Si scoprì vestita di abiti sconosciuti ma che aderivano perfettamente al suo corpo stanco e senza nome. Ci volle poco perché affiorassero e le fossero chiari la causalità delle sue azioni, i desideri, i ricordi, ma non la abbandonò la sensazione spaventevole che i suoi movimenti e quelli stessi del mondo tutto non rispondessero al destino o ad un piano ineludibile e alto, quanto ad una specie di arbitrio, ad una volontà imperfetta eppure meticolosa, mossa dalla speculazione e senza un senso di responsabilità. Leggi il resto dell’articolo

Scomparsa *

Le quattro del mattino. Sorseggio una camomilla così che passino questi dolori, mi distendo nuovamente sul letto, bevo, sudo, penso: cos’è stato? Continuo a fumare, non ci penso: nei fogli per terra riconosco tutte le cancellature, impronte che mi lascio dietro. Bussano alla porta e sono scalzo, coi piedi sudati, che abbasso la maniglia: «Chi è?»
«Decimo, sono Giovanni. Hai visto Anita? Non è ancora tornata.»
Mi viene freddo quando vedo Giovanni Santa Cruz sull’uscio di casa mia, le parole non so nemmeno come escono, ma escono: «Non l’ho vista, mi spiace.» Anita Santa Cruz è sparita e il responsabile potrei essere io, il mostro su cui puntare il dito, quello che ha abboccato alle lusinghe di una quindicenne.
«Buonanotte.»
«Buonanotte.»
Chiudo la porta e faccio ritorno nella mia stanza. Anita Santa Cruz è sparita e il responsabile sono io; quello sguardo e quelle mani che indugiavano sul mio corpo, quella bocca, la lingua, l’alito alla mela, i capelli e il mare piatto davanti a noi – il fuoco era acceso? Ricatto e colpa, urla e mani – le mie – che si stringono attorno al suo collo, in macchina, nel bagagliaio, sulle strade che salgono fino a Monte di Chiesa, la notte che scende, una sepoltura di fortuna e una doccia che si porta via tutto. Ancora un conato di vomito e di nuovo in bagno, il giallo dei succhi gastrici che scivolano sul bianco del water e le contrazioni dello stomaco mi piegano sui ginocchi. Penso che dovrei guardarmi dall’alto, allontanarmi per vedere la fine. Tutto muore quando è scritto; la parola nasce quando è scritta e muore subito dopo, quando la penna si alza dal foglio. Leggi il resto dell’articolo

Il pentimento

È giusto che Faust vada all’Inferno? Per Goethe no, per Spies sì (di Mann e di tutti gli altri ce ne fottiamo allegramente). Probabilmente, per Goethe, Faust non merita del tutto l’Inferno perché vive nel Romanticismo (se non altro la fine delle opere è di quel periodo) e perché in Faust, essenzialmente, vede se stesso. Ha, dunque, tutto un altro approccio rispetto a Spies nei confronti di Faust. Lo stampatore Johann Spies, invece, quando racconta del pervertimento di Faust, è molto meno clemente.

Ma chi era Faust? Parlare di Faust è come parlare di più uomini insieme. È come parlare di Don Giovanni, immortale, e di Casanova, mortale. È come parlare dei bagordi di Mozart e delle infinite avventure di De Sade. Faust inganna la vita e la morte. Si ciba con avidità della vita pur essendo per “tre quarti” morto.

Faust è un mostro, nel senso etimologico delle parole. È monstrum perché la sua genialità lo mette in mostra coi suoi contemporanei, ma lo è pure perché fra i suoi contemporanei si distingue per i benefici che trae dal patto col diavolo: Faust cerca, nei suoi studi, la verità su ciò che lo circonda ed è proprio per questa passione che vende al diavolo la propria anima. È un interessante incrocio fra l’ateismo intellettuale (ateismo indotto dall’intelletto, ateismo nel senso di “ripudio” delle divinità) dell’Illuminismo e la scientificizzazione della magia, da lui trasformata in metodo di conoscenza, che è tipica del misticismo dello Sturm und Drung ottocentesco. Faust, oltre che per le ragioni già esposte, rappresenta un paradosso anche per le componenti che dimostra di avere. Oltre a essere Illuminista e Romantico, è anche per buona parte epicureo (dimostra di credere alla morte nella sua totalità e al rimedio “ateo” da porre all’infelicità umana); per il suo anelito di unicità, che potrebbe sembrare vero e proprio egoismo, è assimilabile a Stirner, che come Faust pone al primo posto (prima ancora dell’anima) l’uomo; per il suo desiderio di sapienza cade nella iniquità e si lega al demonio, diventa un mostro anche in questa eccezione e preferisce la verità alla giustizia (come Carneade traccia un solco fra verità e giustizia); precorre Frankenstein utilizzando la propria scienza per sottomettere le leggi della natura ai propri progetti; conosce la teologia e, malgrado questo, commette l’eresia (similarmente a Lutero: interessante sapere che Spies era luterano osservante e praticante); Faust è pure foscoliano per la sua incapacità di fermarsi nei propri confini; e, infine, Faust, il monstrum che si mostra, e dunque diviene verità rivelata, rappresenta l’epifania dell’intelletto che comprende la necessità di vivere pienamente l’esistenza in quanto successione di momenti circoscritti nel tempo ed esterni unicamente nello spazio (fenomenici e non noumenici).

E questo dato ci porta a un più profondo grado di comprensione del personaggio di Faust. Egli, astraendosi dalla propria condizione di “creatura letteraria”, fa letture proprie non riportate nelle storie che lo riguardano. Legge Amenemope e interiorizza i suoi “ammaestramenti”, specialmente quello sull’uomo prudente che è come un albero rigoglioso che fruttifica e cresce nel giardino, ma che poi muore nel giardino. Faust preferisce non fruttificare e mettere al bando la prudenza pur di non morire “nel giardino”. Preferisce fare come il sacerdote piromane Erostrato, che per non essere dimenticato appiccò il fuoco al Partenone nel 356. E ancora oggi il suo nome significa piromane e lo ricordiamo, mentre pochissimi sanno che fu Chersifrone a edificarlo quasi del tutto in onore di Artemide su ordine di Alessandro Magno. Faust preferisce essere ricordato nell’infamia che non essere ricordato (Erostrato significa anche infamia).

E alla fine, Faust conosce – come ogni intellettuale – la vanità delle convenzioni. Ha letto Freud e sa che «Il numero degli uomini che accettano la civiltà da ipocriti è infinitamente superiore a quello degli uomini veramente civili», come il viennese scrive nel suo saggio sulla guerra. Ma lui non è uno di questi ipocriti. Solgenitzin, in Arcipelago Gulag, retoricamente si chiedeva: «il nostro mondo non è forse una cella di morituri?». Già lo avevano assodato gli stoici questo. Faust sa che è così. E sa che «L’astronomia è nata dalla superstizione; l’eloquenza dall’ambizione, dall’odio, dalla cortigianeria, dalla menzogna; la geometria dall’avarizia, la fisica da una vana curiosità; tutte e la morale stessa, dall’orgoglio umano» perché conosce i Discorsi di Rousseau.

Per Faust la vita è questo. Solo dolore e possibilità di conoscenza. E, dunque, ritiene sia meglio mitigare il dolore della morte coi libri. Ma, ora ci domandiamo, perché, alla fine, malgrado tutto, Faust (in Goethe) si pente? Perché questo personaggio, che è troppo autonomo e intelligente per essere manovrato da Goethe, decide d’invocare Dio e di pentirsi? Cosa gli fa cambiare idea? Per capirlo ci sarà utile un film: Totò al Giro d’Italia. Il diavolo, che in cambio dell’anima gli promette la vittoria al Giro d’Italia, dopo che Totò firma col sangue il contratto, specifica che gli toglierà l’anima – e quindi lo farà morire – non appena sarà finito il Giro d’Italia, per evitare pentimenti estemporanei alla Faust in punto di morte, dopo aver largamente usufruito del patto durante la vita. Totò, allora, preferisce perdere e non morire. Non gli interessa dell’anima: lui, semplicemente, non vuol morire subito dopo aver vinto il Giro. Magari, se fosse vissuto altri 50 anni, avrebbe accettato, ma l’idea di avere le ore contate gli fa fare subito marcia indietro.

Il punto in comune con Faust è evidente: al sopraggiungere della morte, entrambi preferiscono voltare le spalle al diavolo. Perché?

Perché in vita lo accettano e in morte no?

Paura della dannazione eterna, verrebbe da rispondere d’istinto. Eppure, se ci si pensa meglio, c’è anche un altro motivo che sembra perfettamente plausibile.

E se invece di considerare la faccenda dal punto di vista del tempo, la vedessimo dal punto di vista dello spazio?

Dando retta a Dio non ci si gode la vita, mentre col Diavolo non ci si gode l’Aldilà. Allora è bene fare come ha fatto il Faust di Goethe. Bisogna rassegnarsi all’idea che la vita è del Diavolo e la morte di Dio.

 

Antonio Romano