gennaio 6, 2011
di scrittoriprecari
[Questo breve estratto è tratto da Estate crudele, romanzo al quale sta lavorando Alessandro Bertante]
Antonio sta lavorando. Insieme a lui s’intrattiene un uomo di fuori città, quelli li riconosco al primo sguardo.
Una brava persona che viene dalla provincia e che fa decine di chilometri con la sua lunga automobile berlina grigio nera metallizzata per succhiare cazzi di giovani ragazzi brasiliani. Sono tutti uguali quei tipi di uomini: impacciati all’inizio e poi rozzi e prepotenti. Quando si abituano alla lordura che li avvolge, pretendono di possedere ogni centimetro del corpo che hanno pagato. Vogliono tutto, come sempre, come tutti quanti, e non possono aspettare. Perché loro lavorano sodo! Ogni santo giorno della settimana lavorano nella regione pedemontana delle antiche foreste perdute. Dal mattino fino alla sera lavorano, non potrebbero fare altro che la loro razza non conosce altri modi di trascorrere il tempo. Hanno la fabbrichetta, hanno le scarpe marroni, hanno l’agenzia immobiliare, hanno le cravatte grosse, hanno l’auto grossissima, hanno le fedi d’oro, hanno i centri commerciali sberluccicanti di tristezza, hanno il bar nella piazza, hanno la pizza al taglio che è uguale ovunque ed è un antico retaggio di povertà, hanno la macelleria e ce l’avevano pure i loro padri, quelli che hanno costruito i capannoni sulla statale intasata che non finisce mai e che adesso sono vecchi e stanno rinchiusi nella villa monofamiliare con il giardino cintato e la pistola nel cassetto. Hanno tutte queste cose ma non bastano più.
Questi uomini la domenica, quando non lavorano e possono fare il loro dovere, vanno a messa con la famiglia e sono soli nella chiesa vuota e fredda e intasata di menzogna e di paura antica ma loro in realtà se ne fottono perché il lunedì si ricomincia a tirare su denaro e quella è solo una mascherata che tocca farla per zittire la gente che nei paesi è grama e malfidente. Dovranno pure concedersi qualche ora di ebete rinuncia, questi sono uomini che lavorano mica passano i pomeriggi a fare niente come me che sono un fallito e un malfattore senza futuro.
Questi uomini dabbene tristi lavoratori indefessi credono di vivere nella megalopoli della produzione che non finisce mai di aumentare, dove tutto vale, dove le differenze fra le persone sono sfumate nell’unico grande pensiero del consumo, dove tutto si può fare e non ci può essere alcun cedimento né alcuna compassione per le debolezze della gente che mangia e caga lontano da loro. Tutto sembra poter cambiare veloce, sembra crescere, migliorare, raggiungere vette di efficienza rassicuranti. Ma è falso, questa è la più grande menzogna che dobbiamo sopportare, qui non si trasforma più niente, tutto è guasto, indegno e caduco dentro all’assurda megalopoli della fabbrichetta che ha preso il posto del lago Gerundo sulle cui rive i popoli parlavano alla natura ricevendo in cambio saggezza.
Questi uomini sono padroni, non padroncini. Questi uomini sono il vanto della piccola imprenditoria italiana che ci ha fatto conoscere nel mondo. E ci ha fatto pentire di starci. Questi uomini capi di famiglia ci impiegano poco a mutare pelle. Si abituano allo squallore, alla rumenta della vita, si abituano e finalmente si riconoscono davvero. Lo vogliono prendere in bocca, bramano il cazzo giovane, palpitante fra le labbra.
È bello il cazzo, è sincero, è immediato, è l’unica cosa vera nella loro vita di menzogne. E dopo altri tre o quattro incontri, si fanno coraggio e lo prendono anche nel culo, proprio quel cazzo giovane sudamericano perché lo hanno sempre desiderato e ci sono affezionati, perché loro in quel momento diventano capaci di amare. Sborrano dentro al culo di un ragazzino, si lavano il cazzo nel lavandino e poi escono e subito montano in macchina.
Prendono l’autostrada e in silenzio tornano a casa. Soli a notte fonda, lontani dalla moglie, nella luce fioca del bagno degli ospiti, si guardano allo specchio della loro anima.
Non mentono più, sono felici, tornano bambini.
Fanno tanta strada, raggiungono la metropoli, solo per quel breve, inestimabile, attimo di verità.
Alessandro Bertante
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