Di notte

Dentro la stanza c’è poca luce, puzza di fumo e di calzini sepolti sotto cumuli di fogli sconclusionati, sono lì da una settimana, forse due. Credo nel concetto improvvisato dell’impossibilità, lo so è un difetto, ma credo che un giorno o l’altro si stancheranno di stare lì e se ne andranno per i cazzi loro dentro la lavatrice, vi sembra assurdo? Per me non lo è.

Ho imparato che tutto può succedere, che tutto è probabile, forse quest’opinione l’ho sviluppata da bambina quando credevo ancora in dio, lui esisteva e io dovevo crederci per forza, anche se era tutto INSPIEGABILE. È vero che credevo anche a babbo natale e la befana, ma quelle sono altre favole, poi col tempo ho capito che quella fiaba perversa di dio era solo una storia priva di qualunque fondamento logico, uno sciocco, stolto addomesticamento di anime, utile solo per confortare visionari devoti, decisamente più pazzi di me.

Il vicino ha il trapano acceso, sono le tre del mattino, non trova pace, riempie le pareti di buchi, forse ha visto un brutto film ed ora vuole evadere, ma delle sue elucubrazioni mentali me ne fotto, tiro qualche pugno alla parete e inizio a gridare come una pazza isterica “smettila, hai rotto i coglioni!”

Non ho mai visto quell’uomo, vive recluso, gli portano la spesa, la posta ed ogni bene necessario alla sua sopravvivenza.

Si sono fatte le quattro, scolo un’altra birra e mi metto in mutande davanti al televisore, uno schermo piatto da qualsiasi prospettiva, ma lo fisso soltanto in realtà. Sono stanca, è la terza notte in bianco e i miei occhi hanno uno strano colore tendente al viola mescolato allo scuro delle occhiaie.

Ora fisso il soffitto, è lì che ho sempre trovato le risposte migliori, ma le domande sono tutte sbagliate e le risposte tutte vere, che fare? Un’altra birra.

Il vicino ha spento il trapano e io mi sento sola, accendo la musica, ma non è la stessa cosa. Dalla finestra bussa un gatto rosso e grosso, ha freddo, lo faccio entrare, mi si struscia un po’, poi mi lecca con quella sua linguina ruvida, lo scanso col piede e lo uso come scaldasonno, peccato che io sia sempre sveglia.

Neanche la città ricoperta di calma apparente dorme, finge, ma tutto si muove, tutto è illuminato e sulla parete si muovono strane ombre distorte dalla luce o dalla birra, chi può dirlo?

Figure storpie danzano sul muro, le guardo e sorrido, la sveglia suona alle sei, non ho mai capito il perché, s’accende la musica e mi da il buongiorno mentre il vicino consacra il suo rito mattutino: mi spia dalla serratura e si masturba, lo capisco perché nel frenetico su e giù a volte batte sulla porta, lo lascio fare, sorrido, poi mi avvicino verso la porta con la mano dentro le mutande, la apro e lo vedo scappare con le braghe calate. Sorridere al sole che sorge dicono che allieti le giornate.

È il quinto bicchiere di rum e cola, sto per cedere, le ombre, il gatto, il soffitto, le domande, le risposte, la tv ancor accesa sul nulla. Tutto gira e rigira, si contorce su se stesso e io a quattro zampe arrivo in bagno.

Ci sono due scarafaggi che trombano silenziosamente dalla vasca ancora piena, l’acqua verdognola trabocca sul pavimento, si scivola, cado, impreco, vomito l’infinito e ve lo scrivo, buonanotte.

Silvia Canonico

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La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 18

[continua da qui]

Purtroppo dovremo accontentarci di un processo alle intenzioni, che sarà senz’altro sommario, ma che conterrà comunque le sue indubbie verità.

Ad esempio, che i sedicenti scrittori, una volta concluso il fallimentare reading, non si recarono a casa della cugina in dolce attesa, bensì girovagarono in auto per la città e per giunta in condizioni fisiche non del tutto adeguate. Insomma, pare proprio che in mancanza di pecunia essi approfittassero soventemente della gentilezza dei baristi, ovvero che alzassero il gomito con facilità, così come accadde quella notte all’ombra delle guglie del Duomo – per quanto fosse notte.

Così conciati essi si ubriacarono d’aria per le vie del Biscione, assetati e furenti come dei discendenti di quel principe Saraceno che fu battuto a duello da Ottone Visconti*. In queste condizioni, finirono a tarda notte dalle parti degli studi televisivi, dove la biscia non ha un moro in bocca, bensì, più poeticamente, un fiore.

I cinque – che si fossero riuniti o meno non ha più importanza – pare che rimasero di stucco dinanzi a quell’enorme margherita di grigio metallo, tanto che in uno dei taccuini compare un passaggio piuttosto esplicativo in proposito:

Mai visto cotanto simbolo di sole asservito al colore che più si confà all’alienazione; il gigantesco fiore secco si libra in aria, al di sopra dei miei occhi, insensibile come un ingranaggio e pronto a schiacciare l’uomo ancora dedito al sogno…

Adesso penserete che di vera poesia si tratti, e che tutto questo resoconto sia stato un tentativo poco felice di sminuire un’arte che invece merita plausi e allori, ma posso assicurarvi che la precedente citazione è un’eccezione alquanto rara all’interno di un’accozzaglia di retorica assai poco cesellata.

Gli è che, a mio modesto parere – per carità, son giornalista, mica poeta! –, quel simbolo di un potere tanto visibile quanto occulto, fu senz’altro una ricca fonte d’ispirazione, tanto che ingravidò le loro bocche di belle parole e le loro teste di cattivi pensieri. Insomma, quella stessa forza contro cui si battevano – che loro definivano populista – finì con l’offrirgli i semi per i loro miglior frutti, e questo ci basti per affermare che non sempre l’arte nasce dal bello e dal buono, anzi, ché a ben vedere pare proprio che prenda forma per il verso contrario.

Per certo si era di notte, nell’ora popolata dai mostri, per quanto gli studi fossero illuminati a giorno, poiché la scatola dei sogni in technicolor non si addormenta mai, e di conseguenza non dorme chi vi sta dietro a dipanarne i fili. Di spiriti i nostri scrittori dovevano vederne assai, e di fantasmi pure, annebbiati com’erano dalla loro ideologia e da tutto quell’alcool: mostri che con le loro fauci inghiottivano il paese e lo sprofondavano nella melma della barbarie. Ed era proprio per combattere contro queste terribili creature ch’essi erano arrivati ai piedi del tempio a cristalli liquidi, del totem degl’imbonitori che abbagliavano gli spettatori di bianchi sorrisi e di sguardi invitanti, mentre zompavano da un’inquadratura all’altra senza perder mai il centro dell’immagine.

Immaginateveli davanti a quell’enorme blocco di vetro e cemento, finalmente giunti alla loro meta, con gli occhi tremolanti e la gambe molli, ma soprattutto orfani del dono della parola; perché così dovettero sentirsi quando si udì il cigolio di stivali in pelle in avvicinamento sull’asfalto, mentre la voce di una guardia urlava il chi va là…

Simone Ghelli

* Si narra che nel 1187 Ottone Visconti sconfisse in duello un principe Saraceno che portava sul proprio elmo una grossa serpe che ingoiava un infante. Dopo aver schiacciato l’esercito saraceno come si schiacciano i serpenti, quelle insegne strappate al nemico furono donate dal Visconti alla Cattedrale di Milano

Marzo

La mattina mi alzo che è ancora notte, ho messo la sveglia sul cellulare, una musica che ho registrato al mio paese quando sono tornato l’anno scorso. E’ una musica molto bella e veloce che mi fa svegliare pensando che sto duemila chilometri più ad est e poi subito sopra, come se tra me e casa mia ci fosse solo un lunghissimo corridoio.

Dove abito adesso non ho il corridoio: per entrare in una stanza devi passare per un’altra stanza e così via. Anche per andare nella cucina devi passare prima per il cesso e per andare al cesso devi passare per la stanza di Tonja.

Tonja esce anche lei presto di mattina, Tonja è arrivata da due mesi e i primi tempi non aveva capito dell’organizzazione di casa nostra, era uscita e aveva chiuso la stanza a chiave e io e Vladi siamo rimasti nella stanza di fondo e non potevamo uscire, né mangiare, né bere e manco andare al cesso. Vladi doveva far pipì, allora si è affacciato al balcone e ha controllato che non ci fosse nessuno nel vicolo dove stanno le altalene e ha pisciato attaccato alla pianta di bamboo. L’ha fatto con una certa naturalezza, pareva stesse  valutando le possibilità di ripresa della pianta, che la stesse innaffiando che sicuramente ne aveva bisogno, era tutta gialla e raggrinzita nello stelo come il collo di una vecchia, e poi comunque ero contento che pisciasse sopra le altalene, speravo anche che qualche goccia della sua urina finisse in capa ai bambini che giocano a pallone e non ci fanno dormire quando rientriamo il pomeriggio.

Quando Tonja è tornata le abbiamo spiegato a voce forte che non doveva più permettersi e ci aspettavamo che lei piangesse, ci aspettavamo che lei si chiudesse in camera, ci aspettavamo che lei ci mandasse a fanculo ma lei ci ha risposto aprendo le mani e mostrando la chiave come fosse una caramella o un gioco di quelli che fai da bambino. Ci ha detto che a questo punto ce la restituiva, che tanto non sentiva nemmeno di poterla chiamare con l’aggettivo possessivo la stanza dove dormiva, che si vedeva che era una sala da pranzo, ci stavano i piatti appesi vicino alle mura.

Sui piatti appesi vicino alle mura ci sono disegnati pezzi del paese in cui siamo adesso, tutti scheggiati dalle lame dei coltelli, e mi sembra una cosa molto significativa: noi davvero di questo posto ci mangiamo, nelle campagne che ci stanno dipinte noi raccogliamo i broccoli e la rucola sotto a certi capannoni. Il lavoro che faccio io si chiama lavorare dentro ai frigoriferi. L’ho tradotto nella mia lingua per spiegarlo a mia madre quando ho chiamato la settimana scorsa, l’ho tradotto parola per parola e mia madre deve avermi immaginato con un camice bianco tipo ingegnere, deve aver pensato che adesso possiedo i segreti della refrigerazione, che ho gli occhialini leggeri o qualche mascherina, che ho i capelli tagliati a spazzola e io gliel’ho lasciato pensare, non c’era alcun bisogno di dirle che di chimico là dove sto io sono solo pesticidi e freddo.

Mi ha detto il padrone che ad aprile faremo le fragole, forse anche prima di aprile se il tempo si mantiene buono. La gente è solo pigra, ma mica è scema, crede alle fragole solo quando il sole dà conferma, dice. Io non ci crederei comunque ma al padrone non l’ho detto, lui mi guardava e ripeteva fragole come se fosse qualcosa che io non avevo mai sentito o mai visto o mai mangiato.

Tonja fa un altro lavoro che non ho capito bene. Certe volte deve solo attraversare il vico e salire due piani. Quando torno da lavoro riesco anche a vederla, se mi alzo sulle punte arrivato all’ultimo scalino delle scale. Vedo sempre che non fa niente, sta seduta vicino al tavolo e davanti a lei sta un vecchio. Il vecchio ha tutti i capelli bianchi, lunghi dietro le orecchie, e non dice niente. Sentono insieme una radio in cui si parla solo e non ci sono mai canzoni; a parlare è una donna, lo fa con un tono monocorde che a me farebbe dormire. Anche Tonja e il vecchio sembrano dormire. Per questo motivo non farei mai il suo lavoro, perchè quando lei torna a casa sembra sempre più stanca di me anche se io ho alzato venti chili di frutta e verdura e c’ho le mani rosse dal gelo e lei è stata seduta davanti ad una tavola. Poi mi metto sul letto, sento la schiena che mi fa male troppo che non riesco manco a girarmi e allora vorrei andare nella stanza di Tonja e chiederle di fare cambio.

Anche a lavoro da me si sente la radio e molta musica, ma è una lingua che non conosco, non ha niente a che fare con l’italiano che so io, non somiglia alle canzoni che sentivo da bambino. E’ una conversazione veloce, che mi esclude, che mi fa il vuoto intorno, le parole sono come olio nell’acqua della mia grammatica base. Pagherei per sentire una voce che conosco, a lavoro. L’ho detto a Vladi e Vladi mi ha detto che è un grosso sbaglio e che è questa la cosa a cui bisogna fare più attenzione: quando sei tanto lontano da casa e senti parlare la tua lingua gioisci, senza chiederti se chi ha parlato è un amico o un nemico. Io faccio sì con la testa, ma penso che Vladi sia un po’ stronzo, o anche scemo. O solo infelice. Io, se dovessi sentir parlare il dialetto di me bambino, non potrei fare a meno di voltarmi e sorridere.

Vladi ha questo modo di fare simmetrico puntuale razionale che si estende alle pieghe dei suoi pantaloni, alte un paio di centimetri sulle caviglie. Appena arrivati qui ci hanno messi insieme e allora venne vicino a parlarmi, mi disse che adesso dovevamo fare un patto. Voleva sapere di potersi fidare di me e me lo chiese proprio, con parole semplici e finite. Era un discorso preparato ma sentito, un discorso che uno può sentir poche volte nella vita, se è fortunato. Perchè non accade spesso che le persone vengano a chiederti se sei d’accordo e cosa ne pensi di una situazione che non si è ancora verificata. Vladi invece venne a parteciparmi delle sue impressioni su di me e delle sue intenzioni circa il rapporto che avremmo dovuto avere. La cosa mi lasciò piuttosto stranito ma apprezzai che non avesse giocato d’astuzia come fanno tutti, che ti girano intorno e lasciano che il tempo faccia il resto che, come dice il padrone, la gente è solo pigra, ma mica è scema. Non si trattava di bisogno di sicurezza, come avevo pensato all’inizio, o meglio, non solo. Vladi mi spiegò tutto la notte appresso. Mi spiegò che la sua era anche una dichiarazione. Che aveva bisogno di tener fede ad un impegno, di non lasciarsi andare adesso che stava lontano da casa, anche di ricordarsi i verbi base della sua lingua che è anche la mia tranne che per certe inflessioni date dai molti chilometri di distanza tra le località dove siamo nati, dove siamo cresciuti, correndo dietro alle galline nel cortile.

L’impegno non era assai, si trattava di parlare e basta. Anche di abbracciarlo, ma poche volte, siamo due ragazzi sì, ma siamo pur sempre uomini. Tonja non ha messo in discussione il nostro rapporto: Vladi continua a parlarmi anche dopo esser passato dalla sua camera. Io un poco ci soffro, sento che ci sono parti del suo affetto che non posso conoscere; a me non è dato capire le sue mani se non nelle strette energiche che fa certe mattine che sono bloccato con la schiena. A me non è dato sapere se è dolce con le donne o se non lo è. A me non è dato quasi nulla, penso mentre lavoro e lavo i broccoli. Poi la sera lui si siede ai piedi del mio letto e mi parla di tutta una serie di cose a cui devo stare attento, mi dice quello che ha visto la mattina, quello che ha sognato il pomeriggio, ed io credo mi basti, come se non ci fosse alcuna altra possibilità a parte quella di starlo a sentire nel buio. Di questa possibilità non avverto le limitazioni, è una costante onnicomprensiva: la lingua sua è tutt’uno con il nero e con il resto dei colori che quando spengo la luce non si vedono più.

La mattina mi alzo che è ancora notte. Il cellulare mio suona forte e la signora che abita affianco a noi bussa contro il muro, insieme a me si sveglia anche lei e un po’ mi dispiace, ci penso per le due ore che vengono appresso, penso a lei come fosse mia madre, stanca e con le gambe pesanti e io che l’ho svegliata alle quattro come se sapere di farla saltare nel letto mi levasse qualche parte di fatica. Mi propongo sempre di abbassare la suoneria della sveglia o anche di cambiarla, oppure di concentrarmi forte in modo da potermi svegliare da solo senza il bisogno di un allarme, ma la sera sono troppo stanco per ricordarmelo.

Dal balcone il pomeriggio vedo una ragazza: sta seduta al computer o vicino ai libri e penso che deve averci una vita molto semplice che vorrei fare cambio. Quando i bambini giocano a pallone lei si alza e grida forte in italiano che le loro madri sono delle cesse. La prima volta che l’ho sentita io volevo sorridere e dire che ero d’accordo, allora ho alzato la persiana ma lei se ne è accorta ed ha chiuso le tende; io l’ho capito e non alzo più la persiana, la spio dai buchetti pieni di polvere, ci ho passato un fazzoletto scottex per vederla meglio. La ragazza ogni tanto piange. Sta là, ferma, con la testa su certi libri alti,  pare andare tutto bene, parla pure al telefono, e poi piange. Allora io non la invidio più e vorrei fare qualche cosa, darle pure una carezza in testa come quelle che Vladi fa a Tonja, fatta senza capire il perchè in lingua parlata, con un significato che sta tutto sotto le unghie. I miei polpastrelli sono ruvidi, tagliati nel mezzo come se avessi suonato la chitarra e invece io ho colto i broccoli. I broccoli quando escono a marzo hanno steli affilati che bucano la terra fredda come fossero coltelli.  Allora vorrei poterle dire qualche cosa, magari le dico le cose che Vladi dice a me la sera, gli sbagli e le cose a cui bisogna fare attenzione, ma non sono sicuro nemmeno della traduzione in italiano.

Magari le porto le fragole, però quando escono quelle buone, magari anche lei è come il resto della gente, pigra sì, ma mica scema.

Raffaella R. Ferré

Trauma cronico – Appunti

Sono in ritardo mostruoso, in genere il pezzo per Trauma cronico sono solito scriverlo almeno un paio di giorni prima della domenica, lo carico sul blog e programmo la sua pubblicazione per la mezzanotte e un minuto. Questa volta no. Questa volta avevo buttato giù qualche appunto, delle riflessioni sull’omicidio di Brenda, sulla storiaccia della querela a Tabucchi da parte del presidente del Senato (colpirne uno per educarli tutti), oppure dell’inquietante caso Cosentino, avrei voluto parlare di queste cose e concludere con la bella notizia della decisione del giudice a sospendere l’ordinanza di sfratto a Frigolandia di cui vi ho parlato già qui e qui.

E invece sono nella mia stanza, mezzanotte passata da un po’, Zabaglio è appena andato via, era venuto un paio d’ore fa, dopo avermi telefonato per uscire ma io ero troppo stanco. Abbiamo mangiato un piatto di pasta col pomodoro e chiacchierato di tante cose. Abbiamo letto insieme il pezzo di Alex del primo tentativo di racconto collettivo che stiamo sperimentando noi precari, e poi il pezzo, fantastico, del Diario di bordo di Colle Val d’Elsa di Vanni Santoni. Già, perché con Scrittori precari non ci fermiamo mai. Venerdì scorso siamo stati all’università di Siena, in una splendida giornata letteraria in cui prima Wu Ming ha presentato Altai (di cui vi invito a leggere il resoconto qui) e poi Rovelli ha presentato Servi.

Nemmeno una settimana dopo, giovedì, eravamo a Colle Val d’Elsa. L’appuntamento con i ragazzi era per l’una e mezzo a casa mia, dove avremmo dovuto mangiare la frittata di maccheroni di Zabaglio e poi partire. La frittata fatta da Zabaglio era qualcosa di immangiabile, insipida, gommosa, insapore, dopo il primo morso ho desistito, eppure io non sono di quelli schizzinosi, mangio quasi tutto. Ma la frittata di Zabaglio era qualcosa di indescrivibile. Lo stesso Piccolino non è riuscito a buttarne giù più di due bocconi. Zabaglio non sa bere, non sa mangiare e non sa cucinare; lo amiamo anche per questo. Lo abbiamo preso in giro per l’intero viaggio, sgranocchiando risate incontenibili.

Siamo arrivati a Colle che era già buio, abbiamo parcheggiato e passeggiato fino a che non ci ha raggiunto Francesca, che ci ha scortato dapprima a depositare gli zaini, prendere un caffè rigenerante e una mezz’ora di relax a Villa Francesca, dove eravamo ospiti, e poi di lì al Teatro dei Varii dove ci aspettavano i registi, gli straordinari Dimitri Chimenti e Andrea Montagnani. Quindi prove. Una pizza e del vino in teatro. Ancora prove. Poi tutti a Villa Francesca, dove.

Premo il tasto ffww – scorre la nottata insieme a Luca ed Angelo (Simone, arrivati a casa, si è messo nel fodero, ha letto qualche pagina di un libro, poi è crollato) e la notte, quindi eccoci al venerdì mattina. Si è trascorsa la mattinata tra la casa e il giardino, in completa rilassatezza e buon umore, poi si è andato a mangiare un paio di panini a qualche chilometro di distanza, quindi di nuovo a casa fino alla chiamata del Chimenti che ci dava appuntamento per le cinque e mezzo in teatro, dove si è fatta un’altra prova, e poi mentre si fumava sigarette fuori è arrivato pure Vanni. Rituale di baci, abbracci, sorrisi, poi via con la prova generale. Quindi ancora un’altra pizza, la birra, le sigarette, il caffè, il whisky, ed il teatro che si riempiva e s’era fatta l’ora.

Lo spettacolo si chiama proprio Trauma cronico. Appunti per un film in terra straniera. Quando Dimitri mi ha chiesto l’autorizzazione ad utilizzare per lo spettacolo il nome di questa rubrica, mi sono sentito molto orgoglioso di me stesso.

La performance è volata. Siamo andati alla grande, tutti bravi. I registi, due pazzi. Vanni è stato eccellente, come suo solito. Non vedo l’ora di leggere il suo prossimo romanzo.

Una serata eccezionale. Siamo partiti per il verso giusto in un’altra nuova magnifica avventura. Certo c’è ancora tanto da crescere e da lavorare, ma sono certo che se ne vedranno ancora delle belle. I lavori, d’altronde, non finiscono mai.

Vi saluto tutti, abbracciandovi, invitandovi a ritornare domani, lunedì, per il Diario di bordo della carovana errante di Scrittori precari con piacevolissimi contributi esterni, ma non vi dico altro. L’appuntamento è a domani.

Buona domenica

Gianluca Liguori

Poesia precaria (selezionata da L. Piccolino) – 14

Il tour che ha portato il collettivo Scrittori precari in giro per l’Italia è stato tutto un incontrare e conoscere.

Con Andy Q. ci siamo visti durante l’ultima data, nella Repubblica di Frigolandia, in provincia di Perugia.

Il Caro Andy, parlando parlando, mi disse di avere la passione del verso ed io, da parte mia, gli chiesi di spedirmi qualcosa per la rubrica del lunedì.

Ci è voluto un po’. Io e lui abbiamo scoperto di non essere molto coordinati.

Mi ha scritto su myspace e io ho letto dopo un mese. Mi ha mandato una mail, ma si è persa nei meandri di una bufera subtropicale che ha tagliato le comunicazioni per qualche ora.

Colpa mia e colpa sua, dunque. Nel caso della bufera colpa di qualcuno più in alto, forse. Ma andiamo avanti parlando di cose serie.

La poesia di Andy appare potente e senza fronzoli. Comunque non mi permetterei di considerarla essenziale.

La padronanza e la consapevolezza che questo autore innegabilmente possiede, fanno sì che egli possa scalare senza remore o tentennamenti le chine poetiche che gli si parano innanzi.

Musicalità, immagini forti e soprattutto sensazioni forti. Poesie fatte di materia, carne, sangue, lacrime, cuore e molto altro.

La realtà presente sembra avere i toni del grottesco e va ad incastonarsi come una gemma difettosa su un anello di finto oro.

Palese è la letteratura di riferimento a cui Andy evidentemente si ispira. Ma il suo personale modo di interpretarla e rinnovarla fanno pensare a un percorso evolutivo tutt’altro che finito.

Staremo a vedere.

Buona lettura.

Luca Piccolino

ORE MASTICATE

il cibo tra i denti

le ore masticate

l’armonia della quiete nel ferro congelato

nessun tramonto nella notte delle stelle indifferenti

calici di ulivo vivo non ancora colto

fiori ingenui si colorano d’inverno

vapore nel nostro respiro

che aspira linfa nello splendore

un’ erezione improvvisa toccando erba di campo

e le ciminiere fumano più di noi

ma in lontananza sono sole

travestite da formichieri della quotidianità

mai sazi di disperazione

gocce di birra sul corriere regionale

gocce di birra sugli annunci delle troie private di provincia

numeri su numeri

calcoli su calcoli dentro tumori morali in via di putrefazione

il vescovo non vuole il sexyshop

la città se ne fotte

treni in ritardo dentro valigie vuote

cani affamati alle discariche dei ristornanti di lusso

la luna nasconde il proprio sesso e non ci degna di Luce

e la notte finisce con l’ultimo sorso

aborto dell’addio

frutto malato di arcobalenica muffa

ruggine nel terzo occhio

pittura su odio nella pupilla del terzo occhio

guanti anti-omicidio

san valentino nell’aorta strappata

sputeremo sangue alla parata degli attimi fuggenti

cibo tra i denti

ore masticate

sangue coaugulato nel dna della miseria

fazzoletti con sborra incollata

catarro che galleggia nel cesso

siamo i soliti esseri perfetti in una realtà decadente

Andy Q.

Poesia precaria (selezionata da L. Piccolino) – 12

Patrizia Berlicchi è una poetessa e una mia amica.

Man mano, leggendo le sue opere, ho creduto di essermi ormai fatto un’idea sul suo modo scrivere.

Fandonie.

Semi (Aletti editore 2009) è un libro estemporaneo, spiazzante, immediato ma non facile.

Poesie di tre righe che appaiono complete, avvolgenti, profonde, delicate, potenti, coraggiose.

L’unico indizio che Patrizia lascia è una piccola introduzione da cui estraggo un passaggio:

Semplicemente sono stata in silenzio, in ascolto, aspettando che le immagini “risuonassero” in me e si facessero segno.

Soltanto semi adesso ma, sono fiduciosa, con amore e perseveranza arriverà il frutto maturo.

Tutto il resto è un viaggio che il lettore dovrà compiere apparentemente da solo.

Poi, guardandosi intorno potrà notare come i semi passati sotto ai suoi occhi stiano via via germogliando riempiendo lo spazio circostante.

Non è possibile, a mio avviso, estrapolare dal suo contesto una delle poesie dell’opera menzionate senza commettere un delitto o peggio sminuire il lavoro di questa autrice.

Quindi attingerò i versi di oggi dal libro Nessuna stazione (Montedit) altro bel capitolo della produzione poetica di Patrizia Berlicchi.

Buona lettura.

Luca Piccolino

La notte lo snodo

 

Mi piace il ferro arrossato

l’intonaco scrostato

guarito

da notturni invisibili pittori;

angeli resuscitatori

della città ferita

a morte.

Mi piacciono le porte

che accolgono

discrete

generose

lacrime sbrindellate

risate

dolorose…

fino alle fusa dell’aurora

mentre la notte ci reclama ancora.

Patrizia Berlicchi

Patrizia Berlicchi è nata a Firenze il 7 gennaio 1962 e vive a Roma.

Ha pubblicato: Disattendere, prego (edizioni Il Filo 2006), Amorepureamaro (Nicola Pesce editore 2006), Carne mia (Montedit 2007), Exilva (Aletti Editore 2008), Arcaninversi (versi ignari sugli arcani maggiori) (Montedit 2008), Nessuna stazione ( Montedit 2009), Semi (Aletti editore 2009)

Tempo di passaggio

Notte. Luca, disteso sul suo letto, non riesce a prender sonno. Oggi è stata per lui una gran giornata, così dicono. Oggi Luca si è laureato dottore. Ma Luca non riesce ad addormentarsi, stanotte.

Pensieri. Scorrono. Veloci, impazziti. Sono anni che ci pensa ma ancora non l’ha capito: cosa fare della sua vita. Luca è sveglio, non è per niente stanco, non ha per niente sonno. Pensa.

Forse dovrebbe trovare un lavoro qualunque, il primo che capita, e sposare Manuela. Di questi tempi bisogna accontentarsi. I sogni, a volte, bisogna lasciarli solamente alla notte.

Non si addormenta Luca, sogna, sogna forte, ma i suoi occhi sono aperti, è sveglio, sveglissimo.

Partire. Andare lontano. Forse un viaggio, potrebbe essere un’idea. Messico, India, Africa: Luca cerca un sogno distante, Luca cerca se stesso, quella parte che non riesce a raggiungere.

Stelle. Luca si alza e va alla finestra. Accende una sigaretta. Guarda le stelle e si perde oltre i suoi stessi pensieri. Ci sono limiti invalicabili per questo piccolo essere chiamato uomo. Il suo tempo è inezia rispetto a qualsiasi stella che scruta nell’immensità infinita della notte. L’umanità si è complicata la vita. Il breve tempo che abbiamo, troppo spesso viene dissipato. È un vero peccato.

Cuscino. Luca spegne la sigaretta e va a distendersi sul letto. Abbraccia il cuscino, immaginando Manuela. Sogna ad occhi chiusi, ma è sveglio. Immagina. Lui e lei. Passeggiano sulla spiaggia di un luogo conosciuto anche se non ben identificato. Ridono, scherzano. Si abbracciano, si baciano. Si baciano. Continuano a baciarsi. Si amano.

Sabbia. L’acqua bagna la spiaggia, poi si ritira. Luca disegna una stella, che lentamente svanisce. Manuela gli sorride. Lo bacia sulla fronte. Luca ha la fronte sudata. Non riesce a dormire. Si gira e si rigira sul letto. Le belle speranze nascono e spariscono come stelle disegnata sulla sabbia.

Gesso. Luca è a scuola, alla lavagna. Nella mano sinistra ha un pezzo di gesso bianco. Il vecchio professore incute timore. Non è mai stato troppo bravo in matematica. Non sa, non sa cosa scrivere. Il rigore dell’austera figura lo blocca, non riesce a pensare. Suda. Trema. Il prof lo manderà a sedere, prenderà nota. Impreparato. Eppure era semplice, nella sua cameretta, magari, avrebbe pure risolto quell’equazione. Come farà adesso a dirlo alla mamma?

Orecchini. Gli orecchini di sua madre li ricorda bene. Ha portato lo stesso paio per quasi vent’anni. Sua madre che lo rimproverava quando a scuola non andava bene. Sua madre che stamattina ha pianto, perché lui si è laureato.

Carta. Un pezzo di carta dove è scritto che è dottore. Non ha imparato nulla. Le difficoltà vere iniziano adesso. Nessuno gli ha spiegato niente sinora, a proposito di lavoro. Ha studiato tante cose, ma si rende conto di non essere in grado di far nulla. Tutto è inutile. Quella carta è stato un albero. Quanti alberi sono stati abbattuti per far laureare tutti questi dottori?

Vento. Fuori, c’è vento. Ne sente il suono, Luca. Sembra un lamento. Sembra il suo lamento. Interiore. Tum-tum-tum. Batte il cuore. Forte. C’è vento ed ha caldo. Suda. Pensa a quella volta che ha fatto sega a scuola con Picone, un suo compagno di classe. Luca non ha idea di che fine abbia fatto. Probabilmente sarà finito in galera per furto, spaccio o ricettazione. Si vedeva sin da piccolo, che Picone nella vita non avrebbe mai combinato nulla di buono, aveva il fascino del ribelle sin dalla più tenera età. In fondo era soltanto un bambino che soffriva di solitudine, la sua situazione familiare non era delle più felici. Quel giorno a far sega con Picone si era proprio divertito.

Acqua. Luca ricorda la spiaggia dove andava da bambino. C’era una scogliera dove se ne andava con maschera, pinne e boccaglio. Guardava i pesci, la vita sotto la superficie dell’acqua. In acqua si sentiva vivo, ogni pensiero si dimenticava, c’era il momento, quel momento esatto, che ora sta ricordando.

Ovunque andava, da bambino, c’era sempre una ragazzina che gli piaceva. Qualcuna la ricorda, altre le ha dimenticate.

Fuoco. Luca ricorda suo nonno che gli raccontava le storie della guerra davanti al camino acceso, cuocendo patate, castagne, uova o mele. Il nonno di Luca era un partigiano. Un socialista, fedele al partito fino alla metà degli anni ottanta, fino a Craxi. Suo nonno morì il 9 novembre del 1989 mentre il mondo si apprestava a cambiare.

Terra. Quella volta, Nicola, detto il Siciliano, gliela fece vedere sporca. I primi due pugni, come colpi sordi, lo avevano messo ko. Steso al suolo, sanguinante, un rivolo che dalla bocca finiva sulla terra secca. Luca era chiuso a riccio, il Siciliano continuava a prenderlo a calci. Gliele diede di santa ragione. Quella terra, mista al suo sangue, gli finì in bocca. Aveva sapore amaro.

Aria. Respira. Inspira, espira. Cerca la calma che non trova. Si agita ulteriormente. Un brivido gli percuote la schiena. Ha paura. Non riesce, non riesce a mantenere il controllo. Vorrebbe urlare. Tace.

Sono ore che prova a prender sonno Luca stanotte. I ricordi più nascosti tornano a galla, improvvisamente ed inaspettatamente. Si alternano davanti al suo sguardo.

Oggi per lui è stato un gran giorno. Tante cose non sarebbero più state come prima. La vita universitaria terminata. Non c’era un secondo da perdere, tutto da costruire. Una vita.

Da dove cominciare? Per il momento non aveva nulla da fare. Avrebbe voluto dormire.

Rumori esterni. Il camion della nettezza urbana. Quasi mattina.

Nella notte che da ieri accompagna all’oggi, si era compiuta una strage. Un’età era finita. Egli aveva dinanzi a sé una pagina bianca sulla quale poter scrivere qualsiasi cosa, i propri sogni da realizzare.

Sogno. La luce del mattino penetra nella stanza di Luca, che non ha dormito stanotte. Gli uccellini cinguettano. Sbadiglia, Luca. Sente rumori di stoviglie provenire dalla cucina, qualcuno che chiude la porta e scende le scale. Si addormenta.

Gianluca Liguori