Macchie *

Era l’anno quarto dell’epoca forzista. Il governo della Repubblica Federale, in uno sventolio di verdi tricolori, s’apprestava a perfezionare la Costituzione e a restituire il Parlamento alla sua (consultiva, e ininfluente) natura.

Quella mattina, il giovane Guido Orsini non riusciva a distogliere lo sguardo dallo specchio. C’era qualcosa nei suoi occhi – erano più bianchi ancora del solito, e d’un castano chiarissimo – che lo inquietava. “Santa voglia di vivere, e dolce venere di Rimmel”, borbottò, passando il dorso della mano sulle guance un paio di volte, per sentire quanto pizzicavano. S’avvicinava l’ora della prima colazione.

La grande casa di famiglia ospitava gli ultimi pezzi di un clan che un tempo aveva avuto diversa influenza e altro prestigio; Guido e sua sorella Benedetta erano il ritratto della decadenza dell’ultima generazione della vecchia borghesia intellettuale italiana. Fragili, stravaganti e non estranei ad una discreta (ma fertile) serie di vizi, ciondolavano postlauream, immalinconiti, inseguendo vaghe ambizioni artistiche e sdegnando con arroganza i lavori dell’epoca forzista: né interinali, né stagisti, né niente. Foglie morte distese su una generazione di sepolti vivi.

Guido, sbadigliando, s’accertò che il vecchio padre non fosse nei dintorni; mentre le domestiche preparavano il caffè e rassettavano la cucina, indagò con cura il fondo e i bordi della sua tazzina, temendo fosse sudicia. Che disgusto le posate o i bicchieri o le tazze mezze macchiate – sbreccate sì, è diverso, quella è vita e diversità – ma le macchie, cazzo, proprio no.

“Ada… Ada cara, perdonami. Queste macchioline non mi tornano…”.

“Non fa niente, Guido. Te la cambio subito”.

Versò il caffè in un’altra tazzina. Guido non poté ispezionarla, e rabbrividì mentre dava la prima sorsata. Chissà che non fosse rimasto del detersivo sul fondo. Rapida allucinazione olfattiva, quindi rumore di fondo – il nonno ha acceso la radio. Sigla del notiziario.

Benedetta, intanto, entra in cucina e s’annoda meglio la vestaglia.

“Buongiorno a tutti. Che dormita…”

Cenno del capo alla sorellastra, quindi tutta la mente sul notiziario.

“Il Premier sostiene che la disoccupazione sia ai suoi minimi storici. L’economia registra un nuovo miglioramento – ha ribadito – e chi lo nega è un disfattista e un traditore della patria”.

Guido trattenne un rutto a fatica. Per rispetto del Premier, rinviò ad un momento di intimità. Col Premier.

“Il Premier, oggi in visita agli imprenditori del nord-ovest, presenterà loro una nuova riforma del sistema occupazionale: proporrà loro la legge nota come ‘giusta riconoscenza’ – che prevede che il lavoratore paghi, per i primi 24 mesi, un adeguato dazio al suo datore, pur di poter aggiornare il suo curriculum”.

“Nonno, spegni quella cazzo di radio”.

“Hai dormito male?”

“No, che c’entra. Ho la faccia stanca, sono brutto stamattina. Mi innervosisce molto vedermi così allo specchio”.

La signora Ada sorrise laterale, intenerita; poi continuò a spazzare per terra, senza intervenire nei discorsi di famiglia. La buona vecchia servitù.

“Ah, capito… Hai litigato di nuovo con Floriana?”

“Floriana non la vedo più”.

“Ma va? C’è un’altra?” – in quel momento, abbassò il volume della radio.

“No, basta. Chiuso con le donne”.

“Cioè?”

“Cioè chiuso con le donne. Stufo. Chiuso con il lavoro. Chiuso con tutto. Ho deciso: voglio crepare in salone, tra i divani di pelle e le tende bianche. Guardando quel soffitto alto dieci metri, fin quando non lo buco”.

“Buona scelta. Un po’ di musica e una lettrice al tuo fianco, e…”.

“No, basta letteratura. Mi stucca”.

“Giornataccia, insomma. Succede. Vai al parco, no?”

“A mostrare l’uccello alle nutrie?”

“E vabbè. Oggi ti rode. Fa’ come cazzo ti pare. Dicevo per te. Magari facevi una cosa nuova”.

La signora Ada arrossì e si ritirò nelle camere da letto.

“Non me ne frega niente del parco. Pieno di vecchi e di filippine, a quest’ora. Nessuno di noi, e nessuno dei miei”.

“Fijo mio, nun te va mai bene gnente”.

Guido s’accese una sigaretta.

“Se vede che c’aveva ragione tu’ moje. Me dovevate mannà a scola dai tedeschi, così m’addrizzavano quann’era er momento”.

“Po’ esse… e io che tte devo di’?”.

Il nonno alzò daccapo il volume della radio.

Notiziario: “Il Presidente degli Stati Uniti d’America ha puntualizzato che i nuovi Stati-Canaglia – l’Uzbekistan, il Madagascar e la Siria – dovranno rinunciare immediatamente al loro arsenale nucleare, se non intendono fronteggiare la legittima risposta della comunità internazionale”.

“L’Uzbekistan ha il nucleare, nonno?”

“Come no. Razza bastarda, ‘sti uzbeki”.

Guido e il nonno sorrisero.

“Ada, prepara un altro caffè” – ordinò il vecchio.

Guido uscì in terrazza, e rimase a guardare il traffico fin quando non gli tornò sonno. Bastava contare le macchine, senza alzare gli occhi al cielo. Allora si distese su un divano, in salone, e lasciò scivolare le pantofole a terra; si accovacciò tra due cuscini, e prima d’addormentarsi pensò:

“Dov’è l’Uzbekistan?’”

Tutti i telegiornali ne avrebbero parlato, poche ore dopo. Non doveva preoccuparsi troppo. L’America aveva sempre ragione, l’Italia non aveva dubbi.

Noi italiani, che lavoratori – disse tra sé e sé, cedendo al sonno; un nuovo, timido sorriso increspò le sue guance. Che fatica.

Gianfranco Franchi

* Pubblicato in Disorder (Edizioni Il Foglio)

Gianfranco Franchi sarà ospite di Scrittori precari il 18 marzo 2010 alle ore 21 presso l’Associazione culturale Simposio, in via dei Latini 11/ang. via Ernici, a San Lorenzo (Roma).

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Il silenzio perfetto

«Tuo nonno aveva la patente ma non ha mai guidato» dice Vera, sedendosi in cucina.

«Si è sempre vergognato di ammetterlo, ma girava solo in taxi e in monopattino.»

«È per questo che ebbe quell’incidente sbattendo contro il cartellone pubblicitario del mobilificio Fichera?» le chiedo, perdendo improvvisamente interesse per la maschera purificante all’argilla che sto mescolando nel vaso finto Ming, regalo dello zio Aristide.

«No, quello fu perché si era messo in testa di provare lo skateboard. Ma non aveva capito come svoltare a destra. A sinistra sì, però.»

«Lasciamo perdere. Non capisco perché tu debba tirare fuori questi ricordi dolorosi proprio adesso, lo sai che mi sconvolgono e poi non riesco più a ricordare se lo smalto per unghie color prugna californiana si abbini meglio al risotto ai quattro formaggi o alla trapunta in vera piuma d’oca.»

«Sei una povera pazza» sbuffa lei, aggiustandosi i capelli con la punta di un ombrello «lo sanno tutti che lo smalto non si usa più: molto meglio l’Alka Seltzer.»

«Vallo a dire a Thomas Stearns Eliot.»

«E’ stato tuo professore?»

«No, però è lui che ha detto che aprile è il più crudele dei mesi.»

«Sai che scoperta. Il tuo parrucchiere è nato ad aprile.»

«Anche tu, se non sbaglio.»

«Può essere. L’importante è che tu non vada a dire in giro l’anno, comunque.»

«Quando tu mi parli di anniversari, Vera, mi viene sempre in mente un’altra citazione: Sei come una stucchevole torta di compleanno; una torta di cui tutti, però, hanno assaggiato almeno una fetta.»

«Sarebbe riferita a me?» domanda lei incuriosita.

«Ma noooo, alla moglie del portinaio» rispondo, spalmandomi la maschera sul viso e gettando il vaso dalla finestra.

«Quella donna orribile! È sempre vestita come se fosse appena uscita dal cassonetto della raccolta indifferenziata» esclama Vera.

«Il marito poi sembra Danny De Vito, però più grasso.»

«Se è per questo, il figlio somiglia a Pete Doherty, però più fatto» conclude lei.

Poi si sistema una teiera in testa e se ne va, non senza aver prima dato un po’ di acido muriatico alle piante rampicanti del terrazzo.

Nel dormiveglia mi resi conto che, a mia memoria, quella era la prima volta che sognavo mia madre. Probabilmente non era un caso che il sogno non avesse avuto alcun senso logico, pensai, mentre mi riassopivo.

Ilaria Mazzeo

Estratto dal romanzo Il silenzio perfetto (Intermezzi editore)

Precari all’erta! – Un dito di rosso

Visto che oggi è ferragosto ed è il compleanno di mio nonno Mariano, mi concedo una tregua dai miei soliti interventi e vi posto questo racconto a lui dedicato, che nel 2007 è arrivato finalista al Premio Letterario Castelfiorentino.  Magari potrà distrarvi per alcuni minuti da questa calura estiva, visto che si parla di paesaggi invernali e di vino rosso…

Un dito di rosso.

Mio nonno ne beve un dito ancora dopo il caffè, di rosso, come i suoi pensieri, pensieri ostinati di una vita, masticati con il pane, intinti con dita non tremanti, ma mica come l’ostia, che si scioglie in bocca senza sapore, no… un retrogusto amaro risale, di fumo incallito e di bestemmie davanti al televisore.

Capita che il vino prenda d’acido se la bottiglia sta troppo tempo aperta.

E così mio nonno ne mesce un bicchiere dopo l’altro, su e giù con il gomito proprio come quando correva con il camion per i colli, tra i tornanti, a caricare e scaricare frutta e verdura per un banco ai mercati, d’inverno con il ghiaccio che cedeva sotto i battistrada, d’estate con il volante che arroventava la pelle. E lo faceva praticamente con una gamba sola, perché l’altra se l’era mangiata l’alta tensione sopra un traliccio, e la ditta per cui lavorava gli passava una pensione che a fatica gli bastava per garze e pomate. Una faticaccia il rituale serale della fasciatura riscaldata al caminetto, pelle viva che non si cicatrizzava e piangeva pus!

Forse mio nonno è da quel momento lì che ha iniziato a bere vino del contadino, di quello che ti allega la bocca e sembra non voler scendere giù, proprio come la lingua che il suo compagno di lavoro gli srotolò fuori per non farlo strozzare. Un pezzo di legno lo ha tenuto in vita, ma non di pregiato aduso per botti, bensì un volgare stecco di ciliegio dal retrogusto fruttato. Ma per bere ogni giorno un litro di quello si deve aver visto la morte in faccia per davvero, e ci vuole coraggio a scriverne, poiché nell’ebbrezza poi la parola ci sfugge, si contorce, rigira nel palato e va a scavare le gengive tra i denti prima di rantolare fuori piena di stenti. E a ragione s’infuria con la medicina che vorrebbe togliergli anche quest’ultimo privilegio! S’inaridiscano pure i reni, gonfi lo stomaco e scoppi la vescica… avanti prego, adesso chi c’è?… e il fegato, eh?! Come la va con il fegato? Quello si rigenera, si rigenera sempre, e mio nonno ne è testimone coerente! Il segreto sta nell’aglio crudo strusciato sul pane con un filo d’olio e un po’ di sale, che anche quei vampiri dei fascisti c’ha scacciato così, che quelli il rosso rubino che mio nonno tiene nelle vene mica lo digerivano così bene! Tira tira, che a lui gli si tirano al massimo i tendini del collo per il nervoso, magro come un manico di scopa, ma di saggina però, che si flette e si flette e non si spezza mai! Col vino in corpo c’ha poi alzato per una vita quintali e quintali di pomodori, maturi all’arrivo sul bancone e sfatti al ritorno da servì in tavola alla famiglia come contorno, e melanzane e peperoni e zucchine, e le mele di tutti i tipi, e mai una volta che gli ha annebbiato la vista, neanche sul ghiaccio a Castelnuovo Val di Cecina, che me lo ricordo che c’ero anch’io, piccino piccino pigiato fra lui e mi ma’, che anche s’ero tutto assonnato il culo mi si stringeva per la paura! Con me non si casca di sotto, scemo!, mi diceva, e poi vedrai che quando s’è finito si va a mangià la braciolina impanata su in trattoria… hai capito? Col nonno di sotto non si casca mai…

Ma fermiamoci un attimo, proprio qua sul ciglio, a pensare in silenzio. Godiamoci questo paesaggio brullo di vigne e d’olivi che ti accompagnan fino a Volterra, sotto al carcere coi matti, che chissà là quanti ce n’hanno chiusi con troppi grilli in testa per poi farli inacidire e cantà come cicale.

Lasciamolo adagiato al buio, se è la che vuole stare, come il vino da invecchiare. Non ha bisogno di altra luce, il chicco ormai è maturo. Passo io, signor fattore, a controllare. Come? Lei dice troppi anni, che il rosso ormai è svanito? Glielo spieghi lei, signor fattore, che adesso va di moda il bianco, da servirsi fresco nel calice lungo e stretto. Io per me, mi piace ascoltarlo questo raglio d’asino che stringe il morso, che abbassa gli occhi sul lumino della cicca e par che guardi lontano, dove non si sa, perché due briciole sul tavolo son tutto quel che c’ha. Cadute dalla bocca, le lascia lì a danzare nel cielo acquoso degli occhi, e chissà a che pensa?, forse che se c’avesse vent’anni gliela farebbe lui la festa a quei pidocchi!, ché invece gli tocca di sentirli biascicare in sottofondo… bla, bla, il televisore… ma vedrai che tornano, e se tornano, non li vedi?, son già qua pronti in doppio petto!… e bla, bla, i parenti… tutti contro a sfotterlo, a non salare il sugo perché così lui dica che è sciapo, che insomma non sa di niente, e a ritornar su quel solito discorso… troppe sigarette, noi ti si diceva! A che ti giovò il non sentir più sapori? A che pro prendersela tanto per un’idea talmente antica che ormai ha preso di tappo? E giù altre risate, neanche fosse un bambino…

Io, le poche volte che ci sono giuro che ci divento matto! Allora gli calo un altro goccio e me ne verso anch’io, così si butta giù il boccone in due, una corsa pazza fino al caffè… e dice a tutti che meno male che gli è rimasto almeno un nipote che tiene le sue stesse idee, che gli sta appresso col rosso insomma, anche se alle ultime due dita poi non c’arriva e lo lascia da solo proprio sul più bello, là come un pivello sulla linea del traguardo…

Simone Ghelli