L’inutilità del genio post-moderno /2

Entriamo ora nel vivo. «Ogni uomo è un debitore e un mimo, la vita è teatro e la letteratura è una citazione»: Emerson, Società e solitudine. Questa citazione extra ci dà il là per la prossima domanda pleonastica e retorica che dobbiamo porci: di che cosa la letteratura è la citazione?

(Citazione, dunque contagio da un testo all’altro. Contagio esclusivo perché non per tutti e non in tutte le modalità).

Se questa letteratura di cui ci riempiamo la bocca è, come abbiamo visto, un’illusione repertiata e reiterata all’infinito nello spazio e nella storia ed è anche un morbo elitario, inevitabilmente dobbiamo ricercare la sua fonte originaria – cioè la cosa di cui è citazione – in campi analoghi a quelli rilevati.

Illusione (o menzogna o sogno o visione o come si vuole), morbo, fenomeno elitario: dove arriviamo? Arriviamo a una malattia poco comune che ha molto a che fare con l’illusione.

Marx e Freud dicevano (mutatis mutandis) che l’automatizzazione (leggi: reiterazione, compulsività) aliena e uccide (alienazione e thanatos, questi i principi che approfondirono in tal senso). Dunque, questa malattia rara d’illusione vestita, è mortifera e alienante.

La risposta diventa improvvisamente chiara, addirittura lampante: la letteratura è citazione della follia.

L’arte della follia. Il rapporto fra follia e creazione artistica ha creato da sempre curiosità e interesse. Perfino la follia di Nietzsche, quindi non un artista nel senso “tradizionale” o “comune” del termine (è meglio sorvolare sulle sue liriche pubblicate postume in uno stile decisamente brutto e accademico), ha stimolato non poco la fantasia degli studiosi, impegnati a capire se sia stata la follia a influenzare la sua filosofia o se la sua filosofia abbia determinato la follia (in questa sede preferisco trascurare il cinico dato della febbre sifilitica).

Quella di Nietzsche è un caso decisamente poco comune: prescindendo dalle modifiche apportate dalla sorella filonazista Elisabeth, la sua opera si caratterizza per la complessità con cui si snoda attraverso tematiche e registri stilistici assai differenti. Dall’organico saggio letterario-filosofico La nascita della tragedia all’apologo filosofico-favolistico espresso quasi unicamente per aforismi del Così parlò Zarathustra, al libro quasi propriamente filosofico di Considerazioni inattuali o Umano, troppo umano.

Ben consapevole del rischio che si corre di sollevare diatribe già ricorse nel mondo della filosofia e della letteratura, sono tentato di sottolineare la raffinata letterarietà dell’opera del filosofo. Pare quasi che Nietzsche abbia compreso l’importanza d’un linguaggio capace di coinvolgere ed esprimere, lontano dai peripli linguistici d’un Kant o d’uno Hegel (non a caso i testi di quest’ultimo furono definiti da Schopenauer «il più inutile, insulso sproloquio di cui si sia mai accontentato una testa di segatura» espressa nel «linguaggio più orribile e anche assurdo, che ricorda il delirio dei folli»). Sembrava aver colto il problema stesso del dire, così come lo colse in seguito Heidegger, che probabilmente ne aveva abbastanza di dover lavorare con un linguaggio che lo costringeva a scrivere frasi come «Nello stato emotivo l’Esserci è già sempre emotivamente aperto come quell’ente a cui esso è rimesso nel suo essere in quanto essere che esso, esistendo, ha da essere».

Lo stile nietzschiano è sobrio, ma ricco; asciutto, ma evocativo; abbordabile, ma elegante. Si tratta d’una vera e propria opera di divulgazione, fatta sia per filosofi che per letterati che per uomini comuni.

Quindi anche per Nietzsche si può innescare una delle suddette diatribe su filosofia e letteratura. Diatribe del tipo: Leopardi, Esopo, Dante Alighieri, De Sade, Borges, Machiavelli, Henry Miller, Orazio, Jean de La Fontaine, S. Francesco sono più scrittori o più filosofi? Confucio, Rousseau, Platone, Sartre, S. Agostino, Pascal, Giordano Bruno, Erasmo da Rotterdam, Kierkegaard, Voltaire sono più filosofi o più scrittori? Per non parlare di casi affini a quelli di La Rochefoucauld, Buddha, Hölderlin, Novalis o lo stesso Nietzsche.

Ma non è questo l’argomento di cui stiamo parlando, perciò ritorniamo al discorso interrotto poco fa.

Un altro dei molti punti in comune fra follia e arte è Van Gogh. Impressionista ante litteram, colpito dalla nausée du vivre prima di molti altri, fragile e forte, visionario e depresso. In lui c’è la sintesi di molti motivi esistenziali e anarchici, superomistici e decadenti, artistici e volgari: un Machiavelli della pittura, azzarderemmo.

All’orecchio di Van Gogh si possono dare mille significati (oltre quelli ufficiali): rifiuto, depressione, ribellione, autolesionismo pseudo-religioso e ancora ricerca di sé, effetti della vita, edonismo masochista, etc…

Come mille significati si possono dare allo stile e alle opere di De Sade, alla sua psicologia, alla sua dialettica, alla sua follia, agli intermezzi filosofici in Justine o in Filosofia del boudoir o nei Dialoghi filosofici.

E ancora il succitato Hölderlin, morto folle dopo essere stato un precoce filosofo e un precocissimo poeta. Quasi identico a Lucrezio, che addirittura, come riporta l’arguto padre della chiesa S. Gerolamo, scriveva per intervalla insaniae.

Tirare le somme di quest’argomento è quasi impossibile (non dico del tutto impossibile solo perché sono convinto che nulla sia impossibile), oltre che per scarsità di studi in merito, perché si cadrebbe sicuramente nell’opinione soggettiva.

L’unico modo per capire se la follia sia elemento integrante della produzione artistica o se piuttosto la produzione artistica conduca alla follia sarebbe diventare pazzi o artisti (che, in fin dei conti, sono praticamente la stessa cosa: o, meglio, sia i folli che gli artisti godono della “lateralità”).

Oppure si potrebbe provare a sostenere la seguente ipotesi: l’artista è un pazzo e viceversa.

Cosa fa l’artista nelle sue opere? Coglie il circostante, lo destruttura… lo smembra, lo rielabora pezzo per pezzo e lo ricostruisce in una propria maniera originale. Il processo patologico della follia è il medesimo. Il pazzo destruttura e ricostruisce la realtà a proprio uso e consumo.

La creazione dell’opera d’arte, insomma, si serve dello stesso processo di derealizzazione del mondo che nel folle è spontaneo. L’artista si serve della sua sensibilità e della sua cultura per ricostruire la realtà, la ricostruisce – per così dire – “umanisticamente”. Mentre il folle opera tale processo servendosi d’una logica; della sua logica, che ricostruisce tutto in termini fondamentalmente incomprensibili per gli altri esseri umani. Ma logicamente! Potremmo arrivare a dire che, mentre l’artista “pecca” di soggettività, il folle conserva una certa logicità all’interno della sua follia. È vittima della propria logica, mentre l’artista lo è della propria sensibilità.

E seppure fosse illogico, il folle, sarebbe comunque antiumanistico.

De Sade, all’incrocio fra arte e follia, dava dei significati propri a concetti comunemente accettati dalla società a lui contemporanea. Così come un secolo dopo avrebbe fatto Nietzsche con la filosofia, Van Gogh con la pittura e come aveva fatto Lucrezio con la poesia.

Tutti loro avevano trasposto la destrutturazione del reale nell’arte, con risultati davvero eccezionali. Altri intellettuali e artisti, pur bravissimi e preparatissimi, non sono stati in grado di raggiungere i risultati di uno dei personaggi succitati.

E perché questo? Perché non erano “pazzi”.

 

Antonio Romano

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Questi uomini

«Continui a toccarti l’occhio, ma ti fa ancora male?»

«Solo quando cambia il tempo. Ma devo confessarti che quello che mi brucia di più è l’orgoglio ferito.»

«Pensi sempre a lui, vero?»

«Si, sempre. Come ho fatto a credergli? Non riesco a perdonarmelo. Se ripenso alla figura che ho fatto, mi sento l’emblema della stupidità.»

«Non pensarci, capita a volte di dare fiducia a chi proprio non se lo merita.»

«E come faccio a non pensarci? La nostra storia ha fatto il giro del mondo. Tutti la conoscono e ridono della mia ingenuità.»

«Se è per questo anche la mia storia con quell’altro la conoscono tutti.»

«Si, ma tu ne esci bene.»

«Non ne ho mica la certezza assoluta, sai.»

«Meglio di me sicuramente, alla fine la tua vittoria è inequivocabile.»

«Vittoria inequivocabile dici, vorrei averne la sicurezza. Non ho avuto quella sensazione quando la nostra storia è finita. All’inizio mi sono sentita così sollevata. Quell’uomo era davvero esasperante. Ossessionato da me. Mi ha inseguito dappertutto. Le altre non le guardava proprio. Voleva solo me. Davvero, non ce la facevo più.»

«Questi uomini, questi piccoli uomini.»

«Piccoli uomini, si. Quando ti si avvicinano sembrano esseri trascurabili, senza importanza e invece riescono a condizionarti la vita. Non riesci a sottrarti loro facilmente.»

«A volte riescono anche a rovinartela la vita, come nel mio caso. Quello che ho incontrato io non dovevo proprio sottovalutarlo. Eppure mi sembrava piccolo, indifeso, alla mia mercé, così come tutti gli altri. Mi piaceva sentirlo parlare, mi piaceva sentire come si aggrappava alle parole. Ognuna che pronunciava, per lui era un attimo in più di vita che guadagnava. Lui lo sapeva e le sapeva usare. Con quelle sue belle parole mi ha raggirato. Avrei dovuto schiacciarlo subito, come ho fatto con tutti gli altri.»

«E’ vero quello che dici. All’inizio questi piccoli uomini sembrano quasi indifesi. Le prime volte, quando li vedevo avvicinarsi a me, cosi minuscoli da sembrare inermi, provavo quasi imbarazzo per loro. Poi, sentendo le prime punzecchiature, ho cominciato a rivoltarmi infastidita e li gettavo via senza badare loro più di tanto. Ma ho dovuto imparare subito a non sottovalutarli. Se li lasciavo fare mi avrebbero mangiato viva.»

«Ti confesso che ero io che li divoravo. A volte mi sembrava di essere un mostro senza cuore, ma quando ho fatto i conti con la crudeltà di quell’uomo, è stato facile rendermi conto che la mia mostruosità era controbilanciata dalla sua capacità di essere spietato e cinico. Accecarmi così, mentre dormivo, è stato oltretutto vile, un atto da vero codardo. Ma quello che più m’ha offeso è stato prendersi gioco di me, mentirmi e farmi fare una figura da imbecille anche con la mia famiglia. Quante bugie mi ha raccontato. Io pensavo di essere crudele, in realtà i miei erano giochi da bambini in confronto alle innumerevoli sofferenze che mi ha inflitto.»

«Anche io sono stata dipinta come un mostro inumano, feroce e assassino, come se fossi stata io ad andare a cercarlo. Ma tutti, proprio tutti, sanno che era lui che mi inseguiva, non mi lasciava in pace, studiava i miei percorsi per darmi la caccia. La sua fine se l’è voluta lui, l’ha desiderata, l’ha invocata. Aggrappato a me fino all’ultimo istante, se avesse potuto mi avrebbe strangolato. Sono sicuro che fosse proprio la morte che desiderava, legato a me per l’eternità a ricordarmi quanto mi aveva desiderato e quanto aveva sofferto per me.»

«E’ stata la sua pazzia, la sua ossessione a causare la sua morte. Tu non hai nessuna colpa, anzi ne esci vincente alla fine. Invece nella mia storia sono io lo sconfitto.»

«Che senso ha chi ha vinto e chi ha perso ormai, Polifemo? Tutto passa, il tempo scorre, sia per noi mostri che per loro, i piccoli uomini che hanno incrociato il loro destino con il nostro. E anche io devo confessarti che, adesso che non c’è più, a volte, quando sono immersa nelle profondità dell’oceano, sento la sua mancanza e istintivamente salgo in superficie con l’inconfessata speranza di vedere ancora una volta le vele del Pequod. Scruto l’orizzonte tutto intorno. Poi spruzzo in aria tutta la mia solitaria delusione e mi immergo di nuovo. Beviamoci su. Alla salute.»

«Alla salute, Moby.»

Pasquale Bruno Di Marco

Frammenti d’identità

Cercava di fuggire da tutto, inutilmente. Correva scalzo cercando una via d’uscita, una fottutissima porta bianca da aprire, sfondare, da chiudere alle spalle per poi riprendere a volare. Non c’era nessuna porta, nessun nascondiglio, solo due pareti strette ed oleose, dritte, senza un inizio e una fine. Un’eterna strada ai confini di qualsiasi realtà.

Inerme davanti alla sua pazzia lasciò la fuga per accendersi una sigaretta e alzarsi dal divano. La puzza di caffè bruciato e di plastica fusa era diventata insostenibile. In cucina il metallo della macchinetta era diventato incandescente, il caffè era sparso sul gas e l’impugnatura era completamente squagliata. Una ragnatela informe. Appena si avvicinò, la macchinetta scoppiò sfigurandogli il viso. Cadde a terra urlando, come non faceva da tempo, nella sua apatica staticità.

Meglio l’inesistente porta bianca? L’attimo di quella che è comunemente detta lucidità – il contatto con la realtà più condivisa e considerata unica – l’ha definitivamente condannato alla convivenza di quel nuovo essere che non riusciva a riconoscere nello specchio. Dall’altra parte della porta ora c’era un nuovo individuo che cercava la stessa uscita per entrare, tornare indietro.

Quell’essere irriconoscibile che si affacciava allo specchio aveva trovato il passaggio per un brevissimo attimo. Era passato dall’altra parte e ora aveva perduto di nuovo la via. Di nuovo immerso in un rettilineo asettico e spersonalizzante. Di nuovo sul divano, con un’altra sigaretta, identica a quella di prima, ma dal sapore più amaro, le gambe allungate, attratte dal tavolino basso e colmo delle inutilità cresciute nell’ultimo mese, gli occhi rivolti verso il nulla, di fronte la tv accesa su un canale morto. Un continuo fruscio che accompagnava lo scorrere di minuti, ore, trasformandosi in una soffice nenia cullante. La ninna nanna della pazzia.

Lo stato semicatatonico portato a tempo da quel metronomo ipnotico fatto di frequenze lo riportò nel suo corridoio bianco. La corsa continuava estenuante. Le gocce di sudore scendevano dalla fronte sugli occhi annebbiando la vista già indebolita dall’unico colore presente, il bianco che creava un’illusione di fluidità.

Nessuna psicologia delle forme, ma dell’assenza di qualsiasi modello. Un mondo senza scelte, senza opportunità, se non quella di cercare inutilmente qualcosa di diverso, in cerca di quella macchia di differenza che a volte è dispregiata, cancellata, in nome dell’unica e giusta uniformità. Un a-modello in cui riconoscersi, un cerchio che ricopre un’area assente da riempire con alcun idea.

L’adrenalina statica non riusciva a smuoverlo. L’unico risultato era la mano tremante. La tensione si accumulava, lo scarico attraverso i piedi e il pavimento era minimo. I suoi occhi iniziarono ad irradiare energia. Un’energia luminosa che striò d’oro la lunga strada bianca, immettendo una nuova percezione, forse una via d’uscita. Dritto davanti a lui, più in la, verso la finestra aperta, verso il balcone scoperto, giù, dritto verso il marciapiede da poco asfaltato.

Daniele Vergni

Le nostre rose – Piccolo omaggio a Sibilla Aleramo e Dino Campana

Ho visto il film «Un viaggio chiamato amore», poi mi sono documentata sui protagonisti, Sibilla Aleramo e Dino Campana, che ebbero una travagliata relazione sentimentale, messa a nudo nelle lettere che la scrittrice e il poeta si scambiarono tra il 1916 e il 1918. La vita di Dino Campana è caratterizzata dal «male oscuro» ed è scandita da ricoveri in manicomio. Ho immaginato e ancora ho immaginato e mi sono immedesimata fino a scrivere questa pagina, questa lettera immaginaria, un libero omaggio, seppur misero me ne rendo conto, ai due grandi poeti e al loro immenso Amore. Nonostante la sua pochezza, voglio condividerla, qui, adesso, con voi…

Silvia Castellani

Cercavamo le rose. Le cercavamo insieme. Erano le mie rose e le tue rose. Poi ci siamo dimenticati le rose perché non erano le nostre. Erano solo le mie e le tue rose. Chiamavamo il nostro viaggio col nome amore. Nessuno si amava come noi. Pochissimi nella storia che ci ha preceduti si amavano come noi. Sono mesi che non ho tue notizie, che non ti vedo più comparire nei pressi della casa dove vivo.

Ogni tanto avverto la tua presenza vicina. Ma sono tracce, soltanto tracce che ti nascondono alla mia presenza. Se fossi rimasta al tuo fianco, te ne saresti andato comunque presto ed io avrei perso quel poco che avevo, quel poco che mi è rimasto e spero di convertire in opere di bene. Quello che è rimasto è il frutto di quel grande amore, di quel  viaggio insieme che è stato e non ha potuto essere ancora, perché di fronte alle cose troppo grandi e alle distanze troppo lunghe, avverti l’infinito e scappi per non impazzire. Ma impazzirai lo stesso, amore, perché così è scritto nel tuo destino. Siamo solo pedine in mano all’Alto anche se ci sforziamo di decidere le sorti della partita. L’abilità è una sciocca tenda da cui filtra in trasparenza la natura vera che ci compone. Carne e ossa. Si muovono per un po’ dentro a mura che noi stessi ci siamo costruiti all’intorno. Le convenzioni sociali che ci illudono di una protezione di gomma che ci fa rimbalzare riportandoci al centro dove prima eravamo. La paura è quella di non innamorarsi più perché l’intensità cieca di un sentimento incontrollabile è un pericolo che pochi possono raccontare ed è meglio che l’esperienza estatica non si ripeta. Ma la natura che ci tiene per la gola spinge a desiderare quella riproduzione di suoni e colori senza pari. Sono stata invitata ad una riunione sugli psichiatrizzati. Sento che avrò presto la possibilità di andare contro al sistema, di denunciare le falle sanitarie della salute mentale. C’è stato un giorno in cui io ho potuto scegliere. Ci sono stati giorni in cui altri non hanno potuto fare la stessa scelta e si sono ritrovati legati a letti, stretti da cinghie di cuoio. Matti. Da legare. Non chiedo mai soldi a nessuno. Mi bastano un abito liso e scarpe buone e resistenti. Per il resto so che il mio Dio, il tuo Dio, provvederà ai miei bisogni primari. La mia fede non mi abbandona, non più ed è da quella forza che ora il mio spirito trae nutrimento. Non vado a letto con nessuno, da tanto tempo. Non succede perché non amo. Dubito che potrò nuovamente amare nel senso che noi conosciamo. Quello che ci faceva cercare insieme le rose disperatamente. Quelle rose che non abbiamo potuto trovare ma che hanno permesso a me di vivere per sempre.

Ti saluto, amore mio, perché la testa è stanca e non ragiona più bene.

Sibilla