Manganelli e il viaggio: il sogno e la massa

È diffusa usanza dei popoli occidentali organizzare e/o partecipare a viaggi organizzati – catastrofiche gite, famigerati eventi fantozziani che raggruppano una decina una ventina una quindicina di infelici e li sbattono in qualche città d’arte (che, possibilmente, sia irraggiungibile con mezzi più comodi d’un autobus privo di ammortizzatori e sedili) dove dovranno fare una maratona per vedere ogni dettaglio possibile di altari secenteschi, di ciabatte corinzie o sospensori atzechi. Sempre che, costoro, in vena di elargizione, non si siano svenati per venir sistemati su navi da crociera lussureggianti di profferte lubriche e quasi puntualmente disattese. Leggi il resto dell’articolo

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La società dello spettacaaargh! – 8

[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7]

Caro Jacopo,

grazie innanzi tutto per la precisazione sull’Illuminismo. Mi rendo conto che l’avevamo trattato da diverse prospettive, girando un po’ intorno a una sua definizione, solo sfiorata. Faccio presente, per sintetizzare le nostre posizioni e i nostri linguaggi (ma correggi pure se scorgi errori, mi raccomando) come nel breve scritto di Kant sia toccato un discorso da me posto:

Forse una rivoluzione potrà sì determinare l’affrancamento da un dispotismo personale e da un’oppressione avida di guadagno e di potere, ma mai una vera riforma del modo di pensare.

Ossia che la riforma del modo di pensare non può prescindere dal percorso individuale: ci si può emancipare dall’oppressione in quanto istituzione sociale, ma questo non determina, di per sé, una liberazione individuale, in particolare per quanto riguarda le categorie di pensiero. Ciò ritorna anche nel discorso che fai, mi pare, sulla contiguità tra fascismo e berlusconismo (che condivido in particolare sull’elemento che individui, il «me ne frego»): ci siamo liberati di quella nefasta dittatura, ma ciò non ha coinciso, immediatamente e automaticamente, con l’emancipazione dal modo di pensare fascista. Leggi il resto dell’articolo

Le stelle brillano alte, coloratissime.

L’appuntamento era al laghetto, quello sprofondato tra i palazzoni, nel cuore di Bijlmer, il lunedì alle cinque in punto.

Giorno spoglio d’abluzioni in moschea e di talmud in sinagoga, il lunedì, le polpette a riscaldarsi nel brodo dopo il lavoro e le birre Dogo sulle panchine, col tropico impigliato tra i dreadlocks e la voglia, finalmente, d’amici.

Ci guardavamo, ed era scioglievolezza d’occhi e di lingua. Confidenze tra fratelli di latte, certo quattordici anni son tanti, e io un po’ di nostalgia ce l’ho, tu no? C’era chi raccontava che una zia gli aveva scritto una cartolina lunga e sentita, guarda che ce la si passa bene, mica si sta peggio, una volta liberi, gl’aveva mandato a dire, ma c’è da costruire tutto daccapo, zia, e qua il lavoro non manca, che c’entra, non è vita, ma alla fine stiamo tutti insieme, zia, Bijlmer è un po’ come fosse un quartiere di Paramaribo e l’hotch-potch, statti a credere, è buono qua quanto là, gli avrebbe risposto quello, diceva, appena il tempo glielo avesse permesso.

Il sole su Paramaribo: tutti i giorni. A Bijlmer: solo il lunedì, ogni lunedì, quando il calcio e i campioni e la nostra gente soffiavano via, con un fischiettio di merlo, le nuvole, e la fabbrica, e il padrone. I nostri erano discorsi intorno a Gullit e Rijkaard, certo, ma pure Van Gobbel, Reginald Blinker, Wilnis e tutta una manciata sugosa di meno conosciuti, che a spremerla, poi, stai a vedere, magari saltava fuori pure qualcuno col quale avevi fatto a cazzotti da scricciolo.

Io, per esempio, avevo fatto la seconda elementare con Aaron Winter: ricordavo le sue peot e le camicie sgargianti, i sabati in sinagoga la torah e le paure di sua madre; il 1975, il governatore olandese che prepara i bagagli e le insicurezze come serpi che s’insinuano nei pertugi del giubilo; Aaron che col pallone meglio che con le ragazzine; Paramaribo o Amsterdam?, e se fosse stato Amsterdam quando? e dove?, loro che erano per un terzo musulmani, per un terzo ebrei e per l’ultimo terzo neri, con tutto quel reflusso di destra, l’Olanda chissà se è la scelta giusta.

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La falsa vera storia dell’Olandese Volante e del suo capitano Giovanni Vanderdecker detto Giò

Giovanni, si chiama il capitano, Giovanni Vanderdecker. O era Vanderbroncker?
Nessuno lo sa con precisione.
Per questo la ciurma lo chiamava Giò, semplicemente Giò, Giò al mattino quando il mare è di bonaccia, Giò a poppa col libeccio a scompigliargli il ciuffo corvino, Giò quando colpisce la palla di stracci sul ponte della nave da quaranta metri insaccandola nella rete a prua, certe sere freddissime al tramonto, mentre si naviga spediti verso l’isola di Giava.

Sembra che Vanderdecker Giovanni detto Giò, con le Molucche, abbia un conto in sospeso. Molacca è la madre, alle Molucche andava il padre, che di quelle terre amava clima, cibo e fighe; molacca, in un certo qual senso, è pure la figlia della sorella: eggià, è molacca pure quella, che ci si creda o no.

Giò, per raggiungere l’isola di Giava, impiega poco tempo: sessantatré ore, per la precisione. Due giorni e mezzo, più o meno. L’equivalente di sette partite di pallone.
Come se ti piazzi sui seggiolini della Rotterdam Arena e ti sorbisci le ultime sette giornate dell’Eredivisie, Feyenoord-ADO Den Haag, Feyenoord-RKC Walwijk, Ajax-Feyenoord, Feyenoord-PSV, Feyenoord-Twente, Feyenoord-FC Utrecht, Feyenoord-VVV Venlo. Al triplice fischio, Giò è arrivato alle Molucche. Dove l’attende l’oro, e la gloria.

Non che sia mai stato meno che periglioso, il viaggio per arrivare alle Molucche.
Aveva provato, una volta, a passare per l’Atlantico virando verso le Americhe.
Avrebbe dovuto fare scalo tecnico a Buenos Aires e doppiare Capo Horn.
Era il millenovecentosettantotto, e il mozzo Johann, stomaco troppo debole, aveva detto no, guarda, non vengo.
Col cadzo che ce l’avevano fatta, a doppiare Capo Horn.
Giù bestemmie.
Giò era ferratissimo, nelle bestemmie, ne sapeva anche qualcuna in molacco.

Trent’anni dopo, si tratta di doppiare il Capo di Buona Speranza.
Ci sono buone speranze di riuscita.
L’ammiraglio Wesley traccia certe rotte sulle mappe verdi che férmati.
Il capitano di vascello Dirk, brutto come l’invidia, dà le capocciate alle razze che si frappongono sul cammino. E dopo esulta pure.
Lo sembran dire anche i gabbiani: forse è l’anno giusto per issare il gonfalone arancio sulla sommità del mondo.

Ed invece.
Invece capita che al largo di Cape Town, coi brilli iridescenti di Johannesburg a baluginare in lontananza, il cielo cominci a tingersi di rosso.
Le attrezzature di bordo s’inceppano. Un Nettuno dall’insolita glabra mise, arbitro incontestabile di chi va per mare in cerca di gloria, non ti va a sguinzagliare tutta la sua perfidia?
E allora è nervosismo, e bestemmie, giù con le bestemmie di Giò che in confronto ogni sciò di Remo Remotti meriterebbe il palcoscenico della Cappella Sistina.

Un’ora e mezza in balia delle onde.
E non finisce lì.
C’è da patire ancora mezz’ora almeno.
Che te pòssino cecàtte, urla Giò all’Altissimo, vedi tu che ti succede se non ci fai uscire vittoriosi almeno stavolta. Ci farai mica navigare in eterno, porco d’un cane!
Braafheid, fido marinaio ch’a squadrarlo da lontano sembra Candyman, implora perdono segnandosi la croce sul corpo.
Il resto della storia la sapete, non sto qua io a raccontarvela.
Mica son state esaudite, quelle suppliche là.

Insomma, tutto questo amba aradam per dirvi che vi capitasse, che so, tra quattro anni, d’essere in navigazione al largo di Rio de Janeiro piuttosto che non di Salvador de Bahia, e d’incrociare una nave fantasma ch’emana una luce spettrale materializzandosi da un banco di nebbia, credeteci mica a chi vi dice ch’è solo una fata morgana, una semplice illusione ottica, un farfalicchio.

È l’Olandese Volante.
A bordo del quale le anime di Giò, di Frankie De Boer, di Johan Neeskens e di Ruud Krol vagano senza pace, legate da un perfido sortilegio al sempiterno destino di non riuscire a portarsela a casa mai, una dannata Coppa del Mondo.

Fabrizio Gabrielli