Petrosino intervista Catalano

[Intervista di Alfonso Maria Petrosino a Guido Catalano uscita sul blog criticaletteraria.blogspot.com]

Alfonso Maria Petrosino: Dicono di te che fai cabaret e non poesia: dove inizia una e dove finisce l’altro?

Guido Catalano: Penso che le due cose si confondano. Le mie poesie, non tutte, ma molte, fanno ridere le persone. Ho lavorato in ambito cabarettistico, solo che le mie cose nel mondo zeligghiano non funzionano. Bisogna essere brevi e pensare all’uomo in canottiera con il telecomando in mano. Anche nei live. Io sono lungo. E poi ci vuole il tormentone. E io non ce l’ho. Oggi il cabaret è Zelig. E io non ci sto dentro.

Una cosa che mi disturba è quando i sedicenti poeti mi danno del cabarettista con l’intento di offendermi. Essi non sanno che fare cabaret è una delle cose più difficili al mondo. Ci vogliono le palle di ghisa. O di cemento armato.

AMP: Nella poesia bum bum bum cerchi l’unità di misura dell’amore. Ne hai trovata una per la poesia?

GC: Non credo. Le cose che scrivo sono in continuo mutamento. Se leggo le mie prime cose e le ultime mi rendo conto di questo mutamento. E ne sono contento. Ma forse non ho capito la domanda.

AMP: Sei in costante tour, tra presentazioni, poetry slam e Il grande fresco (“il varietà poetico-musicale più lungo del mondo”). Se non sei in giro sei sul palco, se non sei sul palco aggiorni il blog, se non aggiorni il blog sei in giro e così via. E poi ci sono le partecipazioni alle trasmissioni televisive (Zelig, Barbareschi Schiok): qual è il luogo ideale per la tua poesia?

GC: Mi piace avere delle persone davanti che ascoltino le mie poesie lette ad alta voce da me. Dunque il luogo ideale è il luogo dove delle persone possano stare comodamente sedute ed io davanti a loro, leggere e raccontare.

La televisione fa paura ma è un’esperienza di rara potenza.

La mia speranza è che le mie poesie vivano di vita propria a prescindere dal fatto che io le declami. È come avere dei piccoli figli che poi devono essere autonomi. Non è detto che succeda sempre.

AMP: Tra i tuoi primi tre libri, Motosega, Sono un poeta, cara e I cani hanno sempre ragione, e l’ultimo, La donna che si baciava con i lupi, che differenze ci sono? Sei cresciuto migliorato deteriorato interiorizzato?

GC: Come spiegavo nella domanda numero 2, le poesie mie sono cambiate a manetta. nei “Cani” erano brevi e tristissime. Io ai tempi ero tristissimo. Dunque c’è una coerenza. Poi si sono allungate. Poi si sono riaccorciate un po’. Poi si sono riallungate di brutto. Alcune sono diventate dei racconti. Solo che io dopo dieci anni non sono più in grado di non andare a capo. Anche adesso, mentre ti sto rispondendo per iscritto faccio una fatica boia a non andare a capo.

Negli anni ho cambiato molto e sono molto cambiato. Anche la tecnica di scrittura e i tempi. Una volta scrivevo di getto. Oggi impiego anche tre o quattro giorni a scrivere una poesia. La rivedo e ri-rivedo e la ri-ri-rivedo ancora. Una volta zac!

Oggi sono molto più di buon umore. Sto più attento al suono. Sto molto più attento perché so che la poesia che sto scrivendo la leggerò in pubblico. Deve suonare bene.

Non so se son migliorato, sinceramente.

Spero di sì sennò son cazzi.

AMP: Quali sono i tuoi modelli? In una poesia dichiari propositi di sodomia su Montale. Con chi altri fai all’amore?

GC: Ero giovane e inesperto. Erano i tempi dei cani che hanno sempre ragione e mi piaceva l’idea di sodomizzare Montale. Oggi so che Montale, con tutto che non amo la sua poesia, se fosse ancora vivo, mi si inculerebbe lui con le mani dietro e su un piede solo.

Detto questo, avrei piacere di avere una relazione intima con Jacques Prevert. Proprio baciarci con la lingua. Ma è morto.

Amo Woody Allen, Benito Jacovitti e il poeta credo argentino Martin Santiago, morto nella grande mareggiata di Sicilia mentre pescava con le bombe a mano.

AMP: Che rapporto c’è con la prosa di Maurizio Milani (nel tuo ultimo libro c’è un personaggio specializzato in resurrezione di cani, lui invece i cani di solito li pesa)? Altro punti in comune sono gli accrescitivi onomastici – il tuo Cocciantone, per esempio, e le apparizioni di personaggi reali come figuranti (penso a Sempre, che comincia “eravamo io / Ludovico Einaudi e Francesco Guccini” o Carogna contro scimmia vince carogna (“eravamo io, Noam Chomski e Gilles Deleuze”).

GC: Stimo il Milani. È uno della vecchia guardia. Quella del cabaret di Paolo Rossi, Cornacchione, Albanese e altri a scelta. Diverse persone, negli anni, mi hanno detto che ho qualcosa di milanesco. Soprattutto nel modo di esporre le cose. Non so, non sono mai stato un suo enorme fan. Però evidentemente, qualcosa c’è. Ma non voglio pensarci troppo che sennò mi viene l’ansia.

AMP: Dicci / dacci una tua poesia.

GC: Posso dirti che la prossima che sto scrivendo me l’ha ispirata il tuo amico Gaetano l’altra sera a Pavia.

Spesso mi capita questa cosa: sento una frase che mi piace intanto che chiacchiero con qualcuno e me la segno di nascosto e poi, se il giorno dopo mi piace ancora, la uso per una poesia. Tante poesie sono nate così. Soprattutto a livello di titoli.

Questa poesia che sto scrivendo parla di morte e del fatto che ho un idea chiara di dove voglio essere seppellito quando tirerò le cuoia, fra una novantina d’anni.

Diario di bordo – Colle Val d’Elsa

Rieccoci nuovamente. Come anticipato ieri, per questo lunedì interrompiamo la rubrica Poesia precaria per dar spazio al Diario di bordo di Scrittori precari.

Buona lettura.

Gianluca Liguori


Scoppio ancora di emozioni colorate ed accoglienza immersa nella natura. Avrei voluto vedere lo spettacolo ma ero sul palco.

Andrea Coffami


Secondo Google mappe Colle Val d’Elsa è raggiungibile velocemente da Montevarchi tramite una strada alternativa, che risparmierebbe il passaggio per la superstrada e per Siena tagliando attraverso il Chianti. Stampo la cartina e parto. Un’ora e mezza più tardi, perduto tra Radda e Castellina in un incubo di tornanti, medito il suicidio.

Raggiungo infine Colle in clamoroso ritardo e vengo recuperato dal Chimenti in una bizzarra piazza postmoderna. Il regista mi conduce attraverso misteriosi cunicoli nel ventre della collina fino a un ascensore fantascientifico; inizio a pensare che Colle Val d’Elsa è un posto davvero molto strano. E molto bello: per qualche motivo, dal Valdarno immaginiamo sempre i paesi del senese come brutti, forse per la fosca fama di Poggibonsi, e irrimediabilmente questi si rivelano infinitamente più belli dei nostri.

Attraversiamo questa Loro Ciuffenna monumentale finché scorgo le sagome note, inconfondibili nella postura e nei gesti, degli Scrittori Precari, professionisti della pausa cicchino. Chimenti e Montagnani mi lanciano in prova generale (più tardi Chimenti avrà modo anche di lanciarmi letteralmente) senza spiegazioni, ma dalla luce che brilla negli occhi dei Precari, e dalle luci vere, sparate con sapienza sul palco, capisco che la faccenda funzionerà.

A prove concluse scendiamo nel Foyer per rimetterci in sesto a caffè e whisky; benché mi tocchi bere un terrifico blended, il buonumore tiene. Inizia a trasformarsi in tensione quando realizziamo che sta effettivamente arrivando gente, e che anzi il teatro dei Varii sarà pieno.

Neanche il tempo per tremare, e siamo già in scena; avendo i registi studiato per me un ruolo da “finto spettatore”, pronto a entrare in scena dalla platea, posso godermi lo spettacolo dalla prima fila. E funziona, lo spettacolo, non solo nel documentare il collettivo Scrittori Precari e la sua attività letteraria, ma anche nel cogliere, grazie all’incrocio tra materiale filmato e lettura dal vivo, i tratti salienti di ciascuno, e così abbiamo uno Zabaglio tanto spassoso quanto amaro, laziale più che romano, che in controluce carica macchinette del caffè e auspica segreti piani di rivolta; un Piccolino corporale e romantico, imbianchino pratoliniano, che estrae poesie dal secchio della calcina, un Liguori dolente, quasi un personaggio di de Amicis, nel suo farsi carico con dignità di tutte le ingiustizie del mondo, un Ghelli felino, solo apparentemente mite, Bianciardi reincarnato, e salvato, forse, dall’aver scelto Roma invece di Milano. E li troviamo tutti insieme, a imbarazzarmi con la lettura di un mio brano, e poi sagome nere, di nuovo inconfondibili, mentre la regia gli spara addosso un filmato torcibudella. C’è tempo poi anche per i miei cinque minuti di gloria, con una lettura dal prossimo romanzo, ma gli applausi sono certamente, e giustamente, tutti per loro.

Vanni Santoni


Andare in scena non è stato facile: due giorni di prove, pochi mezzi tecnici e un budget ridicolo sono ciò che abbiamo a disposizione. Quando le luci si abbassano ci accorgiamo però che il teatro è pieno. Un senso di incredulità che raddoppia la tensione. Alla fine gli applausi, la voglia del pubblico di non andare subito a casa, di parlare di quanto hanno appena visto e sentito. Questo volevamo: prolungare la messa in scena attraverso il lavoro cognitivo dello spettatore.

Leggendo i giornali, guardando i telegiornali, comunemente parlando, siamo allo stesso tempo vittime e propugnatori di un inarrestabile impoverimento del senso comune. Un impoverimento che passa attraverso il linguaggio, cavalcando parole-marionetta – “precario”, “straniero”, “extracomunitario”- che ci annebbiano la vista sul mondo per farne una terra straniera.

Ci muoviamo da tempo in un orizzonte comunicativo verbo-visivo che basa la sua efficacia sulla devalorizzazione e sulla desemantizzazione dell’esperienza, come sull’anestetizzazione del comune sentire: per ridare un corpo semantico all’immaginario non resta allora che rivendicare l’extraterritorialità della “scrittura di scena” e la sua capacità di comporre l’eterogeneità delle deposizioni e delle registrazioni, di attraversare le terre ed incrociare gli sguardi. Ma per riuscirci è necessario sapere esattamente cosa raccontare e come farlo.

Quello che noi, assieme a Scrittori Precari e Vanni Santoni, volevamo raccontare è il paese Italia, il paese che muore, il paese che dello spettacolo ha fatto la realtà perché la realtà potesse sembrare uno spettacolo. E per farlo abbiamo usato ogni mezzo a nostra disposizione: il documentario e la performance, la luce e la musica, il videoclip e la pagina scritta.

Adesso bisogna rilanciare la posta in gioco, portare lo spettacolo in giro, sino a dove possiamo arrivare.

Dimitri Chimenti e Andrea Montagnani


LIVE THE WRITING – omaggio breve a Trauma Cronico e ai pigiami singolari

“Prima ci facciamo un’idea, poi semmai…”, così dicendo il pubblico entra in sala e si siede in platea dopo aver ispezionato di fretta libriccini cd e volumi riposti in bella vista sul tavolo all’ingresso.

Piccolo gingillo questo teatro dei Varii, i cui fronzoli ottocenteschi cozzano meravigliosamente con l’apparato scenico vuoto dei Precari, creando una strana attesa incerta e diffidente.

A terra i cavi sembrano serpenti dormienti in attesa di venire scossi e manipolati dalla fonazione.

Nessuno sa. Si può solo immaginare a scatola chiusa cosa mancherà, essendo solo un reading. Cosa non si vedrà, visto che è solo un reading. Quanti tempi si dovranno aspettare in tossicchio nervoso a causa di virgole e punti e fogli da girare. “E’ solo un reading!”

Scorrendo, le immagini per qualche minuto restano schiacciate sul fondo. Innocue. Distanti. Finché lo spirito si fa carne e qualcuno esce dallo schermo, invadendo lo spazio che prende a riempirsi. Sotto l’occhio di bue sale la voce e lo scrittore s’allontana dal precario. Lo vedi perchè si premura di centrare la carta e se stesso sotto l’occhio di luce, finendo, senza volerlo, col dare preminenza al foglio. Deformazione professionale.

Lasciando cadere le pagine a terra sembra sospeso su una nuvola bianco sporco e finisce per fondersi con le immagini in un gioco serrato di dentro e fuori, casa e palco, voi e noi. Noi. 4+1 moschettieri immobili, illuminati psichedelicamente dalle luci che, ora, sparano su un pubblico calato e assorto. In attesa di altro.

Lo sguardo che dopo un’ora e mezza davanti al tavolo all’ingresso ripassa in rassegna a mente fresca le copertine dei libri, ha un’altra coscienza.

“E’ solo un reading… forse”.

Donatella Livigni


La prima volta degli Scrittori precari in un teatro.

Una prima volta che emoziona ma intriga fin da subito.

Le tavole di legno sotto ai piedi. Un’acustica particolare e a noi nuova. Le luci puntate su di noi che non riusciamo a vedere il pubblico davanti a noi. Strano.

Da quando abbiamo iniziato l’avventura di Scrittori Precari abbiamo avuto col pubblico un rapporto quasi simbiotico. Ed ora siamo soli, in una bolla di luce che non svela i volti in platea.

E’ l’applauso che accompagna la nostra uscita di scena a sollevarci. Man mano che ci alterniamo ci rendiamo conto che questa nuova dimensione non ci è poi tanto estranea.

Lo spettacolo dura un’ora e quaranta ma vola via come se niente fosse. E noi, nonostante tutto ancora leggeri, ci rendiamo conto che avremmo persino voglia di rifarlo daccapo.

Luca Piccolino


Erano anni che non tornavo a Colle: anni ingoiati dalla vita metropolitana, dove il tempo scorre ad alta velocità. Una volta amavo fuggire dalla bolla d’aria che è la vita di provincia, oggi sento a tratti la necessità di ritornarvi, come per un principio di liberazione e rigenerazione, per disintossicarmi dai miasmi della vita di città.

Ad attenderci, dunque, non soltanto il tempo sospeso della provincia protetta da mura medievali, ma anche il tempo pieno del teatro, che per la prima volta abbiamo sperimentato venerdì. Tutto per merito di due folli chiamati Dimitri Chimenti e Andrea Montagnani, che prima hanno passato tre giorni a girare per Roma dietro a questi quattro ceffi rabberciati che siamo noi; che poi hanno fatto le ore piccole per due settimane a montare quelle immagini; e che infine si sono rinchiusi nel Teatro dei Varii, dove li abbiamo trovati al nostro arrivo, per concludere la regia di questa incredibile video performance. Che adesso tocca lavorare per esportarla in giro, perché lo spettacolo funziona, anche se nato in condizioni d’emergenza, o forse soprattutto per quello, perché c’era e c’è l’urgenza di farlo.

Simone Ghelli