La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 6

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Tutto ebbe a cominciare a Roma, come già si è accennato, ma l’inizio non fu affatto col botto. I soci fondatori, presenti al primo alcolico incontro, furon soltanto due, che poi sarebbero diventati (guardate voi come s’ingegna a volte il caso) il più giovane e il più vecchio dell’allegra compagine. Erano entrambi reduci da altri esperimenti maturati in rete, ma ormai vogliosi di sperimentare per strada il virtuale, che altrimenti sembrava loro di scrivere un po’ col fumo negli occhi. Questo almeno è quanto riportato da chi ancora li frequentava in tempi non sospetti, da coloro che negl’interrogatori parlano di altissimi ideali recitati a gran voce e di discorsi sui massimi sistemi che facevan perder di vista il dettaglio e confondevano le acque – questa a dire il vero è una massima che prendo a prestito da un semiologo toscano di chiara fama internazionale, nonché mio maestro, che mi ha sempre consigliato di procedere una pagina alla volta anziché spiccare il volo verso l’iperuranio*, laddove poi non ti segue più nessuno.

Questi due, poi, avevano stili completamente diversi, tanto da non capire cosa li accomunasse, se non la venerazione per Bacco, dio del vino, della vendemmia e dei vizi. Di questa passione ne scrivevano un po’ in tutte le salse, come di ogni romantico che si rispetti, che ha il culto dell’artista maledetto, detentore di ogni più sacrilega verità. La loro naturale inclinazione all’autodistruzione stride però non poco col compito che s’eran prefissati, e ancor più col primo fallimentare tentativo, che li vide comparire dinanzi a un pubblico inesistente o quasi; ma non per questo desistettero dal proceder oltre. Anzi, a onor del vero se ne aggiunse subito un altro alla triste accoppiata, che divenne così un terzetto armato anche di versi; sì, perché quest’ultimo era poeta e anche imbianchino, fautore d’una teoria che accomuna il metro alla pennellata, che va in un sol senso affinché non sgoccioli vernice su cui aver poi da ridire a servizio concluso. In tre c’era ancor meno da capire, ché era evidente il guazzabuglio in cui s’eran gettati, così come alle ortiche ebbero a buttare qualsiasi residua speranza di partorire un seppur confuso manifesto d’intenti.

Ecco dunque spiegato il trucco, ché in mancanza d’idee originali essi misero l’accento sull’impegno civile, questo astruso concetto che continua a infettare qualsivoglia intellettuale con un’idea del mondo diversa da quella comune. È questo un paradosso non da poco per chi si batta, almeno sulla carta, per la condivisione di qualsivoglia valore; quando invece il vero intento è di convincere gli altri della bontà dei propri principi, che si spaccian per migliori quanto più non attecchiscono nella maggioranza delle menti (e giù a dire che se non succede è colpa di questo e di quest’altro, e in principio soprattutto della televisione e di chi la detiene, come se ci fosse qualcuno a tenerci il dito pigiato sui tasti del telecomando). Insomma, gli è che l’idea di cambiare il mondo per mezzo della letteratura è roba già defunta e sepolta dalla polvere dei secoli, ma questi tre non se n’ebbero a dar pace, e a forza d’insistere ne assoldarono altri due con questi strani grilli a passeggio sulla testa.

Uno, anch’egli avvezzo al verso, si fece avanti col bagaglio dell’esperienza on the road (ennesimo luogo comune che incontreremo lungo la strada di questi apostoli del verbo), ché da anni girava l’Italia per gareggiare nei tornei di poesia, guadagnandosi la fama di eterno secondo (del primo non dirò, per non apparir fazioso). L’altro arrivò assai dopo, ed era anch’esso esperto in tornei, ma di quelli da vincersi con le mani (e non le dita, si noti bene), e di cui ho già parlato più sopra.

Quale sia il motivo per cui il numero di cinque sembrò loro sufficiente resta uno dei misteri di questa vicenda, ma, per quanto possa contare, il mio parere è che nell’utilitaria a gpl non ci fosse posto per niun’altro, e questo per adesso ci basti, a testimonianza del fatto che in certi ambienti si debba far di necessità virtù.

Simone Ghelli

*È questo il nome che dà Platone a quella zona al di là del cielo in cui risiederebbero le idee immutabili e perfette.


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Precari all’erta! – Me ne vado da quest’Italia…

Ecco che anche il Ghelli si mette a scrivere di vacanze estive e pettegolezzi annessi, penserete voi, allo stesso modo di tutti i tg nostrani, che soprattutto di questi tempi riempiono mezzo telegiornale di notizie utili solo a non parlare d’altro.

E invece vi sbagliate, perché voglio qui riprendere un’intervista rilasciata da Francesco Bianconi, cantante dei Baustelle, e che rilancia il tema dell’esilio volontario, già cantato nella nota Mamma Roma addio del poeta Remo Remotti.

Quanti di noi non c’avranno pensato almeno una volta a mandare a quel paese il bel paese, che di tanti sforzi sembra non curarsi affatto, che della cultura guarda solo il tornaconto economico e il lato spettacolare, che parla sempre dei soliti noti, che si tratti di cinema, musica o letteratura? Io ci ho pensato tante volte, e a volte ancora ci penso, ma ciò che puntualmente mi fotte è uno sorta di malsana testardaggine che m’impedisce di arrendermi all’idea che questo paese non lo si possa cambiare. A pensarla così c’è da ingoiare tanti bocconi amari, da farsi un fegato grosso come un cocomero insomma, ma non va per questo commesso l’errore di considerarsi dei martiri. In fondo, chi l’ha detto che le persone abbiano bisogno dell’arte, della cultura o del pensiero degli intellettuali per vivere felici e contenti? Spetta semmai agli artisti e agli intellettuali il compito di far sentire questa necessità, e l’unico modo per farlo è il duro lavoro, l’ostinazione di una vita, la voglia di votare il proprio sé all’idea utopistica di una comunità che possa cambiare anche attraverso il proprio fare.

Con questo non voglio dire che la scelta di andarsene via sia in sé più facile o più comoda, ma la trovo una scelta pericolosa per il futuro di chi ci succederà, perché un domani potrebbe sempre peggiorare anche il nuovo posto che avremo trovato, e poi tutti gli altri, finché non ve ne sarà più neanche uno. Quello che penso, e che ritrovo in qualche modo rappresentato dal progetto Scrittori Precari, è che oggi sia necessario più che mai ripensare i modi della partecipazione – a cominciare dalle possibilità che ci offre la rete – e, insieme a questi, i modi di sentirsi riconosciuti.

Io non mi riconosco in quest’Italia di nani e ballerine, di truffatori, di corrotti, di puttanieri, di razzisti, di analfabeti, ma proprio per questo non me ne voglio andare, anche se ci sono tanti posti migliori, oggi, dove poter vivere.

È una forma di rispetto verso chi ci ha preceduto che mi costringe a resistere, a non adeguarmi, ma se un giorno dovessi rendermi conto di parlare al vento, allora quello sarebbe il giorno in cui prenderei le mie cose e me ne andrei.

Oppure no, perché magari ci sarà da ascoltare il pensiero di chi è rimasto, che avrà senz’altro da dire cose più intelligenti del sottoscritto.

Ecco perché vi chiedo di non andarvene.

Simone Ghelli