Dreadlock!

Bologna-Babilonia è la città sfondo di questo romanzo breve (uscito per la collana Novevolt) scritto dal giovane Jacopo Nacci. La ballata di Dreadlock, o meglio quella di Matteo, è la triste storia del suo perduto amore e del suo fatale destino, che porta Nacci a cantare una Bologna surreale e perduta, che muore e si rialza, vittima sacrificale ma anche zombie infetto e putrefatto. È difficile articolare per punti una trama che racconti brevemente questo romanzo. Più che la sequenza degli eventi, è l’atmosfera a caratterizzare la narrazione. I protagonisti sono degli studenti che vivono il melting-pot della bassa padana, dove le antiche cancrene politiche vengono rigenerate da nuove violenze di stampo razzista. La follia che sorge dal disperato desiderio di autoaffermazione fa nascere mostri, figli più della lucidità che della passione. Matteo, il suo amico/mentore Lorenzo e la sua compagna Valeria ne sono vittime. A Matteo però giunge un dono: Dreadlock. Dreadlock è un demone, che si incarna in Matteo, e tutto il romanzo – visto come possessione – altro non è che una discesa agli inferi, un percorso iniziatico, un rito di passaggio per un ragazzo che deve diventare uomo, crescere, al punto che i suoi genitori stessi non lo riconoscono più. Come a Delfi e a Cuma, anche qui a Bologna-Babilonia sono i fumi dell’oracolo a inebriare il questuante e a permettere al Dio di possederlo, di trasformarlo nella sua voce, nei suoi occhi, nelle sue braccia. Lorenzo è il mentore, più Don Juan che Virgilio: seguendo Matteo/Dreadlock sale lo ziqqurrat di Babilonia così come scende i gironi dell’inferno. Ma la purezza non esiste, e Ser Galahad è solo il sogno di un’umanità adolescente. Così Valeria/Euridice non ha possibilità di salvarsi, deve subire la Grande Metamorfosi, elemento nel processo di rinascita e purificazione di Matteo/Dreadlock e di Bologna/Babylon. Fluttuante tra l’immaginario dei super-heroes Marvel e DC comics da un lato, e la mistica olistica roots return del reggae giamaicano dall’altro, Dreadlock dà il titolo a una delicata e poetica ballata. La ballata di un amore che trascende la grigia realtà della provincia, per morire in un mondo nuovo. L’idea di fondo è che se si combatte contro gli dei non si può averne altro che dolore. Leggi il resto dell’articolo

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Appunti biodegradabili dalla terra della fantasia – 4

Ogni volta che accendi una sigaretta su una candela muore un marinaio. Non ricordo neanche più chi me lo disse, è un ricordo di anni fa, dieci, forse più. Sto scrivendo a lume di candela, è quasi sera, fuori imbrunisce nel silenzio colorato di cinguettìi di uccelli che non riconosco. Ogni tanto irrompe un frinire di grilli o un ronzìo di mosca. La pineta suona, silenziosa. Sabato scorso Leggi il resto dell’articolo

SP intervista TQ – parte seconda

Ecco la seconda cinquina di domande a Sara Ventroni (SV) e Alessandro Raveggi (AR), tra i firmatari dei manifesti TQ. Coloro che avessero perso la prima parte dell’intervista possono leggerla qui.

SP: I partecipanti alla prima riunione nella sede della casa editrice Laterza (di cui peraltro non è mai uscita la lista) sono stati reclutati attraverso gli inviti, autonomi e spontanei, da parte dei cinque firmatari dell’articolo. Sempre i più maliziosi, però, hanno notato che si trattava perlopiù di autori che hanno pubblicato (o che stanno per pubblicare) con Minimum Fax, Fandango, Contromano Laterza, Einaudi (e qualche Mondadori) e di addetti ai lavori che ruotano attorno a queste case editrici. In un post pubblicato qui su Scrittori precari Enrico Piscitelli faceva notare che il 46% dei 54 fondatori di TQ ruota attorno all’orbita Minimum Fax e sospettava che, dietro “tutto questo parlare”, ci sia l’interesse di rafforzare un “gruppo” già esistente. Che ne pensate? Leggi il resto dell’articolo

Il molosso. La leggenda del cane

IL MOLOSSO. LA LEGGENDA DEL CANE *

Siamo ripartiti e bisogna stare attenti perché tra lance, rostri, frecce e spade è come camminare in una grande bocca piena di zanne anche nel palato e sulla lingua, una bocca che avanza e si agita di continuo e se sbagli direzione o inciampi vieni sventrato e fatto a pezzi. Ci sono lame e becchi appuntiti dappertutto.

Alcuni, quelli che ce la fanno, marciano con scarpe di ferro tagliente.

Io sto nella terza fila e reggo una lancia di sette metri. Possiamo avanzare su ogni tipo di terreno. Qualsiasi cosa accada, la falange non si rompe, si riassesta, è capace di qualsiasi movimento. Sfonda qualsiasi schieramento.

«Levati», mi urla il bambino.

Mi scanso. Ero finito troppo vicino a un cane da combattimento con due torce ritte sulla schiena. Sui fianchi ha i serbatoi di resina che alimentano la fiamma. Porta un collare pieno di punte affilate. Ha il pelo arruffato e lungo, perché viene dalle piogge e dalle tempeste. È bianco, irsuto, come un cane da pastore, forse un tempo lo è stato. Noi per lui siamo il gregge. Gli altri i lupi.

Sono ancora forte, ma senza il bambino sarei già finito. Ripenso a quando l’abbiamo preso, suo padre e sua madre non volevano, non capivano il nostro destino di gloria e di conquista, erano uno dietro l’altro, furono trapassati dalla stessa lancia. Lui non può ricordarlo.

«Stai andando bravo», mi urla.

Quasi non ci vedo, per il bagliore bellissimo delle armature e degli scudi.

Enzo Fileno Carabba

* Estratto da Il molosso. La leggenda del cane (Zona, NOVEVOLT, 2010): un intrico di storie fantareali, attorno alla figura leggendaria del molosso: un cane da combattimento e da caccia, una feroce arma vivente, un progenitore sceso dal Tibet, un fedele compagno dai poteri telecinetici, una bestia mitica proveniente dalla culla martoriata della civiltà. Carabba ci accompagna con la sua immaginazione vertiginosa in una Italia distopica, abitata da pastori e solcata dagli F16, mostrandoci visioni alternative del nostro futuro. Enzo Fileno Carabba ha scritto, tra gli altri, Jakob Pesciolini, vincitore del Premio Calvino, La regola del silenzio, La foresta finale (tutti pubblicati da Einaudi), Pessimi segnali (Marsilio, 2004) e Le colline oscure (Barbera, 2008). È stato tradotto da Gallimard in Francia.

Inoltre Scrittori precari segnala giovedì 1 aprile 2010, alle ore 18.00, presso la Feltrinelli international, in via Cavour 12r presentazione dei primi libri della collana NOVEVOLT, Il molosso. La leggenda del cane di Enzo Fileno Carabba e Un viaggio con Francis Bacon di Franz Krauspenhaar. Saranno presenti, oltre agli autori: Vanni Santoni, Jacopo Nacci, il curatore della collana Alessandro Raveggi e l’editore Piero Cademartori. Reading a fine presentazione.

Un viaggio con Francis Bacon

UN VIAGGIO CON FRANCIS BACON *

“Di notte teste esplose mi vengono a bombardare mente e stomaco mentre tento di dormire. Ho preso due pastiglie di Minias, un sonnifero non forte che mi permette di addormentarmi quando l’insonnia mi si accanisce contro, ma quelle teste mi perseguitano. Più di tutte, quella di John Kennedy sull’auto presidenziale, a Dallas. In effetti non scoppiò, ho visto come tutti quel filmato decine di volte, ma la mia distorsione me la fa vedere esplosa. È sempre Bacon che mi perseguita, le sue teste, le fauci umane, lo spalancarsi dell’abisso.

L’uomo baconiano è tutti e nessuno, ora l’ho capito. È il venditore in Mercedes incontrato a fine inverno davanti al tabaccaio, ma è anche John Kennedy nel pieno della sua morte violenta. È il ragazzo del Vietnam vittima di uno scontro a fuoco. È addirittura la testa pelata del colonnello Kurtz impersonato da Marlon Brando in Apocalypse now. La filosofia di Kurtz, esplicata nel suo monologo, è una filosofia dell’accettazione della morte e soprattutto dell’assassinio senza riguardo che non è nemmeno immorale, è semplicemente lineare, fino a raggiungere proprio una non sottile linea di straordinaria purezza.

Ecco, il dolore e il male rappresentato da Bacon mi sembrano alla fine coinvolti in una strana purezza naturale. È come se l’uomo baconiano, afflitto, sconfitto, frustrato, sia preda di un male naturale che è puro, perché inevitabilmente intricato con la natura. Una natura che non ha riguardi nel nascere e nel morire, che si fa largo sulla nostra terra tramite la brutale selezione della specie. L’uomo baconiano è arrivato al termine di questa selezione, ma da sconfitto.”

Franz Krauspenhaar

* Estratto da Un viaggio con Francis Bacon (Zona, NOVEVOLT, 2010): Francis Bacon nella vita di uno scrittore. Un libro ibrido, che mischia strutture narrative e stili letterari, e che traccia indelebilmente i contorni del mondo della contemporaneità. Un piccolo grande viaggio pop, tra cinema, musica e poesia. Viaggiare assieme a Francis Bacon, in questo libro, significa sporgersi dalla balaustra del traghetto, e guardare all’orizzonte il vuoto, in un dialogo con la crudele e tagliente scrittura di Franz Krauspenhaar, già autore di Avanzi di balera (Addictions), Le cose come stanno e Cattivo sangue (Baldini Castoldi Dalai), Era mio padre (Fazi), Franzwolf. Un’autobiografia in versi (Manifatturatorinopoesia) e L’inquieto vivere segreto (Transeuropa), nonché ex redattore di Nazione Indiana e uno dei principali animatori dei dibattiti culturali in rete.

Inoltre Scrittori precari segnala giovedì 1 aprile 2010, alle ore 18.00, presso la Feltrinelli international, in via Cavour 12r presentazione dei primi libri della collana NOVEVOLT, Il molosso. La leggenda del cane di Enzo Fileno Carabba e Un viaggio con Francis Bacon di Franz Krauspenhaar. Saranno presenti, oltre agli autori: Vanni Santoni, Jacopo Nacci, il curatore della collana Alessandro Raveggi e l’editore Piero Cademartori. Reading a fine presentazione.

Non multa sed multum. Qualità della vita, qualità letteraria – 2

Non multa sed multum. Qualità della vita, qualità letteraria

[Leggi la prima parte]

Perché, allora, in Italia, dovrebbe esserci necessità di opere letterarie qualitativamente intense e durature? Perché in Italia c’è una voragine chiamata: carenza di immaginario, collettivo e individuale. Chiamatela tedio, noia, apatia, ma si sta verificando un’atrofia dell’immaginario che molti non possono o vogliono scorgere, perché hanno disimparato a dare valore al concetto di qualità. Dobbiamo però reinventare il nostro immaginario, ovvero il nostro modo di compensare la refrattarietà delle cose italiche con la creazione verbo-visuale, il nostro modo di sfogliare l’opacità delle cose presenti, e guardare oltre, dietro il muro dell’oggettività. E questo andrà inevitabilmente a scalfire la nostra identità tradizionale, un’identità che deve avere una durata. Oggi la letteratura, almeno in Italia, è una forma di sopravvivenza, una consegna al mittente da non mancare.

Carenza d’immaginario, carenza d’identità, carenza di qualità. Carenza di futuro. Non osiamo immaginarci il futuro italico, ma siamo stanchi d’incipriare il presente. La qualità della nostra vita dipende anche dalle opere che i nostri autori coevi sanno e pretenderanno di produrre. Questa è la responsabilità che ci si presenta davanti. Si deve tentare, rischiare tutto, reinventare un linguaggio, captare le emergenze – cioè quello che viene fuori da questi tempi, e manca ancora di parola. E prefigurare le nostre nuove facce, desiderando e recuperando le facce altrui, la nostra tradizione polverosa. Facce di un passato che, oramai staticizzato tra monumenti impercettibili, libri di testo e retoriche varie, ci spinge sempre più verso un futuro già pari a zero.

Intensità e durata, si è detto. Se azzardiamo ad applicarle a una visione magnetica – da campo magnetico – delle opere letterarie, queste prevedono spostamento. Lo spostamento prevede adattamento creativo della forma, ovvero metamorfosi. Questa, lo si è detto fino alla nausea, è una delle qualità costitutive del romanzo, il prodotto della sua origine epico-orale (dispersione assoluta e semina della sua avventura), del suo ibridare generi (il romanzo è un grande cannibale, una tessitura aperta come la tela navajo dell’Emilio Cecchi in Messico), del suo pensare e criticare se stesso (il romanzesco che guarda se stesso, Don Quijote che legge le sue avventure stampate), cercando di acciuffare senza tregua allo stesso tempo quel Reale traumatico che stiamo vivendo – il fantasma della cibernetica calviniana, che non si vede, ma pressa. E, prima o poi, ritorna.

Perché dire Italia oggi cosa significa? Non è qualcosa che ha a che fare con il dolore spettacolarizzato di una progressiva mancanza di qualità di vita? Italia è un’espressione senza referente, un sipario desiderante senza scena desiderata, ma con molti mésententes e différends, disaccordi e dibattiti, con tante tracce e traumi da esplorare. Per questo c’è forse il bisogno di tentare opere metamorfiche, mutanti e cosmiche, che tocchino il cielo universale per riflettere la piccola zolla particolare e redimerla, emisferi dove la nostra faccia – perché noi, italiani, con l’identità, ci rimettiamo pure la faccia – si possa rispecchiare deformata, per scorgere i cambiamenti dei connotati e delle costellazioni, domani. Lavorando di fantasia, irrispettosamente, anche sulla nostra Storia senza capo né coda.

Parlare di romanzo, o di racconto in prosa, di per sé è parlare di qualcosa che non è, ma che sarà, qualcosa di volto al futuro anche se scritto nel passato remoto. Parlare senza timore di qualità, oggi, nella nazione italiana, parlare di complessità, come fanno altri in altri frangenti da altre prospettive, parlare di avventura (come metamorfosi, durata e intensità del nostro raccontare e come potenza dell’immaginario), significa avere fiducia, non solo in noi stessi (cosa che da tempo ci manca), ma anche nella durata della parola. Significa auspicare un futuro duraturo, ma non per questo conservativo, della nostra identità. Un futuro parzialmente libero, temporaneamente autonomo. Diciamo durata, non necessariamente ripiego morale o moralistico della parola. Responsabilità della posta in gioco, non civismo sbandierato e, quindi, spettacolarizzato.

Le nostre opere, in questo orizzonte di senso in modificazione repentina, saranno l’arco perfetto e intagliato pronto a risuonare, la freccia sarà il nostro occhio critico pronto a fendere l’aria, la qualità sarà l’intensità con cui tiriamo la corda e lanciamo. Seppure nel disastro dell’immaginario italiano, un punto d’appoggio e un tentativo per essere buoni arcieri ancora dobbiamo e possiamo farlo. Anche da una posizione sbilenca, minoritaria, ridicolmente caparbia.

Alessandro Raveggi e Enrico Piscitelli

Non multa sed multum. Qualità della vita, qualità letteraria – 1

Non multa sed multum. Qualità della vita, qualità letteraria

Questo testo è la seconda parte di un’introduzione alla collana di narrativa Novevolt, curata da Enrico Piscitelli e Alessandro Raveggi, a partire dal 2011, per la casa editrice Zona. Il primo testo può essere letto qui, ed ha il carattere di un’apertura violenta del vaso di Pandora. Questo secondo testo, dopo l’apertura del vaso, ci guarda circospetto dentro, e si interroga sul futuro e la possibilità di scardinarne le pareti, o almeno distanziarle.

La collana Novevolt, oltre a proporsi come soggetto culturale nell’organizzazione di un festival letterario nazionale (ULTRA-Festival della letteratura, in effetti) e di altri progetti collaterali, auspicherà una promozione, attraverso piccoli libretti, romanzi brevissimi e racconti lunghi di autori affermati e giovani promesse, di luoghi quali la qualità, la densità e il rischio nella letteratura italiana. Le prime due uscite saranno gli autori Enzo Fileno Carabba e Franz Krauspenhaar. [Enrico Piscitelli e Alessandro Raveggi]

Viviamo, oggi, in una condizione in cui le nostre parole sono un nodo, una tag associata a un’informazione, verso le quali e dalle quali si irradia una rete, alcune reti, nella Rete. La Rete è un modello di autonomia relativa, di libertà limitata e temporanea, meravigliosamente anarchico e labirintico (per i fanatici del labirinto), ma anche ambiguamente accessibile. Siamo completamente accessibili, siamo completamente visibili, purtroppo, ovvero: vulnerabili. La Rete ha le sue falle e i suoi pescecani, che navigano a vista con i propri specchietti per le allodole tra i denti. La possibilità di essere fregati, di essere illusi, di perdere la nostra libertà, è paradossalmente maggiore. Dal Sistema anarco-capitalistico in crisi, dal mainstream che pur sta cercando di mimetizzarsi nella nostre forme di resistenza vitale, quasi biologica – per rinascere quando forse rinasceremo – si è sempre delusi.

Il diffondersi della letteratura nel mezzo partecipativo delle comunità-web italiane e mondiali ha moltiplicato quantitativamente i luoghi dove la qualità può (ma non necessariamente deve) essere rintracciata. Al di là della possibilità che le forme rapide di pubblicazione del weblog ci stanno offrendo, e del ricrearsi blando della comunità in una simulazione gioco in cui possiamo pur sempre mascherarci da avatar, bisogna preservarsi dal rischio del consenso qualitativo, ovvero dalla pretesa di valutare un testo come qualitativamente letterario, dipendendo dalla quantità di frequentazioni del testo, di apprezzamenti, di click, poll e commenti telematici. La letteratura qui viene spesso classicamente mercificata, anzi mercificata al secondo grado. “Non è merce, questa è letteratura, un nuovo modo cool di farla”, ma è sempre paradossalmente merce, termometro di consenso. Quello che vogliamo dalla qualità non è consenso, è diffusione e differenziazione, movimento di visione e divisione, non partecipazione da prova d’acquisto.

Bisogna comunque fare un tentativo per togliere uno strato immancabile di spocchia dalla nozione di qualità letteraria.

Cosa è allora questo richiamo alla qualità, in un mondo felice e utopico in cui Tutti scrivono Tutto, e in un mondo infelice e distopico in cui nessuno pare comprare i libri? Facciamo un parallelo. Cosa intendiamo con l’espressione qualità della vita? Il semplice adeguamento al gusto della massa (o della massa al suo gusto preconfezionato), la semplice capacità di possedere e dominare ammennicoli tecnologici, divani confortevoli e televisori al plasma, di essere oggi up-to-date e domani chissà…? Questa concezione non è più proponibile, visto che il modello economico che l’ha portata in auge sta crollando, o rientrando nel proprio guscio protezionistico (anche se forse lì dentro marcirà). La qualità della vita è ora molte cose assieme, un vettore di tante variabili in rapporto al nostro Welfare State individuale, ma sicuramente è una condizione in rapporto a una gittata, a una potenzialità futura. Appunto: la gittata delle nostre azioni future. Vivo qualitativamente bene se quello che faccio oggi potrà durare domani, senza per questo andare in cancrena, ma vivendo nella metamorfosi, nell’apertura, non in un eterno presente insipido. E questo vale sia per la classe media italiana in lenta fissione, che per i Paria dei paesi in via di sviluppo. Vivo qualitativamente bene non necessariamente se oggi possiedo un divano di lusso (o un libro in prima fila sullo scaffale), ma se potrò permettermi un divano anche domani, magari più piccolo, anche per i miei figli. La qualità della vita è così poter pensare alla propagazione, e metamorfosi, della mia vita, e della mia opera, domani. Ed è qualcosa che ha a che fare dunque con la possibilità (non l’obbligo) di fare figli, di riconoscersi in un’alterità che nasce dal nostro ventre.

Il disprezzo per i giovani che le generazioni che ci precedono dimostrano e hanno dimostrato, un disprezzo che si è caratterizzato come spettacolarizzazione della gioventù, almeno dal Dopoguerra a oggi – e che è uno dei nostri faticosissimi compiti annullare – ci fa capire che la loro visione di qualità della vita era necessariamente contraria alla nostra possibilità di propagarci, era in qualche modo castrante. Il benessere borghese è ed è rimasto un concetto statico e ottocentesco basato sull’accumulazione, l’appropriazione, l’accatastamento di beni, entrato in crisi proprio nell’era del consumo e della sovrapproduzione. Dall’accumulazione si è passati, linearmente, alla mercificazione della cultura. Questo dobbiamo ripensarlo. Sono le nostre discariche vicine e lontane che ce lo chiedono. Persino tutta questa discarica del senso che ci ha consegnato il cosiddetto post-moderno dimostra in fondo una mancanza, un dolore nascosto, anestetizzato più che esorcizzato, annullato più che ritualizzato.

Questo per dire che qualità non è possesso, una eudemonia: la qualità non si possiede, ma si produce, si narra, si propaga, si consegna e si perpetua, potendo guardare al di là del presente. Adesso speriamo che il parallelismo sia chiaro, anche se il rapporto vita/letteratura è obliquo, necessariamente inclinato, mai verisimile: la qualità letteraria è un insieme di forze che producono un effetto d’intensità, una durata che garantisce la possibilità di trasmissione. Effetto sul lettore, effetto sulla comunità, effetto sul futuro. Non è solo una questione di stile, ma di efficacia di stile. Per questo, la qualità letteraria sta, e a un tempo non sta, nella forma libro. Forma che molti (non noi) sono pronti a demolire o sorpassare, senza riuscire a pensare alla transmedialità originaria della letteratura, dalla lingua schioccante degli aedi alle USB roventi dei piccoli editori.

La qualità è così la capacità del libro, del romanzo, del poema, di prefigurare il futuro, uscendo da se stesso, uscendo dal proprio presente statico e cristalizzato del linguaggio e del desiderio. Qualcosa di molto vecchio e di molto nuovo. Senza per questo dimenticare il passato, anzi, rinnovando il desiderio di comprenderlo in quello che chiamiamo memoria. Già, la memoria: in Italia pare solo il nome dato al tour di un gruppo di partigiani, che vanno affaticati, di liceo in liceo, a rammentare i combattimenti su per i monti, le rupi e le brumose vallate. Già, l’Italia… Oggi più che mai, parlare di qualità letteraria in Italia, ancora senza snobismo e pretese decadenti, esotico-esoteriche, significa enucleare una serie di topic-salvagente non del tutto inutili anche per quello che si chiamerebbe condizione di vita (almeno nel Bel Paese). Il parallelo qualità letteraria-qualità della vita potrebbe diventare un’istruzione. Visto che paiono saltati da tempo i parametri di distinzione tra reale e finzionale, almeno dobbiamo trovare una strategia sostenibile per muoverci in queste ambiguità, un efficacia che ci permetta di distinguere. Non opere efficienti, che fanno il loro bravo lavoro di decalcomania feticistica della realtà, che rispettano il lettore e il suo mondo di agi e ombrelloni, ma opere efficaci.

Alessandro Raveggi e Enrico Piscitelli

* La seconda parte del testo sarà pubblicata venerdì 23 ottobre 2009