Uno sguardo nell’abisso

Alcune riflessioni su Stranieri alla terra di Filippo Tuena.

di Vanni Santoni

Gabriele Ferraresi è un giovanotto assai particolare: oltre ad aver scritto un romanzo molto divertente, trovandosi al Salone Internazionale del Libro di Torino, con tutti gli intellettuali che c’erano a disposizione, ha preferito documentare gli effetti dell’alcol e della deprivazione del sonno su una disgraziata cavia umana. In quello che farfugliai davanti alla sua webcam, c’era tuttavia del vero; mi viene anzi da pensare che il trito motto In vino veritas nasconda forse un significato più profondo: non tanto la povera ammissione dell’ubriaco, quanto la chiaroveggenza profetica dell’inebriato. Perché Stranieri alla terra (Nutrimenti, 2012), che mi ero appena ficcato in borsa, non lo avevo ancora letto, e già vaticinavo che sarebbe stato il miglior libro dell’intera fiera – fiera che non avevo ancora visitato. Oggi che l’ho letto, posso affermare che avevo ragione, non dico con certezza – per l’ovvia impossibilità di leggere tutti i libri della fiera – ma con buona approssimazione, motivata dall’oggettiva eccellenza del testo Leggi il resto dell’articolo

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Se Foscolo non fosse… /1

Ugo Foscolo, come pochi altri artisti, visse la condizione del suo tempo e a lui più che ad altri si addice il detto arabo “I figli somigliano più ai propri tempi che ai propri padri”. Foscolo nacque (guarda la coincidenza) nel 1778, cioè quando vinsero a Saratoga gl’ideali democratici delle tredici colonie americane sull’imperialismo britannico.
Crebbe in un periodo molto particolare, ricchissimo di input per un giovane che sta scoprendo il mondo: nel 1738 era stata scoperta Ercolano, nel ‘748 Pompei. gli scavi condotti in Grecia da Winkelmann avevano portato i frutti sperati, lo stile classico aveva invaso ogni campo artistico dell’epoca, la Rivoluzione Francese stava infiammando i democratici di tutta Europa, Rousseau e Montesquieu erano diventati i filosofi di moda, l’Illuminismo era giunto a maturazione e il Romanticismo portava dovunque aria nuova e stimoli.

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Appunti biodegradabili dalla terra della fantasia – 2

Il tempo è come un carrello al supermercato, ci puoi metter dentro quello che vuoi; ma se non hai i soldi per pagare resta vuoto. Questa avventura a Frigolandia procede nel migliore dei modi. È normale essere entusiasti della vita di campagna dopo qualche settimana, dice Simone Rossi, ma, fatta eccezione per la paura presa venerdì scorso, e l’imprevisto dell’acqua di cui vi dirò più in là, non posso che ritenermi soddisfatto, pacificato, per certi versi: rinato. Perlopiù i giorni se ne sono andati recuperando il lavoro arretrato tralasciato nelle ultime due faticose settimane a Roma. Il trasloco è stato duro, i libri e le cose, accumulate in quasi dieci anni di vita, sembravano non finire. Ho buttato via parecchi ricordi. Oggettini, foglietti, addirittura alcune Leggi il resto dell’articolo

L’inutilità del genio post-moderno /3

Dati i presupposti, non possiamo dimenticare l’importante affermazione che Giorgio Colli fa in La nascita della filosofia («La follia è la matrice della sapienza») e il fatto che i più straordinari documenti dell’antichità, oltre agli illusori testi filosofici (compromessi interamente con l’intangibile se non col folle) e ai reiterativi saggetti (che ruotavano sempre attorno alle stesse cose e sempre negli stessi termini), sono opere teatrali con personaggi che – per i motivi disparati – commettono quelle che oggi (come ieri, spesso) definiremmo “pazzie”: Edipo, Medea, Antigone, Elettra…

Perché il “gesto insano”, conducendo alla catarsi, è tramite per la divinità: come l’idiozia dostoevskijana, che è insania e vocazione mistica.

Tiriamo di nuovo le fila, altrimenti in questa selva di deduzioni e supposizioni potremmo sperderci, e vediamo cosa abbiamo in mano: unità spazio-temporali in dissolvenza, illusione, irrealtà, morbosità, follia, divinità.

Improvvisamente si crea un nesso, anzi, un’equazione:

letteratura : illusione = follia : divinità

ed ecco che nello sputtanatissimo legame fra letteratura e divinità si evidenzia un percorso che passa per la finzione (la nota “finzione letteraria”) e la follia (la “theia mania” platonica del Fedro). Tutti elementi abbastanza risaputi, ma raramente o mai esaminati nella loro sequenza.

Un nuovo quesito movimenta questo dipanarsi: visto che la letteratura è citazione (dovremmo dire “metafora”) della follia e perciò della divinità, data la letteratura corrente, a cosa s’è ridotta la divinità?

Ci sono dei legami nelle opere di autori lontanissimi e nelle opere – ovviamente – del medesimo autore.

E così: fra il Conte Ugolino e i due poveri amanti Paolo e Francesca c’è il legame del racconto in pianto; fra l’Ofelia di Rimbaud e la Marinella di De André c’è il fiume e l’amore di mezzo con stelle e fiordalisi di contorno; Jonson, il poeta del «Lascia un bacio dentro la coppa e io non ti chiederò vino», s’assomiglia nei modi e in alcuni tratti biografici al Catullo di «Odi et amo»; Zorba e l’Inglese di Kazantzakis altri non sono se non il Dionisio e l’Apollo di Nietzsche.

Lo strutturalismo, se vuol fissare delle Gestalt che si meritino questo nome, deve fare a meno di limiti e compartimenti stagni: la struttura del materiale culturale con cui opera dev’essere leggera e interscambiabile, levigata e pronta a combaciare con ogni cosa.

Quindi, la divinità sottesa (anche se involontariamente… involontariamente per gli autori medesimi, ovviamente) alla letteratura contemporanea non deve avere troppi legami e deve potersi accostare a tutto – esattamente come i personaggi e le situazioni di cui abbiamo parlato qualche riga fa.

I principi e i valori devono farsi trasparenti e volatili. Leggerezza, raccomandava Calvino nelle Lezioni americane.

Ma i principi sono anche la trama: sono spinte su cui si muovono i personaggi. Principi volatili danno personaggi inesistenti e plot cadenti.

Rispondiamo alla nostra domanda: la divinità – motore sotteso e originario delle letteratura – è svanita, o meglio s’è ridotta alla sua effige: la follia.

Ambiguità e ironia

Humbert Humbert, l’Abate Faria, Hannibal Lecter, il Vecchio della Montagna, Eraclito, Omero, Tiresia, Edipo, Buddha, il Mago di Oz, Nero Wolfe, perfino Babbo Natale: tutti questi personaggi (e molti altri affini) recano in sé delle tracce mai soppresse e sempre presenti in certe figure letterarie.

L’Oracolo in Matrix o la figura del profeta nei Libri Sacri o Sherlock Holmes: questi tre i grumi in cui, più che in altri personaggi, si sono mostrate le tendenze della letteratura occidentale.

Onniscienza. Ombra. Onnipotenza.

Tutti i personaggi che ho elencato poco fa hanno tre caratteristiche che manifestano singolarmente o accoppiate o nel complesso: vivono nell’ombra, intesa in senso lato (Holmes, per esempio, si traveste e vive immerso nel fumo o nella nebbia); sono, o sembrano, onniscienti; giocano con la vita e la morte perché sono immortali o perché si sentono tali oltre che onnipotenti.

Lo scrittore non s’è mai liberato di queste tre fascinazioni: il sapere, il vedere e il potere. Perché il sapere è anche potere, ma questa capacità di conoscenza (e dunque di dominio) si esplica meglio laddove gli altri non vedono: lo scrittore, così addentro alle parole, sente anche di poter manipolare come vuole i concetti, quindi la verità medesima, quindi – in ultima istanza – la vita degli altri. Perché gli altri sono ignoranti, perché non vedono, e dunque niente possono più di chi mette loro in bocca le parole di cui si servono come sonnambuli. Questa malattia degli scrittori, io la chiamo “sindrome di Polo”, dal nome del personaggio del Gorgia di Platone: consiste nell’immaginare di controllare tutto e di vivere in una trama solo perché si controlla il linguaggio, e lo spirito degli altri attraverso il controllo sul linguaggio.

Questa tendenza s’è estrinsecata, quantomeno in me, nel patologico citazionismo de Il volo interrotto, nel suo amore per l’ambiguità del dubbio dell’indeterminazione e dell’ombra, nel suo raffigurare omicidi che somigliano più a gesti quotidiani che ad attentati contro tutto ciò a cui siamo stati educati.

Ed è in fondo questo il principio di tutti i libri che si propongono oggi di essere “creativi”: l’omicidio, la conoscenza, l’ambiguità.

La generazione pulp sbandierava e sbandiera la violenza, i moderni giallisti la conoscenza, e tutti gli autori, nessuno escluso, l’ambiguità (che, per loro pochezza, s’è ridotta quasi esclusivamente ad ambiguità sessuale e non è molto di più della parodia di se stessa).

L’ambiguità siede allo stesso tavolo dell’ironia: dov’è finita l’ironia? Nei libri di oggi non ce n’è traccia.

Spostiamo allora la nostra attenzione su questi due ambiti: ambiguità e ironia.

Antonio Romano

Lettera aperta alla mia Nazione

spettabile Nazione,

ti scrivo per dirti che ormai non capisci più un tubo, ma stai tranquilla, siamo in due. Sospetto in realtà si sia molti di più, però, cara Nazione, non essendo in grado di saperlo con certezza, ti scrivo questa lettera aperta così magari la legge qualcuno che capisce più di me e mi spiega come sistemare le cose.
Ti scrivo avendo letto l’ennesimo intervento / articolo / intervista di stampo scientifico, anzi, di stampo “scientifico”, che dovrebbe spiegarmi con logica inoppugnabile perché sbaglio, perché ho sbagliato tutto e perché, probabilmente, continuerò a farlo.
Metaforicamente parlando, se la realtà fosse una formica, ho constatato ormai da molto tempo come questi tuoi illustri e assai ingegnosi figli siano bravissimi a dirmi di quali molecole è composta una formica, ad elencarmi i tipi di formiche attualmente presenti sulla terra, dividendoli per ecosistemi, e a descrivermi minuziosamente il ciclo vitale di una formica. Però questi tuoi illustri e assai ingegnosi figli, se gli mostro una formica, mi guardano stralunati: “che è?”; “una formica”; “ah davvero? Aspetta che prelevo un campione per controllare se è vero”. Spettabile Nazione, scusa se te lo dico, ma a me non la fai, pure se sono fesso. A te della realtà, delle narrazioni della realtà, della scienza, dei tubi, della logica, di Aristotele, della retorica, della poesia, dello stato sociale non te ne frega niente; come non te ne frega niente neanche del capitalismo, del liberismo, dello stato federale, del cemento, del verde, dei rifiuti, delle formiche, del cha cha cha e del quaquaraquà. Ma mica perché sei cattiva, no. Io ti vedo più che altro come il nonno con cui uno è cresciuto, e che ad un certo punto si scopre essere malato di Alzheimer; inizialmente sembrava solo diventato un po’ più eccentrico del solito, ma ad un certo punto diventa evidente che ha l’Alzheimer. Per cui ora, quando il nonno inizia a parlare che so, di Kant (il nonno era una scheggia, su certi argomenti), lì per lì lo stai pure ad ascoltare, perché Kant è Kant e fa sempre la sua porca figura. Però poi mentre parla il nonno si ferma e sbava, oppure si ferma e, come se niente fosse, inizia il discorso daccapo, come un cd che ripete all’infinito la stessa canzone; oppure salta di palo in frasca, da un argomento all’altro, come un concept album con la riproduzione casuale. Io nel secondo caso potrei pensare ad una nuova narrazione volta a superare Kant, ma se lo facessi sarei più scemo di mio nonno con l’Alzheimer (manco a dirlo, ci sono un sacco di nipoti convinti invece che il nonno non sia rincoglionito, ma metanarrativo).
Spettabile Nazione, un Baricco, per dire, ti fa male con questa storia dei barbari e del 2026, ma capisci, lui campa con la ricerca sull’Alzheimer: se si trova la cura, dovrà affrontare la disoccupazione, e non ci è abituato. Molto meglio campare in quell’ampia nicchia che separa un male curabile da uno trattabile. Non me la sento nemmeno di dargli torto, perché nessuno è realmente pronto ad affrontare la disoccupazione: l’importante, però, è che nessuno mi domandi mai di giustificare la mia paradigmatica idiosincrasia per i Baricco, altrimenti dovrei rispondere con aforismi improvvisati, del tipo “Omero era ispirato dalla Musa, Baricco dal commercialista”. Io non ho di questi problemi, per cui te lo dico chiaro e tondo, consapevole che, in pratica, sto urlando contro mio nonno con l’Alzheimer, quindi contro uno che manco mi ascolta; c’è caso anche che si faccia la pipì addosso mentre invado l’aria con una brillante metafora o un gustosissimo climax ascendente. Ma uno al nonno gli vuole bene, pure se c’ha l’Alzheimer, pure se è cachettico, perché fa parte della famiglia, della tradizione: da qui il mio ridicolo dramma umano, che non riesco ad evitare.
Tu, spettabile Nazione, nel migliore dei casi vivi nella convinzione che la logica di Aristotele basti ad afferrare il minimo comune denominatore che tiene la realtà sopra il baratro del nulla. Ma io so che è un’illusione.
Non è vero che se A=A allora A≠B. Un qualunque burocrate distrugge questo assunto di partenza almeno una volta al giorno. Faccio un esempio. Attualmente io sono un dottorando (un fannullone): per l’Università, che è un sotto insieme dello Stato Italiano, (molto sotto e poco insieme) io sono considerato un borsista, uno studente/borsista per la precisione, e non un lavoratore (un fannullone a norma di legge, per l’appunto). Per l’INPS, presso cui ho presentato documentazione affinché l’Università iniziasse ad erogare la borsa di studio, INPS che a sua volta è un sotto insieme dello Stato Italiano, io non sono uno studente-borsista, poiché l’INPS non contempla, nell’apposito modulo, la categoria studente-borsista. Per l’INPS dunque io sono un lavoratore a progetto. Quindi se A=studente-borsista e B=lavoratore a progetto, per Aristotele A=A, B=B, A≠B, per lo Stato Italiano A=B e Aristotele=nulla.
Oppure tu, spettabile Nazione, vivi nella convinzione che, poiché Aristotele=nulla, allora Aristotele è inutile, esticazzi Aristotele e chi per lui. Perciò balli sul Titanic che affonda, gasandoti come una totale idiota perché diventi sempre più brava a ballare. Ballare è una cosa pratica, Aristotele son chiacchere: “l’ignoranza è forza”, diceva qualcuno che manco sai chi sia, ma di cui però ti adorni. Appena provo a dirti che il Titanic sta per affondare, che è il caso di organizzarsi per calare in mare le scialuppe e provare a salvarsi, mi prendi a male parole perché, nella tua idiozia, auto inflitta, alimentata dai tuoi compagni di ballo, sei davvero convinta che, sotto sotto, chi parla di naufragi, scialuppe e salvezza invidi la tua bravura nel ballare. Oppure, mentre balli, te ne esci con un sofisma che riscuote gran plauso, chiedendo che ti venga dimostrato dialetticamente il pericolo di naufragio. Oppure tu non balli, ma vivi sul Titanic criticando con solidi argomenti quelli che ballano, e mentre mi danno e impreco per cercare ‘sta benedetta scialuppa, mi fai notare che ho sbagliato modo di parlare della scialuppa, per cui è naturale che poi chi balla continui a farlo. Io lì per lì, essendo in pericolo di vita, non trovo di meglio che mandarti affanculo, e allora tu sciorini una filippica incentrata sul mio fascismo. E, a fronte di tutto ciò, mi devo sentire un inetto perché non so remare da solo per l’oceano, e mi trovo come una sfigatissima Cassandra su una nave che affonda.
Tu, dunque, vivi e fai vivere nell’illusione che l’uomo si sia evoluto dalla scimmia: una visione naturalmente più sensata di quella creazionista, che ancora deve spiegare in quale giorno Dio abbia creato il Tirannosauro (tra la notte del terzo e l’alba del quarto?), ma una visione che dimentica un dato. Essersi evoluti dalla scimmia non significa essersene emancipati. E se una scimmia con in mano La Divina Commedia può far sorridere, una scimmia convinta di conoscere La Divina Commedia mi provoca paura e orrore. Perciò, spettabile Nazione, in attesa che qualcuno mi dia la soluzione, e mi spieghi come sistemare questi benedetti tubi che non capisco, ti lascio parafrasando il poeta:

sprofonda in questo tuo bel mare / vattene a morì ammazzata

Distinti saluti,
tuo affezionatissimo Matteo

P.S. Allego CV per la civiltà che prenderà il tuo posto*.
* (disponibile a lavorare anche part time)
Matteo Pascoletti

Metodica delle cose inutili – Ancora sul potere

Ancora sul potere.

Dobbiamo tornare sul fondamentale concetto di potere, così come siamo arrivati ad intenderlo, ossia come potere da ottenere contro qualcuno o qualcosa, e da esercitare contro qualcuno o qualcosa. Abbiamo definito con rigore questa concezione come servile, perché il fine al quale ci chiama una simile lotta è quella di vedere gli altri assoggettati. Potremmo completare il concetto rivelando come anche chi si ritrova ad assoggettare gli altri è, inoltre, non meno asservito dei primi, non potendo fare a meno del vincolo di servitù che lo lega con costoro. Si obietterà che così si ritorna in qualche modo, sottilmente, al prototipo del re come colui che è comandato di comandare, e al potere come servizio. L’obiezione cade nel vuoto perché si dà per ovvio che l’inutilità altro non sia che una denigrazione e una parodia della realtà prototipa, che, purtroppo, non può essere eliminata e incombe sempre come minaccia.

Studieremo ora come il potere, nei suoi diversi stili, non può e non deve fare a meno di ripetere minuziosamente questi meccanismi servili.

A partire dal suo linguaggio. I greci, che hanno tanto pensato sull’uomo, privilegiandolo sul divino, concepiscono la natura umana come intrinsecamente infelice. Ad essere felici sono gli dei, con i quali, eppure, condividiamo la medesima matrice: sia un dio che un uomo nasce dalla terra. È questa comune matrice che fa sperare il greco in una perfettibilità dell’uomo che lo possa rendere simile a un dio. Simile a un dio, e negato ad un destino di disperazione, appare in Omero il feroce Agamennone e, suo contraltare, il capriccioso Achille. Aristotele non vorrà troppo allontanarsi da questa fantasia, reputando l’uomo, in quanto eretto e pensante, simile a un nume e, quindi, in cima ad una immaginifica scala gerarchica che lo pone al di sopra della natura. La natura può essere usata a piacimento dall’uomo. E non solo, perché, fra gli uomini c’è chi è più divino, eretto e pensante: per esempio il maschio nei confronti della femmina e, giacché qualcuno nasce schiavo di natura (non ci può essere altra spiegazione!), il padrone nei confronti del servitore. E da questa figurazione nevrotica, in chiave malinconica, nutrita di senso di inferiorità e mania di persecuzione che deriviamo in scioltezza il linguaggio della supremazia e della sudditanza. Una necessità insieme di supremazia e sudditanza. Chi non vede bene subito questo blocco, può essere illuminato dall’importanza data nelle determinazioni del potere alla parola controllo. Controllo è una parola che ci è molto famigliare. Non c’è bisogno di ricordare che la nevrosi altro non è che un particolare modo di usare la propria fantasia, imbrigliandola in concetti chiusi e oppositivi, concretizzati realisticamente (quel realistico parodia della realtà): per sua natura è una forza che si oppone al libero fluire della realtà. La parola controllo (contra rotulum, contro il rotolare) è la parola di questa opposizione. Tutti sappiamo che dobbiamo avere tutto sotto controllo o conosciamo la premura degli stati ad offrire garantita la sicurezza per tutti: queste sono solo un esempio delle tante parole chiave che costituiscono quella intima soddisfazione del piacere personale di ogni paranoico. Una paranoia soddisfatta al punto tale da potere essere definiti fra i primi mattoncini della nostra concezione del potere. Controllando, infatti, non facciamo altro che instaurare con la realtà un rapporto fatto di vincoli, e di asservirci in esso. Rinunciando al libero fluire della realtà, del resto, rinunciamo a quella forza libera che i greci chiamavano Dioniso. Rinunciamo a un potere reale per una rassicurante esistenza di servaggio. E dall’istinto al controllo che viene il vincolo della supremazia e del controllo.

Se ora siamo tutti edotti su come il controllo sia costitutivo nella nostra concezione servile del potere, possiamo passare alla valutazione di quegli stili che ci permettono, per così dire, di usare la macchina. Dovremo insomma parlare del prestigio, dell’ambizione, dell’efficienza, del carisma.

Pier Paolo Di Mino

Metodica delle cose inutili – Ancora sulla psicologia e le pratiche spirituali

Ancora sulla psicologia e le pratiche spirituali.

Questo numero della nostra rubrica insiste ancora sul tema dell’uso della psicologia e della pratica spirituale: ognuno è libero di trarre da questa insistenza una sua personale considerazione sulla centralità di queste due branche del mercato nelle nostre esistenze.

Ed è proprio questa centralità che ci impone di scegliere bene, tra le tante offerte, quella migliore, la più adatta, dico, a praticare l’inutilità, ad essere inutili. Queste poche note varranno come un semplice e agile vademecum.

Diffidate gente (questo vale sempre) dalla complessità; la complessità ingolfa l’immaginazione, e quindi fa cultura; e la cultura gonfia, come dice San Paolo: e questo è peccato. E, allora, la prima cosa che dovrete fare nel diventare clienti di uno psicologo o di un maestro spirituale è che la sua dottrina operi innanzitutto su un candido semplificatore appiattimento della vostra compagine esistenziale. Qualcuno vorrebbe farvi cadere in mille lacci; qualcuno vi verrà prima o poi a raccontare che l’anima nessuno può dire che esista, ma nessuno può dire che non faccia per intero tutta la nostra vita. Quale astruseria! È più facile e chiaro dire che l’anima esiste punto e basta (come nella storia del rabbino che incontra un suo collega e gli dice che Dio gli ha parlato; il secondo rabbino non gli crede, gli chiede di dimostraglielo se non vuole passare per mendace. Ma il primo se la cava benone: Dio non parlerebbe mai a un bugiardo). Imponendoci che l’anima esiste punto e basta otteniamo un risultato importante (si chiama concretismo): l’unica domanda successiva possibile è: allora dov’è l’anima? La risposta più semplice che sia stata trovata è: dentro. Tagliare l’anima da dove è sempre stata, fuori, nel mondo (anima mundi) viene comodo alla nostra causa perché riporta tutto al privato, in greco idios, da cui idiota: e voglio vedere qualcuno dirmi che essere idioti e inutili non sia la stessa cosa. A quel punto noi abbiamo l’anima che è una cosa che abbiamo dentro, al buio, chiusa. E al buio, e poi col fatto che siamo idioti, non riusciamo più a distinguerla dallo spirito, non sappiamo vederla differenziata nei sui vari aspetti, nelle sue infinite anime (ci fanno pena i poveri neoplatonici con le loro demonologie).

Allora badate bene che il vostro psicologo o il vostro maestro vi dica che dentro avete qualcosa (spirito, anima, prana, energia, superpoteri) che non si capisce bene cosa sia, ma che, per essere tenuta stantia dentro, e poi dentro un idiota, è malata. E qui dobbiamo passare al secondo punto fondamentale: se uno è malato va curato. Così dobbiamo ragionare.

Una volta se uno era cieco lo mettevano a fare il poeta, tipo Omero, o, fino a sessant’anni fa in Giappone, lo sciamano (lo Stato totalitario nipponico si è efficientemente liberato da questo retrivo retaggio: ora i ciechi fanno i barboni). Uno che è malato va curato. Cosa otteniamo con questo? Che l’uomo, per dire, è all’ottanta per cento fatto di acqua, e il resto sono cattivi pensieri, sogni conturbanti, strane fantasie, ansie, manie, paranoie: ci curiamo, leviamo le ansie e le paranoie, e cosa otteniamo? Diventiamo delle bottiglie d’acqua.

E così la sera torniamo a casa, dopo esserci mondati dai peccati lì dallo psicologo o dal guru, nella nostra casa privata, come degli idioti; ci poggiamo sul nostro tavolino come una bottiglia, e possiamo constatare di essere puri e calmi, anche se questa casa non la pagherò mai, anche se non ho un lavoro fisso, anche se per me non ha un vero senso vivere e non mi fa neanche più effetto che stanno massacrando di botte sotto casa mia degli emigrati.

Tanto è sotto, è fuori, dove non ho più anima.

Pier Paolo Di Mino