Confessioni qualunque – 12

[Ricordiamo ai lettori che Confessioni qualunque, la rubrica curata dai ragazzi di In Abiti Succinti, è aperta a chi voglia scrivere una confessione. Fatelo anche voi! Svisceratevi! E poi inviate i vostri racconti.]

#12 – Nino

di Nicola Feninno

Che resti tra noi.
I miei nonni erano fascisti, i miei genitori democristiani. Io faccio il pescatore e so che nessun partito ha mai moltiplicato il pesce.

Mio figlio questo deve ancora capirlo: vive a Roma, studia scienze politiche, non ha mai saputo nulla del mare; da piccolo gli veniva la nausea soltanto a stare al largo sul pedalò.

Frequentai le scuole a Praiano – elementari e medie – perché ad Arienzo le scuole non c’erano. Prendevamo la stessa corriera alle sette, io, Giggino, Daniele e Giulio, eravamo tutti e quattro di Arienzo, tutti e quattro figli di pescatori; ad Arienzo praticamente tutti gli uomini facevano i pescatori, tranne don Agostino e Pino, lu ricchione, che faceva il barbiere, che poi anche a quello – come diceva mio padre – ci piaceva comunque lu pesce. Alle medie ci siamo scelti un nome per il nostro gruppo: gli Scassacazz. L’ispirazione ce la diede il padre di Giggino: tornavamo dal cinema di Praiano, un sabato pomeriggio; viaggiavamo sulla sua Diana bianco panna – panna sporca – al cinema avevano dato Easy Rider. Leggi il resto dell’articolo

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DEL SALONE DI TORINO, DEI CANNOLI DI CATANIA E DI ALTRE CLAMOROSITA’

Quello del duemilaotto è stato il mio primo Salone del Libro, a Torino.

Ero salito per presentare un libro, il mio primo, ho dei ricordi confusi, mi resta in testa solo una gran sete, ed il viaggio di ritorno, con la radio accesa, a gioire per il pareggio di Kharja a San Siro, c’era Inter-Siena, l’aèsseroma era ancora là a giocarsi lo scudetto e con quel pari ancora di più. Poi la settimana successiva niente, chi segue un po’ il pallone se lo ricorda di sicuro, Vucinic porta in vantaggio i giallorossi e l’Inter se ne rimane aggrappata ad uno zero a zero striminzito a Parma, passano i minuti, la Roma è campione d’Italia per un’oretta, ma ti pare che, finché Ibrahimovic decide che no, non può andare così, non mi pare per niente e infatti non si possono avverare certi sogni, quel nun succede ma si succede non ha da succedere e quindi punto e a capo.

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QUESTIONE DI GENETICA

Dall’altra parte dell’Enza son cattivi, mica è colpa loro, questione di genetica.

Al liceo un giorno c’è stato uno che s’è messo a dire che noialtri reggiani c’abbiamo la testa quadrata. Era lì che faceva un mezzo comizio, lo sosteneva anche Cesare Lombroso, diceva, in un libro del millenovecentosedici, s’infervorava, non aveva fatto altro che attualizzare gli studi di Mendel, e sottolineava Mendel, sì, quello dei legumi: sapete che Mendel, e buttava l’occhio qua e là su chi lo seguiva attentamente, ha teorizzato la somiglianza tra le teste quadrate dei reggiani e i fagioli borlotti? Risolii sommessi. Era un vantaggio evolutivo mica da poco, continuava, con quella testa quadrata là potevano confondersi coi maiali della macchia, anche loro quadrati. E mica rosa, quei maiali: rossi. Maiali. Non capivano, quelli, eppure ridevano.

Ma che vi riderete.

Dall’altra parte dell’Enza son cattivi, mica come noi, votano la Democrazia Cristiana e sotto sotto ci invidiano, noialtri reggiani che siamo così coerenti, e così coesi, e rossi da sempre, sì, ditelo pure che rossi sono i maiali: noi ce la sventoliamo forte, la nostra rossitudine. L’abbiamo mai mandati su, quegl’altri, lo sappiamo mica, com’è che si deve diventare. Forse così, stronzi, come quello al liceo: di Parma, sicuro.

La maglia di Michele Zanutta li fa ridere, i ragazzini del campetto, tutti Gullit, qualche Asprilla, svariati Baggio, solo una di Zanutta: poi cominciamo e c’è il sudore, i dribbling e le teste che girano, gli interventi a vuoto, i Se ne va!, i calci d’angolo spioventi al centro dell’area. Occhio! uomo! gridano, con un po’ d’imbarazzo, di sussiego, di te la dico come mi viene, senza stare a sottilizzare.

Finché non arrivo io con la maglia di Zanutta e pèm, la colpisco di testa, la butto nel sette. Fanno sempre la stessa faccia stupita, un po’ stupida, parmigiana. Non esulto mai: raccolgo il pallone e trotterello verso il centro del campo.

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SOSTIENE SLOTERDIJK, DICE ROBERTO LUIS

Stappare un Malbec in purezza del duemilauno, Ariel riccioluto come Mafalda ma meno caustico e più recalcitrante, dale Burrito, un bicchiere dannazione, in veranda coi piedi al fresco e la cordigliera più in là degli alluci, l’Aconcagua innevato di mezzetinte grigiastre, devo raccontarti una storia, cuore aperto come la fisarmonica di Anibal Troilo da coscia grassa a coscia grassa, dì un po’: tu non lo conosci Sloterdijk, nevvè?

Roberto Luìs sa: pronunciare con discreta credibilità la frase si presenta di colore rosso rubino, riconoscere l’aroma fruttato, di frutto a bacca rossa, saggiare la morbidezza, la corposità, la persistenza del Malbec.

Ariel sa: bere. Col naso tappato e le mani callose che strangolano lo stelo del calice.


Una regola, una soltanto conta, dice Sloterdijk: esclusivamente il vincitore sarà ricordato. Non il secondo, non il terzo, argento e bronzo sono umanizzazioni riecheggianti cristiana compassione, a Roma e Atene è diverso: è consegnato a imperitura gloria chi prevale. Sugli Dei, in Grecia. Sull’Uomo, a Roma.

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