IL FLEP!, PRESUMO

di Pier Paolo Di Mino

Il Festival delle Letterature Popolari, dunque: che detta così è una cosa che si presta a non pochi fraintendimenti.

Un festival sembra una fiera, una manifestazione che, con l’aggiunta della specificazione letteraria, riguarda i libri. A rigore, è certo che i libri hanno a che fare con la letteratura, ma dovrebbe essere dato meno per scontato che la letteratura debba averlo coi libri, visto che una storia si può avvalere di altri mezzi per vivere. E poi c’è l’aggettivo popolare, che potrebbe alludere a una fama sperata; o a questioni folkloriche; oppure essere l’indicazione di una precisa aspirazione populista: in fondo il limite tra lo scrittore e il politico è difficile da demarcare. Certamente quella espressa dal nostro festival è una politica, un prendersi cura della nostra civiltà, ma proprio per questo abbiamo ben poco a che fare con il populismo. Leggi il resto dell’articolo

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Videor ergo sum

Da giovane non mi sarei mai permesso, nel giudicare un’opera o una persona,
di cedere alla ripugnanza che essa mi suscitava senza alcuna ragione.
Oggi do più credito alle mie antipatie.
Jean Rostand
 
La bellezza delle cose esiste nella mente che contempla.
David Hume
 
La bellezza è negli occhi di colui che guarda.
Margaret Wolfe Hungerford
 
Ci sono cose graziose, eleganti, sontuose, avvenenti,
ma finché non parlano all’immaginazione non sono ancora belle.
Ralph Waldo Emerson
 
 

Se ci si fa caso, la «pulchritudo» di cui parla Baumgarten rimanda al concetto di «arte come principio dell’armonia universale» di Pitagora e alla “theia mania” – intesa poi come furor – di Platone. Il buon Orazio trovava che bisognasse «miscere utile et dulci» e che il brutto fosse nel – per usare una sola parola – caotico. Per Leonardo, invece, l’arte non imita, ma crea e condivide l’oraziano «delectando docere». Bisognerà aspettare Vico perché si cominci a distinguere il ruolo della fantasia (arte) da quello della ragione (filosofia), ma è soprattutto Schelling che – pervaso di Sehnsucht romantica – arriverà a parlare di «attività» unica nel suo genere e capace di calmare l’infinito conato umano mettendone in luce le intime contraddizioni.

Il Positivismo, infine, sia nella veste originaria ottocentesca che in quella riveduta e corretta novecentesca, darà all’arte solo una funzione ancillare: una posizione che precorre il «riflesso della situazione sociale» attribuitale dal Lukács, teorico dell’estetica marxista. Leggi il resto dell’articolo

Amorte

Un esercizio interessante potrebbe essere quello di prendere quattro autori che apparentemente non hanno nulla in comune fra loro, se non a malapena una compresenza temporale al mondo, e cercare di metterli in relazione, magari esplorando percorsi inusitati o semplicemente erbosi e sterrati.

Supponiamo quindi di prendere Oscar Wilde e Franz Kafka e domandiamoci cosa possono avere in comune, possibilmente a partire dalle loro opere meno compatibili: le fiabe per l’uno e La metamorfosi per l’altro.

Le fiabe più famose sono forse quelle del principe felice o del gigante egoista, meste almeno quanto quella dell’usignolo e la rosa. Tutte fiabe contrassegnate da una tristezza che non si addice a letture per bambini, che sembrano piuttosto rivolgersi a un lettore disposto a sobbarcarsi della loro bellezza e della loro decadenza. Ciò c’introduce a una distinzione fondamentale fra la favola (con una morale e animali o piante antropomorfizzati) e la fiaba (senza una vera e propria morale, con personaggi fantastici, appunto quelli delle “fairy tales”, da ascoltare nel corso delle comuni attività di lavoro: ossia per intrattenere gli adulti mentre svolgevano le loro opere quotidiane). Wilde sembra riprendere schema e utilizzo della fiaba, le ibrida con elementi della favola e la destina a un pubblico di adulti, ma stavolta non si tratta del suo consueto pubblico: le sue fiabe sono per un ristretto pubblico di veri consimili. Sia quelle del primo sentimentalistico gruppo, che del secondo umoristico gruppo

Kafka nasce cinque anni prima che Wilde pubblichi il suo libro di fiabe, nel 1883, quindi magari glielo hanno pure regalato per qualche compleanno, e La metamorfosi vede la luce ventiquattro anni dopo The Happy Prince and Other Tales, nel 1912. Gregor Samsa è un personaggio di una tristezza imbarazzante, triste almeno quanto il principe felice o l’usignolo di Wilde. È un personaggio votato alla disfatta, ma senza il riscatto dell’estetica, della bella morte. Muore tra la sporcizia e i suoi rifiuti, con una mela conficcata nella schiena. Per la capacità che Kafka ha di rendere questo tipo orrore lo paragonerei al Cronenberg di Videodrome. Perché, però, Samsa non ha diritto al riscatto? La questione, anche se fuori tempo massimo, è squisitamente romantica, ma la vedremo dopo.

Ora prendiamo altri due autori che fra loro non c’entrano molto a prima vista: il Poe dei racconti e l’Ibsen di Casa di bambola.

Poe, che scrisse anche un dotto saggio di cosmogonia intitolato Eureka: a prose poem rielaborando il testo di una conferenza che tenne alla Society Library di New York il 3 febbraio del 1848, è universalmente conosciuto come autore di racconti dell’orrore, dell’arabesco e del mistero. È il creatore del moderno poliziesco, fine cesellatore della follia, maestro della vendetta e della deduzione. Una delle principali caratteristiche che distinguono nettamente questo autore da Lovecraft è la capacità meravigliosa che possiede nel mostrare il percorso che conduce un essere umano alla follia: il suo genio della perversità, come lo tradusse Giorgio Manganelli. Mentre in Lovecraft l’orrore è universale, vi siamo immersi e lo respiriamo, ma sempre male esterno all’uomo rimane, quello di Poe è un male intrinseco. Non un male con un colore strano o con la faccia mostruosa o narrato da un arabo pazzo: è un male civile, comune, acquattato nel cervello di ognuno di noi. È il gatto nel cervello, direbbe Fulci, mentre Carpenter parlerebbe di seme della follia. Il cuore rivelatore o Il gatto nero ne sono i manifesti.

Ibsen, un tetro norvegese di cui si racconta che la claustrofobicità dello studio potesse far impazzire chiunque, pensò bene di parlare della famiglia e di farlo con pressoché identici presupposti dello svedese Strindberg. Nora, moglie perfetta di una famiglia borghese, a un certo punto della propria esistenza si rende conto di non essere per il marito altro che una bambola. Viceversa lei è una donna forte, disposta a sacrificarsi per il proprio marito, che invece non la capisce, che non è forse nemmeno lontanamente in grado di cogliere la sua forza e la sua intelligenza, l’abnegazione del suo amore. Dramma comune a molte donne.

Così come Wilde (1888) e Kafka (1912) hanno in comune la sconfitta, Poe (1840-1845) e Ibsen (1879) hanno in comune la follia. Per Nora, la follia consiste nella decisione repentina di abbandonare il tetto coniugale: il procedimento che in Poe conduce alla violenza, in Ibsen sgretola la famiglia in nome della consapevolezza.

Tutti e quattro questi autori (un irlandese, un norvegese, un americano e un praghese) sono figli di varie istanze, che vanno dal suicidio ossianico di Werther all’indagine sul bello e sul sublime di Burke, all’idea stessa di sublime spaventoso di Kant (per non dire dei retaggi winkelmaniani).

Ma perché tutti e quattro ricorrono al patetico?

Per i romantici l’idea del sublime era collegata all’essenza stessa dell’arte divinificata. Ma era un sublime solo in parte somigliante a quello dello pseudo-Longino. Per i romantici era sì un istante, un momento, una congiunzione beata: ma, nell’uso comune, si consolidò nell’orrido. Perché, se com’era diffusa opinione kantianamente spremuta, il sublime scaturisce dai sentimenti al cubo, allora il cubo del sentimento è la paura – ancestrale, arcana. Quindi il cubo del cubo è il sublime. Il sublime si ottiene più facilmente con la paura. E qui Stendhal direbbe che non c’è storia nel bene, nel rassicurante.

Non è curioso, però, constatare come sia stato un uomo ligio alla legge come Kant a inventarsi un dispositivo come questo? I romantici si divertirono a privilegiare il sublime dinamico (forse pensando che i greci fossero insuperabili in quello matematico), a saggiare lo stratagemma emotivo per lo sperdimento nell’oltre-razionale. Ovviamente, come abbiamo detto, con la paura è più facile.

Sarà Schopenauer a cogliere ed esplicitare meglio queste implicazioni parlando della forza distruttrice della natura: l’uomo agisce sull’ambiente (dunque creando, ma non dal nulla) sostanzialmente modificandolo a colpi di forbice, quindi una natura che dovesse abbattere una città con un’ondata sarebbe il non plus ultra delle capacità creatrici esistenti sulla terra (specie perché crea dal nulla).

A questo punto la domanda che si pone è: cosa volevano distruggere i nostri quattro autori?

Ce lo dicono le loro storie: tutti e quattro sono degli irregolari e tutti e quattro hanno rapporti molto travagliati con la loro famiglia, da cui desumono la loro sfiducia nelle istituzioni borghesi.

E proprio in questo si precisa la loro assoluta comunione: nel contrasto fra Kultur e individualità, fra precetto e desiderio. A questo punto possiamo intravedere il motivo per cui Samsa è senza riscatto: se per Wilde c’è ancora un barlume di bellezza nella disfatta in nome dell’amore, Samsa non conoscerà mai l’amore. E la sua famiglia, scoperta la sua morte, non esiterà a distrarsi con una gita.

Kafka, come Ibsen, decreta la morte dell’amore: alla borghesia l’amore è precluso per via del denaro. Il borghese crede nel matrimonio indissolubile e nella fedeltà muliebre perché la moglie è il mezzo di produzione di una merce pregiata: la prole, che poi eredita cognome, sostanze e bada ai genitori invecchiati. Non si presta a nessuno la propria fabbrica per produrci la propria prole.

Sono cose a cui né Poe né Wilde pensano troppo, l’uno perché parte dal presupposto che l’arte americana stia nella forma breve del racconto trasportato a spalla dalla penny press (Poe, per di più, vive inginocchiato davanti alla ragione e legge senza sosta i romantici, Byron in testa, quindi non può che associare irrimediabilmente l’amore alla morte: è il disfacimento stesso una forma d’amore. Spruzzando il tutto di deduzione non si può che avere la lucida visione del nostro destino, votato alla disperazione e all’orrore, in agguato dentro ognuno) e l’altro perché si diverte troppo a ridere dei ricchi, ma è altrettanto vero che l’uno cercherà sempre di crearsi una famiglia e l’altro – come rileva Joyce – si rivolgerà al Cristo della tradizione gnostica.

Dunque, se è vero che ognuno per la sua via ha tentato di analizzare il dissidio fra società borghese e individuo, piegando il disfacimento a proprio comodo, non è forse più esatto dire che l’unico vero sublime che ci è stato dato di vedere sia un “sublime borghese”?

Verosimilmente, il concetto di sublime e la borghesia come classe sociale dominante si affermano nello stesso periodo. È pur vero, però, che la borghesia aveva elaborato fin dal ‘600 (pensiamo all’Olanda) una propria arte, tendenzialmente encomiastica e “fotografica”, e che il sublime è degli antichi greci. Ma nel primo caso era meramente strumentale (il borghese, con la macchina fotografica, manderà in malora il pittore et similia), nel secondo il Longino-patacca sta facendo una difesa: i greci non erano d’accordo col suo concetto di sublime, lo saranno i romantici.

Ed ecco finalmente chiaro il narcisimo: se la borghesia era la cosa da distruggere, in quale ruolo s’identifica l’artista se non in quello della maestosa onda anomala, strumento divino del sublime borghese?

La scomparsa dell’amore nella morte condanna al disfacimento e al narcisismo il sublime.

 

Antonio Romano

Amare è un gesto d’odio

A cavallo fra il 1956 e il 1957 Tomasi di Lampedusa scrisse un bel racconto di sapore vagamente e duplicemente autobiografico che intitolò La Sirena. Duplicemente perché i personaggi attorno a cui s’articola la storia (un vecchio senatore e un giovane giornalista) sembrano proprio la copia carbone dei due aspetti principali dello scrittore: da un lato il giovane giornalista colto e raffinato capace ancora di stupirsi della vita (da leggere i suoi epistolari a firma: Il Mostro), dall’altro il vecchio senatore scorbutico e taciturno che ha gustato una giovinezza molto intensa e ora vive una volontaria e fastidiosa vecchiaia precoce.

Ne La Sirena Tomasi di Lampedusa scrisse una frase che sembra buttata lì per caso, ma che – se ci si sofferma sopra – assume tutto il suo peso: «Voialtri, sempre con i vostri sapori accoppiati! Il riccio deve sapere anche di limone, lo zucchero anche di cioccolata, l’amore anche di paradiso». Questa frase, detta dal senatore, ha un certo peso all’interno dell’opera del Tomasi perché chiarifica la concezione che l’autore aveva dell’amore.

Probabilmente potremmo perfino arrivare a ipotizzare che per lui l’amore sia una cosa separata dalla felicità o dalla purezza. È – diamo pure il tono dell’affermazione a questa ipotesi – una cosa di cui sarebbe meglio fare a meno, ma che è troppo bella per farne a meno. Come un brutto vizio. Come una sigaretta (interessante ricordare anche che, all’incirca un secolo prima, Oscar Wilde aveva scritto ne Il ritratto di Dorian Gray che la sigaretta è il prototipo perfetto del piacere perfetto perché è deliziosa e lascia praticamente insoddisfatti; come l’amore, aggiungiamo). Tale considerazione non è campata in aria, anzi, trova riscontro ne Il Gattopardo, quando il Principe di Salina dirà: «L’amore. Certo l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta». Sempre nel Gattopardo paragonerà Cavriaghi all’acqua e Tancredi al marsala: non fa accenno alle loro doti (in quanto a certe doti Cavriaghi era certo superiore a Tancredi), ma solo – con poetica sintesi – alla loro abilità amatoria. È chiaro che per Tomasi l’amore è essenzialmente fisicità.

Baudelaire sembra essere sulla stessa lunghezza d’onda. Nella parte su Delfina e Ippolita scrive la seguente quartina: «Maledizione eterna al sognatore incapace / che per primo volle, nella sua stupidità, / scivolando in un problema insolubile e fallace, / unire ai fatti d’amore l’onestà». Mi sia abbonata questa traduzione che richiama “la bella menzognera” sia per fedeltà che, spero, per resa.

Anche per il poeta l’amore non ha nulla a che fare col paradiso o con l’onestà o con la felicità: il caso di Delfina e Ippolita ce lo dimostra. Anche per il poeta è solo una questione di affinità fisica.

Vari altri poeti e scrittori si sono cimentati con la definizione dell’amore: Catullo («Odio e amo. Ti chiedi perché lo faccia. Non lo so, ma lo sento e ne sono torturato»), Kierkegaard («L’amore perfetto significa amare quella persona che ci renderà infelici»), Cervantes («Chi ti vuol bene ti fa piangere»), Terenzio («I litigi degli amanti rinnovano l’amore») e tanti altri.

Grossomodo la faccenda resta sempre uguale e, senza badare a tante sottigliezze poetiche, si può citare un passo di Jimmy Fontana mai troppo ripetuto: «L’amore non è bello se non è litigarello».

Una cosa interessante sull’amore la dice, come al solito, Nietzsche in un frammento postumo del 1880: «Voler amare tradisce stanchezza e sazietà di se stessi, voler essere amati invece brama di sé, egoismo. Chi ama si dona; chi vuole essere amato vorrebbe ricevere se stesso in dono».

Per Tomasi di Lampedusa e per Baudelaire l’amore è essenzialmente fisicità. Per vari altri poeti e scrittori e filosofi l’amore è sostanzialmente sofferenza – sofferenza che, a detta di Terenzio, rimpolpa il sentimento amoroso – e, a volte, infelicità. Per Jimmy Fontana l’amore deve essere un po’ conflittuale per essere interessante. Per Nietzsche l’amore è invaghimento o sfinimento di se stessi.

La cosa davvero interessante è che amiamo soprattutto per infatuazione fisica (dello stesso avviso era Alberto Moravia nel saggio breve Erotismo in letteratura del 1961, anche se solamente a livello implicito e particolare), che soffriamo per questo e che se non soffrissimo per amore non ci divertiremmo. L’amore sofferente per una cosa bella ci causa dolore. E il divertente è che ce l’andiamo a cercare quando non ne possiamo più di noi stessi. Preferiamo soffrire piuttosto che rimanere ancora da soli con noi stessi.

Questo la dice lunga su quanto l’essere umano si ami: soffre per un’infatuazione effimera come lo è quella per l’apparenza e, per di più, se non soffre non si diverte!

Ecco com’è l’essere umano: superficiale, masochista, con seri problemi con se stesso e – in ultima analisi – autolesionista.

Solo chi si odia profondamente può amare.

 

Antonio Romano

Roche: “Sesso col presidente”

Sesso con il presidente della Repubblica se non firmerà la legge sulle centrali nucleari. E’ la proposta indecente della scrittrice tedesca Charlotte Roche, che chiede al presidente Christian Wulff di non sottoscrivere la legge che prolunga il funzionamento delle 17 centrali atomiche del Paese.

Io mi offrirei di andare a letto con lui, se non sottoscrivesse la legge” ha affermato la scrittrice. Secondo quanto riportato, la donna avrebbe affrontato l’argomento anche con il marito, che si sarebbe detto d’accordo e contemplativo.

Ma anche gli intellettuali italiani scendono in piazza: Silvia Avallone si dice disponibile per un rapporto anale con Giorgio Napolitano affinché bocci totalmente la nuova versione del lodo Alfano. Andrea Camilleri propone un footjob a Gianfranco Fini per sostenerlo nella sua lotta personalissima contro il presidente del consiglio. Il gruppo letterario Cricca33 si offre per una gangbang con Mara Carfagna al fine di convincerla a creare un suo nuovo calendario senza veli (naturalmente dopo le sue dimissioni). Tommaso Giartosio si dice invece disponibile per un pompino a Nichi Vendola affinché promuova fattivamente la raccolta differenziata a Napoli. Nel nostro piccolo, io e la mia compagna ci proponiamo per un ménage à trois con Vladimir Luxuria, ma così, per puro divertimento nostro.

 

E come disse Oscar Wilde durante un’intervista a Radio24: “Quando le parole non bastano, la lingua ed il culo hanno potere”.

Angelo Zabaglio aka Andrea Coffami