croccantissima

croccantissima (autoproduzione, 2011)

di simone rossi

«(…) la semplicità è la qualità più difficile da ottenere, less is more,
ci vuole più tempo a scrivere un libro corto che un libro lungo.»
(p. 52)

Simone Rossi continua sulla strada dell’autoproduzione: su croccantissima (leggi l’estratto pubblicato su SP la scorsa settimana) c’è scritto che «questo libro non ha una casa editrice» e che «puoi ordinarlo a silkeyfoot@gmail.com».
Me lo immagino con i racconti in tasca – lo so, non è difficile immaginarlo visto che lo conosco – che li tira fuori e li legge come se fossero canzoni – anche se in fondo al libro dice che lui non legge, ma vi assicuro che la chitarra la suona. In queste storie – ma alla fine è una sola, e si capisce che ci sono vari fili tirati tra una storia e l’altra, anche se per vederli ci vuole orecchio – in queste storie, dicevo, si sente che c’è la musica, e il ritmo, le strofe e ritornelli, e i testi delle canzoni fioriscono un po’ ovunque – e poi nel mezzo capita anche la storia di questo cantante, questo Elliot Smith che intervistarlo «è come lanciare una palla a un cane», perché «invece di scodinzolare e correre a prenderla rimane lì piantato e ti guarda un po’ imbambolato». Leggi il resto dell’articolo

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IL RITORNO DAL VIVO DEGLI SCRITTORI PRECARI

Rosso Floyd

Rosso Floyd (Einaudi, 2010)

di Michele Mari

 

Tutto comincia con due siamesi avvinghiati per l’eternità: Pink Anderson e Floyd Council, due musicisti blues. Sono loro a fornire lo spunto per il nome dei Pink Floyd, la rock band britannica probabilmente più famosa nel mondo.

Michele Mari ha strutturato il suo romanzo quasi come una sorta di seduta di psicanalisi globale: 30 confessioni, 53 testimonianze, 27 lamentazioni di cui 11 oltremondane, 6 interrogazioni, 3 esortazioni, 15 referti, una rivelazione e una contemplazione. Si tratta di una vera e prop ria metanarrazione in cui amici, parenti, rock star più o meno famose (si pensi a David Bowie ed Eric Clapton), registi (Michelangelo Antonioni, Stanley Kubrick, Alan Parker), scrittori, giornalisti, fan, raccontano la loro verità, discutono, si confessano, mostrano il loro punto di vista. Tutti impegnati a ragionare del grande assente, di colui che – come il pifferaio magico – è riuscito a tenerli sempre tutti legati a sé nonostante il suo non esserci, il non mostrarsi più sulle scene, il suo essersi rifugiato nella sua personale dimensione: Syd Barret.

Prima affiancato sulle scene da David Gilmour, poi – probabilmente a causa di un abuso di LSD – sostituito, Syd è il grande assente, è il collante che – seppure attraverso il rimpianto – continua a legare la band indissolubilmente. È Barret ad essere la vera fonte d’ispirazione dei Pink Floyd. Barret che li ha fatti conoscere al mondo con The Piper at the Gates of Down e che, dopo aver brillato, si è eclissato. Lui brilla ancora in Shine on e in Wish you were here, c’è sempre lui nel battito di Time, nelle liriche e nella mente di Gilmour che tenta di sostituirlo. È sua la voce che accompagna i pensieri, i sogni, le ispirazioni di Waters e Mason.

Syd Barret è l’eterno ragazzo che sogna con gli occhi rivolti al cielo e che non appartiene a questo mondo, l’anima bella e incontaminata, l’uomo che ha segnato un’epoca ed è scomparso, l’incantatore, il pifferaio magico, il misantropo che si è relegato nella sua Cambridge perché inadatto a vivere il suo tempo, l’amico ideale, colui con cui comporre musica e dialogare, fonte di ispirazione.

Il romanzo non è altro che una caleidoscopica ricostruzione di ciò che è stato Syd Barret. È un intenso fluire di emozioni, è il rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato, è il ricordo di un uomo che – nonostante ogni sua debolezza e fragilità – ha cambiato per sempre il mondo della musica.

Serena Adesso

Resti

Il diavolo telefonò alle tre e diciassette del mattino,

ma non avevo niente da dirgli,

così riattaccai.

Fuori pioveva, come da contratto.

Travestita di buio, nella camera da letto,

la mia ragazza urla “NO!”, nel sonno.

È spaventata, ma non si sveglia.

Fuori pioveva, come da contratto.

E nessun nano canterino a tenderci la mano,

né principi esiliati a farci compagnia.

Nessuno sguattero di stato, scrivani abbronzati, casalinghe appagate, risparmiatori fidelizzati,

nessun cerchio tracciato nella polvere, amorevolmente costruito intorno a noi,

a proteggerci dal terrore di una scelta previdenziale fatta male.

Niente batteri nascosti nel cesso, né merendine tumorali energizzanti in offerta.

Nessuna frana e nessun collasso sistemico dell’economia mondiale.

Niente terremoti, niente emergenze, niente collette para statali a fin di male.

Niente scuola, niente informazione, niente lavoro. Niente soldi.

Niente musica.

Niente sigarette.

Niente vino.

Niente sorrisi felici macchiati di fluoro.

A parte tutto:

niente.

Fuori pioveva, come da contratto.

Così niente,

a parte la merda di cane sui marciapiedi,

le scuse da inventarsi,

le ascelle da lavare,

i peperoni muffiti da buttare,

le cicche da riutilizzare,

le parole da cercare,

il cesso da lavare,

il lavoro da cambiare,

i conti da pagare,

il gas da respirare,

la fortuna da grattare,

il pusher da chiamare,

la macchina da aggiustare,

e una intera vita da spiegare.

Il diavolo telefonò alle tre e diciassette del mattino,

ma non avevo niente da dirgli,

così riattaccai.

Ma adesso,

dopo un paio di litri di caffè arabico,

pochi grammi d’erba ben dosata,

e qualche boccia di nero d’ Avola a temperatura ambiente,

adesso spero che il diavolo richiami.

E quando lo farà dirò semplicemente:

hai preso tu il mio accendino?

Perché è questo quello che resta alla mia generazione.

Gianni Cusumano

Marzo

La mattina mi alzo che è ancora notte, ho messo la sveglia sul cellulare, una musica che ho registrato al mio paese quando sono tornato l’anno scorso. E’ una musica molto bella e veloce che mi fa svegliare pensando che sto duemila chilometri più ad est e poi subito sopra, come se tra me e casa mia ci fosse solo un lunghissimo corridoio.

Dove abito adesso non ho il corridoio: per entrare in una stanza devi passare per un’altra stanza e così via. Anche per andare nella cucina devi passare prima per il cesso e per andare al cesso devi passare per la stanza di Tonja.

Tonja esce anche lei presto di mattina, Tonja è arrivata da due mesi e i primi tempi non aveva capito dell’organizzazione di casa nostra, era uscita e aveva chiuso la stanza a chiave e io e Vladi siamo rimasti nella stanza di fondo e non potevamo uscire, né mangiare, né bere e manco andare al cesso. Vladi doveva far pipì, allora si è affacciato al balcone e ha controllato che non ci fosse nessuno nel vicolo dove stanno le altalene e ha pisciato attaccato alla pianta di bamboo. L’ha fatto con una certa naturalezza, pareva stesse  valutando le possibilità di ripresa della pianta, che la stesse innaffiando che sicuramente ne aveva bisogno, era tutta gialla e raggrinzita nello stelo come il collo di una vecchia, e poi comunque ero contento che pisciasse sopra le altalene, speravo anche che qualche goccia della sua urina finisse in capa ai bambini che giocano a pallone e non ci fanno dormire quando rientriamo il pomeriggio.

Quando Tonja è tornata le abbiamo spiegato a voce forte che non doveva più permettersi e ci aspettavamo che lei piangesse, ci aspettavamo che lei si chiudesse in camera, ci aspettavamo che lei ci mandasse a fanculo ma lei ci ha risposto aprendo le mani e mostrando la chiave come fosse una caramella o un gioco di quelli che fai da bambino. Ci ha detto che a questo punto ce la restituiva, che tanto non sentiva nemmeno di poterla chiamare con l’aggettivo possessivo la stanza dove dormiva, che si vedeva che era una sala da pranzo, ci stavano i piatti appesi vicino alle mura.

Sui piatti appesi vicino alle mura ci sono disegnati pezzi del paese in cui siamo adesso, tutti scheggiati dalle lame dei coltelli, e mi sembra una cosa molto significativa: noi davvero di questo posto ci mangiamo, nelle campagne che ci stanno dipinte noi raccogliamo i broccoli e la rucola sotto a certi capannoni. Il lavoro che faccio io si chiama lavorare dentro ai frigoriferi. L’ho tradotto nella mia lingua per spiegarlo a mia madre quando ho chiamato la settimana scorsa, l’ho tradotto parola per parola e mia madre deve avermi immaginato con un camice bianco tipo ingegnere, deve aver pensato che adesso possiedo i segreti della refrigerazione, che ho gli occhialini leggeri o qualche mascherina, che ho i capelli tagliati a spazzola e io gliel’ho lasciato pensare, non c’era alcun bisogno di dirle che di chimico là dove sto io sono solo pesticidi e freddo.

Mi ha detto il padrone che ad aprile faremo le fragole, forse anche prima di aprile se il tempo si mantiene buono. La gente è solo pigra, ma mica è scema, crede alle fragole solo quando il sole dà conferma, dice. Io non ci crederei comunque ma al padrone non l’ho detto, lui mi guardava e ripeteva fragole come se fosse qualcosa che io non avevo mai sentito o mai visto o mai mangiato.

Tonja fa un altro lavoro che non ho capito bene. Certe volte deve solo attraversare il vico e salire due piani. Quando torno da lavoro riesco anche a vederla, se mi alzo sulle punte arrivato all’ultimo scalino delle scale. Vedo sempre che non fa niente, sta seduta vicino al tavolo e davanti a lei sta un vecchio. Il vecchio ha tutti i capelli bianchi, lunghi dietro le orecchie, e non dice niente. Sentono insieme una radio in cui si parla solo e non ci sono mai canzoni; a parlare è una donna, lo fa con un tono monocorde che a me farebbe dormire. Anche Tonja e il vecchio sembrano dormire. Per questo motivo non farei mai il suo lavoro, perchè quando lei torna a casa sembra sempre più stanca di me anche se io ho alzato venti chili di frutta e verdura e c’ho le mani rosse dal gelo e lei è stata seduta davanti ad una tavola. Poi mi metto sul letto, sento la schiena che mi fa male troppo che non riesco manco a girarmi e allora vorrei andare nella stanza di Tonja e chiederle di fare cambio.

Anche a lavoro da me si sente la radio e molta musica, ma è una lingua che non conosco, non ha niente a che fare con l’italiano che so io, non somiglia alle canzoni che sentivo da bambino. E’ una conversazione veloce, che mi esclude, che mi fa il vuoto intorno, le parole sono come olio nell’acqua della mia grammatica base. Pagherei per sentire una voce che conosco, a lavoro. L’ho detto a Vladi e Vladi mi ha detto che è un grosso sbaglio e che è questa la cosa a cui bisogna fare più attenzione: quando sei tanto lontano da casa e senti parlare la tua lingua gioisci, senza chiederti se chi ha parlato è un amico o un nemico. Io faccio sì con la testa, ma penso che Vladi sia un po’ stronzo, o anche scemo. O solo infelice. Io, se dovessi sentir parlare il dialetto di me bambino, non potrei fare a meno di voltarmi e sorridere.

Vladi ha questo modo di fare simmetrico puntuale razionale che si estende alle pieghe dei suoi pantaloni, alte un paio di centimetri sulle caviglie. Appena arrivati qui ci hanno messi insieme e allora venne vicino a parlarmi, mi disse che adesso dovevamo fare un patto. Voleva sapere di potersi fidare di me e me lo chiese proprio, con parole semplici e finite. Era un discorso preparato ma sentito, un discorso che uno può sentir poche volte nella vita, se è fortunato. Perchè non accade spesso che le persone vengano a chiederti se sei d’accordo e cosa ne pensi di una situazione che non si è ancora verificata. Vladi invece venne a parteciparmi delle sue impressioni su di me e delle sue intenzioni circa il rapporto che avremmo dovuto avere. La cosa mi lasciò piuttosto stranito ma apprezzai che non avesse giocato d’astuzia come fanno tutti, che ti girano intorno e lasciano che il tempo faccia il resto che, come dice il padrone, la gente è solo pigra, ma mica è scema. Non si trattava di bisogno di sicurezza, come avevo pensato all’inizio, o meglio, non solo. Vladi mi spiegò tutto la notte appresso. Mi spiegò che la sua era anche una dichiarazione. Che aveva bisogno di tener fede ad un impegno, di non lasciarsi andare adesso che stava lontano da casa, anche di ricordarsi i verbi base della sua lingua che è anche la mia tranne che per certe inflessioni date dai molti chilometri di distanza tra le località dove siamo nati, dove siamo cresciuti, correndo dietro alle galline nel cortile.

L’impegno non era assai, si trattava di parlare e basta. Anche di abbracciarlo, ma poche volte, siamo due ragazzi sì, ma siamo pur sempre uomini. Tonja non ha messo in discussione il nostro rapporto: Vladi continua a parlarmi anche dopo esser passato dalla sua camera. Io un poco ci soffro, sento che ci sono parti del suo affetto che non posso conoscere; a me non è dato capire le sue mani se non nelle strette energiche che fa certe mattine che sono bloccato con la schiena. A me non è dato sapere se è dolce con le donne o se non lo è. A me non è dato quasi nulla, penso mentre lavoro e lavo i broccoli. Poi la sera lui si siede ai piedi del mio letto e mi parla di tutta una serie di cose a cui devo stare attento, mi dice quello che ha visto la mattina, quello che ha sognato il pomeriggio, ed io credo mi basti, come se non ci fosse alcuna altra possibilità a parte quella di starlo a sentire nel buio. Di questa possibilità non avverto le limitazioni, è una costante onnicomprensiva: la lingua sua è tutt’uno con il nero e con il resto dei colori che quando spengo la luce non si vedono più.

La mattina mi alzo che è ancora notte. Il cellulare mio suona forte e la signora che abita affianco a noi bussa contro il muro, insieme a me si sveglia anche lei e un po’ mi dispiace, ci penso per le due ore che vengono appresso, penso a lei come fosse mia madre, stanca e con le gambe pesanti e io che l’ho svegliata alle quattro come se sapere di farla saltare nel letto mi levasse qualche parte di fatica. Mi propongo sempre di abbassare la suoneria della sveglia o anche di cambiarla, oppure di concentrarmi forte in modo da potermi svegliare da solo senza il bisogno di un allarme, ma la sera sono troppo stanco per ricordarmelo.

Dal balcone il pomeriggio vedo una ragazza: sta seduta al computer o vicino ai libri e penso che deve averci una vita molto semplice che vorrei fare cambio. Quando i bambini giocano a pallone lei si alza e grida forte in italiano che le loro madri sono delle cesse. La prima volta che l’ho sentita io volevo sorridere e dire che ero d’accordo, allora ho alzato la persiana ma lei se ne è accorta ed ha chiuso le tende; io l’ho capito e non alzo più la persiana, la spio dai buchetti pieni di polvere, ci ho passato un fazzoletto scottex per vederla meglio. La ragazza ogni tanto piange. Sta là, ferma, con la testa su certi libri alti,  pare andare tutto bene, parla pure al telefono, e poi piange. Allora io non la invidio più e vorrei fare qualche cosa, darle pure una carezza in testa come quelle che Vladi fa a Tonja, fatta senza capire il perchè in lingua parlata, con un significato che sta tutto sotto le unghie. I miei polpastrelli sono ruvidi, tagliati nel mezzo come se avessi suonato la chitarra e invece io ho colto i broccoli. I broccoli quando escono a marzo hanno steli affilati che bucano la terra fredda come fossero coltelli.  Allora vorrei poterle dire qualche cosa, magari le dico le cose che Vladi dice a me la sera, gli sbagli e le cose a cui bisogna fare attenzione, ma non sono sicuro nemmeno della traduzione in italiano.

Magari le porto le fragole, però quando escono quelle buone, magari anche lei è come il resto della gente, pigra sì, ma mica scema.

Raffaella R. Ferré

Femmina Fumante

FEMMINA FUMANTE

C’è un proverbio delle mie parti che dice: “Le sigarette sul tavolo e le ragazze a letto non si chiedono: si prendono”. Tutte le ragazze delle mie parti conoscono questo proverbio, dice Lubitsch: mi venga un colpo se questa sera non ti facciamo bagnare il biscottino.

E’ un proverbio squallido, Lubitsch. E’ maschilista, machista, sessista, sembra la pubblicità di un deodorante spray degli anni ‘80. Ma le vostre donne non si stancano a essere trattate come sigarette?

Cugino, la femmina vuole essere corteggiata, sì, come tutte, portala fuori, paga da bere, guida la macchina. I fiori: anche no. Tenere aperta la porta della gelateria: anche sì. Però, ecco, a letto puoi fare a meno di essere gentile.

A loro piace così?

A loro piace così.

Che filosofia triviale” (cit.). Sembra quella canzone, Teorema, “prendi una donna/trattala male…”.

Non esistono leggi in amore, cugino, e io non lo so come siano le donne italiane, belle sono belle, però chissà, chissà se posso prendere una sigaretta senza chiederla, con le donne italiane.

Ci vuole confidenza, cugino. Devi solo capire se puoi permetterti certe mosse.

Confidenza, sì. Però ci vuole tempo, tempo per prendersi le misure: una, due, tre volte. Alla quarta, forseforse, puoi smettere di chiedere le sigarette.

A volte mi viene da essere maleducato subito, cugino Lubitsch. Stamattina aspettavo il treno per tornare in città, non avevo libri da leggere, nemmeno la musica, nemmeno i giornali gratis. Un quarto d’ora da aspettare così è lunghino. Allora mi giro a destra e mi innamoro, perché c’è una ragazza. E’ bella nella bocca e nel collo, ha i capelli neri e un orecchino solo, a sinistra, nella cartilagine dura. O forse ce l’ha anche dall’altra parte, che ne so: le vedo solo mezza faccia e mi basta, diobono se mi basta, e magari è la noia però m’innamoro in un quarto d’ora, magari se avessi le cuffie mi farei i fatti miei, ma le cuffie ce le ha lei, e io la guardo e distolgo lo sguardo e lei accende l’iPod e mi guarda e distoglie lo sguardo e inizia a muovere la testa, cugino, ti giuro che avevo il respiro corto, e va a finire che…

Che?

Niente: ci guardiamo a turno, e mai negli occhi. Però io inizio a ridere, anzi: a sorridere. E anche lei. Anzi, no, lei no: lei fuma ed è bella quando fuma, e io non posso farci niente se mi piacciono le fumatrici, a me che non fumo, mi piacciono, non mi dà fastidio l’odore, forse mia madre dovrebbe saperlo, è un motivo stupido per innamorarsi di una ragazza, lo so, e poi fumare in gravidanza fa male, ma se vuoi un figlio lo sai, smetti. Ricomincerai: avrai quarant’anni e un figlio adolescente, e tuo figlio ti racconterà i suoi casini molto più volentieri se potrete fumare una sigaretta insieme, in cucina, con il caffè, come nei film.

Poi è arrivato il treno.

Poi arriva il treno, sì: io scendo dal muretto liscio e mi metto la giacca e lo zaino. Lei va a buttare la sigaretta in un bidone. Io le guardo il culo. Torna, il treno ormai è fermo, i nostri occhi si incontrano per la prima volta: io faccio lo stesso sorriso che sto facendo da dieci minuti, e lei mi guarda, finalmente mi guarda, ci guardiamo: lei, dal basso in alto, iridi crepate di una che ha voglia di Pal Mall Blu alle dieci del mattino, chissà cosa racconti a tua madre in cucina, occhi verdi com’è verde la legna giovane, mannaggia a te, non potevi avere due occhi normali? Adesso mi tocca dirti qualcosa, chiederti che cosa stavi ascoltando, o forse potrei scroccarti una sigaretta, ma non fumo, e come faccio a sapere se posso fare a meno di essere gentile?

C’è un proverbio delle mie parti che dice: “Le risposte sono come il caffè: ci vuole tempo”.

Ma ci sono solo caffè e sigarette nei tuoi proverbi, Lubitsch? Ecco perché hai i denti gialli.

E insomma, alla fine, tu e la tipa del treno non vi siete detti niente?

No.

Bravo cugino: guardale e fatti venire una gran voglia e poi non prenderle mai, ci fai più bella figura.

E quando troverò l’amore, cugino Lubitsch?

E’ come il caffè, cugino: ci vuole tempo.

Simone Rossi

Condizioni d’uso – ibrido_xN

ARTISTA:

Ibrido_xN

COMPONENTI:

Germano “J” Tasselli: voci, campionatori, chitarre

Andrea Lucidi: basso, synth bass, chitarre acustiche

Carlo Schiaroli: batteria, campionatori

TITOLO DEL DISCO: Policarbonato trasparente

TRACKLIST:

1. Io non voto
2. L’odio
3. L’allergico
4. Tutta colpa della regina
5. Nel buio
6. Ibrido

CANZONE MIGLIORE: Nel buio

Tra emo-zioni ormai perse, emo-rragie di suoni plastificati, io voto gli Ibrido x_N.
Ogni atomo di questo EP risplende, inebria, fino a divenire un prezioso brivido, quello che sempre più raramente si impossessa delle mie viscere quando ascolto musica.

La rabbiosa ironia di Io non voto è il manifesto di chi si ritrova a doversi tristemente arrendere davanti alla “prostituzione” della politica italiana, di un paese che depone il suo stivale per incappucciarsi, rosso, ma solo di vergogna.

E’ inquietante constatare che band come gli Ibrido_xN debbano ancora lottare per organizzare serate nei locali romani, tra un “quanta gente portate?” ed un “vi va bene come rimborso una cena ed una consumazione?”.

Non molto tempo fa mi è stato fatto notare che anche nel mondo “underground” troppa gente suona per vivere e non vive per suonare: io ribatto dicendo che all’estero i musicisti vengono finanziati, aiutati, perchè l’arte è considerata un bene culturale, probabilmente il modo più genuino per elevare lo sviluppo della razza umana.

Ed io, ogni volta che ascolto Policarbonato trasparente, mi rendo conto che la bellezza risiede nella semplicità, nella frenesia delle passioni, nei dolci risvegli, quando rapiti, legati, drogati ed ubriachi, apriamo gli occhi ed una luce confortante si accuccia accanto a noi, cullandoci “Nel buio”.

SITO UFFICIALE: www.ibridoxn.com
MYSPACE: www.myspace.com/ibridoxn

Ilenia Volpe

La fine del viaggio

Il viaggio del gruppo è finito. E anche il mio seguirli, fisicamente e non, in questo tour.
Quando ci siamo lasciati a Milano, dove ci siamo poi ritrovati ad un tavolo per il compleanno della fotografa fantastica, io sono rimasto lombardo per vari giri e appuntamenti.
In uno di questi mi sono ritrovato in un hotel di lusso con Dita Von Teese e lo chef/guru Cracco. Il mio pensiero dove è andato!? Ai Precari: contattati immediatamente con sms per sapere dove erano e farci quattro risate sulle rispettive situazioni certamente dicotomiche.
Come è stato il tour? Bello e difficile. Per l’esperienza e per la gente che ci ha seguito, per il senso di comunione e per le risate.
Una cosa ho visto e vissuto, e ne parlavo con il mio più grande amico: alla gente, a volte, non gliene frega una cazzo di quello che gli accade attorno. Per loro basta avere la faccia sul proprio drink e parlare di quella dell’ufficio o di cosa ha detto il capo, mentre nella sala dove si trovano c’è musica, anima e sudore.  Le persone si stanno estraniando e la loro precarietà emotiva è la nostra forza, perché almeno noi cerchiamo di ricordare qualcosa, di essere qualcuno, di vivere quello che si scrive piuttosto che tenerselo nel cassetto.
Bello o brutto, lasciamolo dire a chi ci ascolta per davvero.
A quelli che hanno preso contatti, che hanno parlato con noi per confrontarsi e che ci hanno dato una pacca sulla spalla dicendo “Bel coraggio avete”.
Precariato coraggioso, è questo il nostro motto quello di Luca, Angelo, Gianluca e Simone. E la stima che ho è grande.
V’abbraccio a tutti. Ma tutti.

Alex Pietrogiacomi