Factory 12.47

Testo di Saverio Fattori
Video: Antonio Nazzaro
Voce recitante: Ezio Falcomer

Incipit di un romanzo che verrà presentato alla Fiera del libro di Roma a dicembre in anteprima, per uscire a inizio anno nuovo per l’editore Gaffi. È la rielaborazione di un testo uscito a puntate su Carmilla al quale ha collaborato come editor Giulio Mozzi. Leggi il resto dell’articolo

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Trilogia sull’operaio – Caterina ovvero l’accoppiamento della lumaca

Conobbi la signora Caterina Manzone al telefono,circa sei mesi fa, in autunno.

Buongiorno… il signor De Rossi?”

Si, sono io. Con chi parlo?”

Mi chiamo Caterina. Ho letto il suo annuncio nella bacheca dell’ospedale. L’ho chiamata perché ho da tinteggiare una stanza, lei è libero?”
“Domani mattina concludo un lavoro di ristrutturazione in un appartamento. Se mi da il suo indirizzo, nel pomeriggio passo da lei per farle un preventivo. Senza impegno, naturalmente!”

Si, domani pomeriggio è perfetto! Sarebbe ottimo per me verso le sei!”

Le sei. Ok, va benissimo!”
“Il mio indirizzo è: via Uderisi da Gubbio numero venti. Al citofono: Manzone-Ceccarini.”

“…Manzone… allora ci vediamo domani, alle sei!”
“Perfetto, grazie mille! A domani!”

Il pomeriggio del giorno seguente, mi presentai all’indirizzo che la signora, al telefono, mi aveva indicato.

Mi fu offerto un caffè annacquato che, quasi subito, si mise a pungere l’intestino.

Mi fece vedere la stanza: una camera da letto di quattro metri per tre che, dall’arredamento e dalle suppellettili, sembrava appartenere a un ragazzo poco più che adolescente.

Le riferii il costo del mio preventivo, materiali compresi.

Lei accettò di buon grado dicendomi, tra l’altro, che il prezzo le sembrava conveniente. Si soffermò su quel fatto: “Non è che mi fa pagare tanto poco perché farà un lavoro a tirar via?”
“Non si preoccupi! Faccio l’imbianchino da anni! Può stare tranquilla!”

Mi spiegò che avrebbero portato via i mobili entro due giorni, che avrei trovato, dunque, la stanza sgombra da ogni impedimento.

Avevo una strana sensazione.

In una situazione normale avrei chiesto qualcosa in più su quella stanza. Sul perché degli spostamenti. Qualcos’altro. Invece era come se non mi fossi dovuto azzardare a togliere il coperchio dalla scatola: proprio questa, la metafora che mi venne in mente per prima.

Caterina era una bellissima donna. Di quelle abbondanti nelle forme e generose nei fianchi. Per nulla grassa.

Al telefono avevo pensato che avesse una voce molto sensuale anche se le sue corde vocali avevano, nel proferire parola, uno strano modo di nascondere il vibrato gracchiare dato dallo strazio.

L’avrei richiamata io, due giorni dopo, per chiederle se era stato portato via tutto. In caso di risposta affermativa avrei dunque iniziato.

Presi le scale velocemente dopo averla salutata. Le sgradevoli vibrazioni che avevo sentito vennero sopraffatte dalla certezza dello stare lì lì per cagarsi addosso.

Dicevo di essere un imbianchino solo perché avevo imparato un poco a farlo. Non da molto. Avevo mentito alla signora. E non le avevo fatto un buon prezzo perché ero un onesto operaio: avevo un disperato bisogno di soldi.

Ormai allo stremo delle mie finanze, licenziato dall’ennesimo lavoro da scimmia, avevo stampato volantini che distribuivo in giro, nelle cassette delle lettere, oppure appesi in bacheche, in mezzo ad altri milioni di annunci: “Imbianchino esegue lavori di tinteggiatura: appartamenti, zone interne ed esterne, bagni, cucine, grate, inferriate, ringhiere, porte, persiane, ecc ecc. Materiali di prima scelta, massima convenienza, onestà e qualità. De Rossi Armando 33898765”

Ma il mondo dell’edilizia non è rose e fiori. Sono pochi i guadagni se non si hanno i giusti agganci. E non ero nemmeno bravo come dicevo in giro e scrivevo sugli annunci.

Quando richiamai Caterina, lei mi rispose come se fossi stata la prima persona a parlare dentro alla sua cornetta in quei giorni. Era tutto a posto.

Il giorno seguente caricai vernici, scala e altro in macchina per trovarmi, alle otto e mezza del mattino sotto il portone della signora Manzone.

Dopo aver rifiutato il caffè che mi aveva offerto, con la scusa di averne appena bevuto uno, cominciai di buona lena a lavorare. Era una cosa di un paio di giorni. Niente di difficile, per fortuna.

Io e la padrona di casa cominciammo a darci del tu a metà mattinata, quando mi avvertì che sarebbe andata a fare la spesa e mi disse di fare come se fossi a casa mia per l’acqua da bere o altro.

Il pennello, intriso di vernice, scivolava sul soffitto uguale ad altre mille volte con i suoi “squash” intervallati ai miei respiri, sempre più affannosi.

Tornò verso mezzogiorno: “Hai fame? Ti preparo qualcosa?”

Grazie, ma sono abituato a lavorare filato, senza fermarmi per pranzo! In questo modo posso terminare prima la mia giornata lavorativa!”

Questa era una mezza verità.

Finire alle tre, massimo alle quattro, mi sembrava un buon modo per non passare la giornata a lavorare. Era vero anche che il languore che pian piano diveniva morso nello stomaco, mi faceva sentire meno solo. Era un masochistico rituale che perpetravo di continuo. Il dolore riusciva a distrarre i pensieri tristi e autolesionisti di quei giorni, facendomi sentire veramente di carne e viscere, umano insomma, come non ricordavo più di essere da molto tempo.

Va bene, se proprio non ti va di pranzare, lascia che ti offra almeno un panino!”

Accettai. Nemmeno uno come me avrebbe potuto rifiutare un’offerta così ridimensionata.

Non ricordo molto di quella giornata. Questo perché ci fu un particolare che spazzò via gli altri.

Mentre, appoggiato alla scala, mangiavo il panino preparatomi dalla donna, essa mi raccontò un poco della sua vita, un paio di fatti che cominciarono a dare spiegazione alle strane impressioni dei giorni precedenti.

Suo marito l’aveva lasciata. Aveva chiesto il divorzio, ottenendolo. Caterina aveva saputo che si era messo a convivere con una ventiduenne polacca.

Una storia come tante che avevo sentito.

Lei rimase a vivere lì col figlio.

Il secondo anno dalla fuga del marito Gianluca, il figlio, si ammalò. Tumore al pancreas. Nel giro di quattro mesi andò al creatore , tenendo la mano della madre e dicendole, con un filo di voce, di non preoccuparsi, sarebbe stato bene dove stava andando. Sedici anni e mezzo, la durata della sua vita.

Caterina aveva deciso di svuotare e ridipingere la camera da letto del ragazzo morto. Per via del dolore.

Sulla via del ritorno, in macchina, entrai per qualche minuto nei panni di Caterina.

Doveva essere terribile la sua vita da quando un destino beffardo, con un paio di mosse, l’aveva messa in una situazione di scacco emotivo da cui sarebbe stato difficile uscire.

In stati depressivi come quello che stavo attraversando in quel periodo, le sensazioni colpiscono fiacche, senza forza. Tutto si appiattisce inesorabilmente e le emozioni da rare si fanno via via inesistenti, qualsiasi cosa accada.

Invece il pensiero di quella donna splendida, incatenata per sempre alle conseguenze di un dolore tanto forte da paralizzare, riusciva a farsi largo a spallate, percuotendo a calci il mio umore.

Secondo giorno.

Arrivai a buon punto già prima delle tredici. A quell’ora Caterina apparve sulla porta. Sapevo che mi avrebbe chiesto qualcosa riguardo al pranzo, magari rinnovando la proposta del panino: “Va bene che vuoi finir presto di lavorare, però stavolta conviene tu faccia un’eccezione! Sto preparando una lasagna… a volte conviene staccare un poco più tardi per godersi i piaceri della vita o no?”

Aggiunse un tono impercettibile di volgare malizia al termine di questa frase. Eccitante se in grado di carpirla.

Mezz’ora più tardi eravamo seduti uno di fronte all’altra, sul tavolo della cucina, a mangiare quella prelibatezza.

Era una cuoca pessima. Nonostante ciò mi dilungai in lunghi apprezzamenti e teorie culinarie atte a glorificare il suo lavoro.

Il suo seno straripava oltre il maglione rosso troppo scollato.

Mai avrei tentato un approccio con quella donna. La mia mente era malata già da un po’. Colpa dello stress, del progresso, del lavoro, delle opportunità. Colpa mia. Avevo pensato al suicidio già molte volte, più che altro prendendo in considerazione l’eventualità e rimandando i tentativi di volta in volta.

Depressione. Una malattia da annoverare tra le peggiori.

Figurarsi se, ridotto com’era il mio stato d’animo, avrei potuto impegnarmi a rimorchiare una donna molto più grande di me, con un fascino ineguagliabile e una situazione alle spalle capace di intimidire tutti qui problemi che mi apparivano insormontabili.

Perciò mangiavo quella pappa disgustosa, la stavo a sentire, rispettavo le buone maniere. Certo non potevo fare a meno di buttare l’occhio su quelle tette enormi e sode.

Lei se ne accorse e fece finta di niente.

Dopo mangiato finii, in breve, quel che mancava alla tinteggiatura della stanza. Accatastai tutti gli attrezzi fuori dalla porta d’ingresso. Con un paio di viaggi li avrei poi caricati in macchina.

Caterina nell’allungarmi i soldi, mi afferrò dall’avambraccio con lo scopo di portarmi a lei.

Fronte contro fronte. Pressati uno all’altra.

Mi trascinò in camera da letto.

Non opposi la minima resistenza.

Chi ha mai visto due lumache che si accoppiano saprà che esse, nell’atto, si fondono in un unico gelatinoso filamento palpitante di muco e carne biancastra. Un solo essere alieno creato dall’unione di due viscide metà.

Il nostro gorgo di sesso fu qualcosa del genere.

Afferravo perché ovunque c’era da afferrare. Caterina era intorno a me e conferiva un senso di pienezza al tutto.

Le prime gocce della mia essenza picchettarono dolorosamente l’inizio del mio orgasmo, risultato inevitabile di una interminabile percossa.

Sensazione di essere fuori luogo.

Sensazione di sporcizia e nausea.

Desiderio irrefrenabile di rivestirsi e andar via.

Caterina, con la testa appoggiata al mio petto, pian piano iniziò a sobbalzare per poi esplodere in un pianto vigoroso ancor più del suo godere.

Dalla gola, pian piano, sempre più in alto, saliva il rospo della mia angoscia che veniva alimentato di continuo da emozioni immensamente poderose.

Piangemmo insieme per un po’ e mi piacque più della violenta scopata di qualche minuto prima.

Lacrime più salate del solito, figlie di un pianto che per troppo era rimasto dimenticato in un angolo oscuro.

Fu quella la fine del mio stato di depressione e l’inizio del resto della vita.

Da quel giorno non ebbi più nessun tipo di contatto con la signora Manzone.

Luca Piccolino

Trilogia sull’operaio – Misericordia

L’ambiente, intorno a me, era illuminato appena. Questo faceva sembrare tutto un poco più cupo e misterioso.

Il mio lavoro era semplice.

Si trattava di sgomberare l’intero sotterraneo di un palazzo.

I sei livelli sopra di me erano uffici di una banca.

Per decenni quel sotterraneo era rimasto in disuso, utilizzato solo come magazzino per qualche vecchio mobile, materiale di scarto derivato dalla costruzione dell’edificio stesso e ciarpame vario.

Ma con l’arrivo di un nuovo direttore, si era deciso ad un ampliamento di organico e alla conseguente ristrutturazione di quel gigantesco ambiente da adibire a nuovi uffici.

Queste cose me le aveva spiegate Ennio.

Ennio era il capo.

Un uomo di mezza età che aveva chiamato una decina di disperati per quel lavoro faticoso e mal retribuito.

Stette a guardarci per un paio d’ore.

Quando fu sicuro di aver trovato gli uomini giusti si assentò, ritornando poi a sprazzi per impartire qualche ordine ad ognuno.

Era abbastanza grasso ed unto per fare schifo.

Anche se in realtà non conosceva nessuno di noi si permetteva di mandarci a fanculo e fare battute di bassa lega.

La fede d’oro, che portava sull’anulare sinistro, dimostrava che era sposato ed ipotizzava che quell’uomo fosse stato in grado di riprodursi.

Il sotterraneo era un luogo malsano.

Non c’era pavimentazione ma uno strato spesso di polvere rossastra. Materiale di scarto edile, appunto. Una polvere fine che si sollevava ad ogni passo.

Avevo già fatto lavori del genere in momenti come quello. Cioè quando ero a corto di soldi.

Proprio per via della mia esperienza, avevo pensato bene di portare con me una maschera antigas che avevo avuto in dotazione da un capo molto più affabile di Ennio, una volta che avevo fatto un lavoro simile.

La mia maschera antigas era un attrezzo di gomma e plastica con due filtri sulla parte anteriore che depuravano l’aria che respiravo fermando i vapori e le polveri nocive e dando alla respirazione il rumore sibilante di un soffio costante. Sulle mani avevo dei guanti pesanti di cuoio ma il resto del mio corpo non era protetto e alla pelle tesa e sudata delle mie braccia, si attaccava sporcizia volatile dal colore scuro.

Un paio di altri operai italiani avevano portato con loro delle maschere. Un altro aveva legato un fazzoletto alla la faccia illudendosi così di salvarsi l’apparato respiratorio.

Gli altri operai, probabilmente romeni, non usavano nessuna protezione. Respiravano, lavoravano e sputavano catarro nero di tanto in tanto.

Caricavamo su un camion quello che portavamo fuori. Il tutto poi, sarebbe andato a finire in discarica.

Ero nel lato più buio del locale.

Seguivo con lo sguardo lo svilupparsi sempre più oscuro del luogo dove mi trovavo. Per capire dove mettere i piedi.

Vidi a terra qualcosa.

Due gambette scheletrite e piegate.

L’impressione fu immediata. Un feto.

Mi avvicinai per constatare quella che poteva essere la scoperta più macabra della mia vita.

Era un gatto morto.

Non so dirlo con certezza, naturalmente, ma credo che fosse rimasto lì da più di un decennio.

I vermi avevano terminato il loro lavoro da tempo.

Ciocche di pelo grigie erano rimaste alternate sul corpo che per la maggiore era coperto da una patina bianca abbastanza spessa, forse muffa.

Il pelo era rimasto quasi per intero sulla testa.

Mi colpì come quel muso avesse ancora, nonostante tutto, l’espressione tipica del gatto.

Sembrava, a vederlo, che fosse morto serenamente.

In piccole parti, sul collo, era sopravvissuta una pelle dall’apparenza indurita. Una cotenna di muscoli fibrosi.

Finii il mio lavoro in quel punto, in compagnia di quel micio che mi guardava senza occhi.

Forse non era il caso di lasciarlo lì.

Forse avrei dovuto seppellirlo.

E perché non metterlo in un sacco e buttarlo semplicemente?

Il feto che avevo creduto di vedere. Quello si avrebbe meritato una sepoltura.

Mettersi a scavare per un gatto vissuto chissà quanti anni prima.

Valeva la pena?

Avevo sentito dire che non c’è anima negli animali.

Erano in tanti a sostenerlo. Lo dicevano anche i preti.

Alla luce di ciò quel gatto era degno di andare a finire nella mondezza, insieme al resto.

Era però da un bel po’ di tempo che non credevo più ai preti.

E mi solleticava maggiormente l’idea misericordiosa di porre un semplice rispetto per quel che non era più. Senza distinzione di specie.

Lo lasciai lì.

Avevo ancora molto da fare ed il sudore mi accecava gli occhi.

Passarono le ore e continuai il mio operato, impegnando ancora la testa in ragionamenti che sarebbe meglio lasciar tacere.

Non era facile infilarsi nelle maglie delle domande e dei dubbi e contemporaneamente far bene il proprio lavoro.

Ma vi riuscii.

Tutto il sotterraneo era sgombro.

A terra, rimanevano solo piccoli frammenti di vetro, plastica ed altro.

Ennio era soddisfatto.

Gli chiesi :” E adesso? Come andranno avanti i lavori?”

Mi rispose secco:”Domani arrivano con un paio di bobcat che appiattiranno il suolo, in modo da inglobare in esso quei pezzetti che noi abbiamo lasciato. Poi ci sarà la gettata di cemento che coprirà tutto!”

Dopo le parole di Ennio mi rimisi la maschera, presi una pala e rientrai nel sotterraneo.

Ne riuscii poco dopo con adagiati sul palmo di quella vanga, i resti di un gatto morto.

Poi presi a scavare in un’aiuola.

Era tardi e gli uffici erano chiusi ormai.

Nessuno mi avrebbe visto e avrebbe avuto a protestare su quello che stavo facendo.

Depositai il gatto sul fondo della buca e ricoprii il tutto.

Ennio ed uno dei romeni, mi osservavano parlando e ridacchiando.

Poi presi i soldi che mi spettavano e me ne andai.

Luca Piccolino