Il migliore dei mondi possibili?!
marzo 9, 2011 4 commenti
Il 3 febbraio del 1848 lo studioso Willmore Vly tenne presso la Society Library di New York una conferenza sui temi della cosmogonia, del tempo e della teleologia.
Dagli appunti di quella conferenza nacque un libro che Vly intitolò Esperienze sperimentate. In questo volume, il nostro autore espose un’affascinante teoria riguardo la sua personale concezione della vita, della sua nascita e della sua “necessità”.
Si può dire, banalizzando, che la sua teoria verteva un po’ sulla teoria dell’infinità dei mondi di Giordano Bruno, della relatività einsteiniana e della missione predestinata del calvinismo. Cosa ci dice Vly nell’unica opera che diede alle stampe (fatta eccezione per una orribile poesia in distici pubblicata su una rivista letteraria di terz’ordine a Baltimora)? Ci dice che il nostro mondo, quello che viviamo ogni istante, ogni singola azione, viene ripetuta all’infinito in una precisa zona spazio-temporale esterna alla nostra coscienza e allo spazio-tempo di cui abbiamo percezione.
Egli sostiene che ogni volta che «solleviamo un bicchiere colmo d’acqua, da qualche parte una nostra copia ripete quel gesto in tutti i suoi dettagli, consentendo al corpo di cui abbiamo percezione di poter portare quel bicchiere alle labbra».
Volendo accostare questa immagine, volutamente complessa, di Vly, possiamo dire che secondo lui ognuno di noi è come l’immagine in movimento di un film, dietro cui vi sono gli infiniti fotogrammi che permettono la figurazione di quel movimento.
Da qualche parte nel tessuto spazio-temporale dell’universo Carlo Magno viene continuamente incoronato nella notte di Natale del ‘400, i coniugi Curie muoiono per le radiazioni dell’uranio, Hitler saluta la folla inneggiante all’alba della sua nomina a Cancelliere. Queste azioni, però, non si svolgono per intero, ma infinitamente frazionate, colte in ogni movimento delle cellule dei protagonisti. Per ogni globulo rosso che si muove, per ogni mitosi, per ogni osmosi, per ogni respiro esiste la copia di ogni singolo essere o elemento o oggetto: un gioco di specchi che si ripete infinitamente.
Quindi, per Vly, da qualche parte c’è il sopracciglio di Leonardo da Vinci che perde una ciglia, ci sono tutti i “fotogrammi” di questa ciglia che cade fino a raggiungere il pastrano del genio de Le Vergini delle rocce; da qualche altra parte c’è Simemon che batte sui tasti della macchina da scrivere e tutti gli scricchiolii delle sue articolazioni si conservano immutate nella loro cella spazio-temporale; e, da qualche altra parte ancora, Mata Hari si trucca per andare in scena, ripetendo in eterno una precisa occhiata alle sue calze di seta.
Willmore Vly non prevedeva le teorie che, a distanza di più di due secoli, avrebbero ipotizzato la deformazione dello spazio-tempo come se si trattasse d’una sciarpa lisa, eppure le precorse. Forse aveva cognizione di Bruno e dei suoi infiniti mondi e li ha reinterpretati in maniera abbastanza originale, ma sicuramente conosceva l’opera di Calvino. Difatti, com’è noto, Edgar Allan Poe ritrovò nella stanza ammobiliata in cui Vly viveva (e in cui si suicidò ingoiando la lama del proprio rasoio) l’opera omnia del filosofo svizzero nella pregiata edizione delle Pleìade. Con Calvino aveva in comune la concezione del futuro in quanto predestinazione. Infatti, anche Vly viveva nella convinzione di essere immortale o, almeno, di non poter morire prima di aver concluso la sua missione.
Tuttavia, la sua ipotesi sulla cosmogonia non è completa. Se fosse vero quello che asserisce, bisognerebbe ipotizzare che tutti i “fotogrammi” che consento alle azioni presenti di verificarsi sono strettamente concatenati come veri e propri film. E allora, anziché un film, sarebbe più esatto parlare di veri e propri microcosmi simili a sassi che creano increspature sulla superficie d’una pozzanghera: una fa scaturire la seguente e così via a effetto domino.
È inquietante pensare di vivere in un universo dove i bambini della Shoa vengono infornati continuamente, dove all’infinito Hiroshima viene devastata, dove la sofferenza e la distruzione sono elevate alla n. Per consolarsi bisognerebbe pensare che è lo stesso universo in cui, all’infinito, si ripetono le singole gioie, i fiori, le primavere, le nascite, i sorrisi.
Forse Vly, teorizzando questa infinita reiterazione, ha voluto creare un calcolo infinito alla fine del quale un contabile superiore, quantificando la dose di male e di bene che l’umanità ha ricevuto e prodotto, fosse costretto ad ammettere che bene e male si equivalgono per qualità e quantità. E che, in ultima analisi, per tutti c’è la speranza d’essere felici in maniera proporzionata all’eventualità d’essere infelici.
Questo basta a fare di Vly un ottimista? Per alcuni basterebbe. Sicuramente non era un sostenitore del libero arbitrio, né poteva essere un meiorista convinto. Eppure doveva trattarsi d’un essere intimamente fiducioso. E ingenuo.
Deve essere stato un duro colpo, per lui, ingoiare quel rasoio e rimanerci secco, constatando di non avere nessun altra missione che giustificasse la sua esistenza.
E deve essere stato anche peggio immaginare quel momento che si sarebbe ripetuto all’infinito nella sua atrocità.
Antonio Romano
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