Orfeo e Euridice a Lampedusa

Oggi ho visto una ragazza che ti assomigliava. A dire il vero non è proprio che ti assomigliasse, aveva capelli biondo scuro e occhi verdognoli del Nord, che nulla avevano a che fare con i tuoi colori scuri. Però c’era qualcosa nel suo sguardo che mi ricordava te, il modo in cui i suoi occhi deridevano il mondo, in cui sfuggivano continuamente ad ogni controllo. Maledetti quegli occhi che non hanno saputo guardare avanti, e che io non sono stato in grado di governare.

Era un poco più grande di te, credo avesse sui diciotto anni. Se ne stava in un angolo della barca, commentando con i suoi occhi divertiti una coppia di turisti che facevano la gita con lei. La donna rideva sguaiata e si aggrappava a un cinquantenne color aragosta che esibiva come un trofeo. Mentre sfoderavano un falso sorriso da fotografia di viaggio, lei lo rimproverava perché in quell’isola dimenticata da Dio in cui lui l’aveva trascinata non c’era abbastanza vita mondana, Neanche un pareo party! Il prossimo anno tutti a Ibiza con la barca del Ferdy. In quel momento una folata di vento le ha slegato il foulard azzurro che è volato via, facendo esplodere una massa di capelli ricci e selvaggi. Ho guardato il foulard planare lentamente sull’acqua, quasi a godersi la brezza marina, e poi dissolversi nel celeste irreale di Cala Pulcino, finalmente libero. Sono stato felice per lui.

Io invece, Lampedusa, l’ho imparata ad amare, e sento che un po’ somiglia a ciò che sono diventato. Mi piacciono le sue scogliere crudeli e inaccessibili, le barchette dei pescatori sospese sull’acqua adamantina, e quell’unica strada asfaltata spolverata di bianco. Ma amo soprattutto ciò che resta quando il ronzio dei turisti in quod e scooter sparisce: una terra di solitudine profonda e amori obbligati. L’arida desolazione della roccia specchiata in un mare troppo grande, i cani randagi che passeggiano malinconici e bonari, il grido di dolore che lancia l’isola quando soffia il maestrale. Il grido di chi cerca qualcosa che ha perduto per sempre.

La storia poi di come dai motoscafi della speranza sono arrivato a condurre barche per i turisti in giro per quest’isola, ha dello straordinario. L’unico tra tutti gli immigrati arrivati ad essere riuscito a fermarsi qua. Forse racconteranno la mia storia, giù al Paese. La racconteranno i pescatori mentre sgraneranno le reti, annoiati dal troppo mare e vogliosi di immaginare uomini e donne al di là di quel muro blu e le loro vite straordinarie, esempi virtuosi o canaglie da non imitare, con i loro soliti impasti affascinanti di ammonimenti e realtà.

Erano stati proprio i pescatori a raccontarmi anche quella leggenda che ci riguardava, ricordi? Chi era costretto a fuggire dal Paese e desiderava che il viaggio andasse a buon fine doveva riuscire a non voltarsi indietro, verso la terra natia, durante il primo mezzo minuto del viaggio. Sembrava facile, ma era un’ardua sfida di volontà, dicevano tutti dandosi ragione a vicenda.

«Tutte superstizioni!», mi hai detto quando ti ho riferito la storiella, scuotendo il capo e prendendo in giro tuo padre. Il bagliore bianco del tuo sorriso si è aperto sul tuo viso scuro come una ferita. Tua madre aveva lo stesso modo di sorridere, assoluto e prepotente, che mi vinceva ogni volta.

«Hai ragione. Sono tutte superstizioni. Ma per una manciata di secondi possiamo provare a resistere, no?»

Me li ricordo bene quei trenta secondi. Spalla a spalla con altri settanta disperati come noi, in quel gommone di una dozzina di metri, il loro fiato sul collo, e le onde ad aspettarci come aguzzine. Mi ero messo apposta sulla parte anteriore per evitarci ogni tentazione. Il tuo volto rischiarato dalla luna era per me l’unica isola in quel mare nero. Fissavo preoccupato i tuoi occhi irrequieti, distratti dalla paura. Volevo inchiodarteli alla piccola prua, figlia mia, stringerti a me, proteggerti per sempre dalla notte salsa del mare. E invece al venticinquesimo secondo ti ho vista come un lampo voltare la testa e guardare indietro, verso casa nostra, verso le tue amiche, la nostra terra, i tuoi sogni di ragazza, forse qualche giovane uomo. L’attrazione verso il passato, l’identità, la sicurezza è stata per te troppo forte, irresistibile.

Allora tutto l’Universo mi è scivolato inesorabilmente tra le dita. Io tentavo di trattenerlo con le unghie, cercando di salvare un po’ di esistenza e di speranza, per te, ma come un imbuto quel tuo gesto mi è sembrato risucchiare ogni cosa.

Tu ti sei accorta dei miei occhi atterriti, hai dondolato la testa, ma quella volta non mi hai deriso. Nei tuoi occhi brillavano le costellazioni, ed io ero schiacciato dalla mia finitezza e impotenza.

«Sono tutte superstizioni!», hai sussurrato contro la notte, che, avvolgendoti, stava preparandosi a farti sua.

Sofia Assirelli

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