Diario di bordo – Colle Val d’Elsa

Rieccoci nuovamente. Come anticipato ieri, per questo lunedì interrompiamo la rubrica Poesia precaria per dar spazio al Diario di bordo di Scrittori precari.

Buona lettura.

Gianluca Liguori


Scoppio ancora di emozioni colorate ed accoglienza immersa nella natura. Avrei voluto vedere lo spettacolo ma ero sul palco.

Andrea Coffami


Secondo Google mappe Colle Val d’Elsa è raggiungibile velocemente da Montevarchi tramite una strada alternativa, che risparmierebbe il passaggio per la superstrada e per Siena tagliando attraverso il Chianti. Stampo la cartina e parto. Un’ora e mezza più tardi, perduto tra Radda e Castellina in un incubo di tornanti, medito il suicidio.

Raggiungo infine Colle in clamoroso ritardo e vengo recuperato dal Chimenti in una bizzarra piazza postmoderna. Il regista mi conduce attraverso misteriosi cunicoli nel ventre della collina fino a un ascensore fantascientifico; inizio a pensare che Colle Val d’Elsa è un posto davvero molto strano. E molto bello: per qualche motivo, dal Valdarno immaginiamo sempre i paesi del senese come brutti, forse per la fosca fama di Poggibonsi, e irrimediabilmente questi si rivelano infinitamente più belli dei nostri.

Attraversiamo questa Loro Ciuffenna monumentale finché scorgo le sagome note, inconfondibili nella postura e nei gesti, degli Scrittori Precari, professionisti della pausa cicchino. Chimenti e Montagnani mi lanciano in prova generale (più tardi Chimenti avrà modo anche di lanciarmi letteralmente) senza spiegazioni, ma dalla luce che brilla negli occhi dei Precari, e dalle luci vere, sparate con sapienza sul palco, capisco che la faccenda funzionerà.

A prove concluse scendiamo nel Foyer per rimetterci in sesto a caffè e whisky; benché mi tocchi bere un terrifico blended, il buonumore tiene. Inizia a trasformarsi in tensione quando realizziamo che sta effettivamente arrivando gente, e che anzi il teatro dei Varii sarà pieno.

Neanche il tempo per tremare, e siamo già in scena; avendo i registi studiato per me un ruolo da “finto spettatore”, pronto a entrare in scena dalla platea, posso godermi lo spettacolo dalla prima fila. E funziona, lo spettacolo, non solo nel documentare il collettivo Scrittori Precari e la sua attività letteraria, ma anche nel cogliere, grazie all’incrocio tra materiale filmato e lettura dal vivo, i tratti salienti di ciascuno, e così abbiamo uno Zabaglio tanto spassoso quanto amaro, laziale più che romano, che in controluce carica macchinette del caffè e auspica segreti piani di rivolta; un Piccolino corporale e romantico, imbianchino pratoliniano, che estrae poesie dal secchio della calcina, un Liguori dolente, quasi un personaggio di de Amicis, nel suo farsi carico con dignità di tutte le ingiustizie del mondo, un Ghelli felino, solo apparentemente mite, Bianciardi reincarnato, e salvato, forse, dall’aver scelto Roma invece di Milano. E li troviamo tutti insieme, a imbarazzarmi con la lettura di un mio brano, e poi sagome nere, di nuovo inconfondibili, mentre la regia gli spara addosso un filmato torcibudella. C’è tempo poi anche per i miei cinque minuti di gloria, con una lettura dal prossimo romanzo, ma gli applausi sono certamente, e giustamente, tutti per loro.

Vanni Santoni


Andare in scena non è stato facile: due giorni di prove, pochi mezzi tecnici e un budget ridicolo sono ciò che abbiamo a disposizione. Quando le luci si abbassano ci accorgiamo però che il teatro è pieno. Un senso di incredulità che raddoppia la tensione. Alla fine gli applausi, la voglia del pubblico di non andare subito a casa, di parlare di quanto hanno appena visto e sentito. Questo volevamo: prolungare la messa in scena attraverso il lavoro cognitivo dello spettatore.

Leggendo i giornali, guardando i telegiornali, comunemente parlando, siamo allo stesso tempo vittime e propugnatori di un inarrestabile impoverimento del senso comune. Un impoverimento che passa attraverso il linguaggio, cavalcando parole-marionetta – “precario”, “straniero”, “extracomunitario”- che ci annebbiano la vista sul mondo per farne una terra straniera.

Ci muoviamo da tempo in un orizzonte comunicativo verbo-visivo che basa la sua efficacia sulla devalorizzazione e sulla desemantizzazione dell’esperienza, come sull’anestetizzazione del comune sentire: per ridare un corpo semantico all’immaginario non resta allora che rivendicare l’extraterritorialità della “scrittura di scena” e la sua capacità di comporre l’eterogeneità delle deposizioni e delle registrazioni, di attraversare le terre ed incrociare gli sguardi. Ma per riuscirci è necessario sapere esattamente cosa raccontare e come farlo.

Quello che noi, assieme a Scrittori Precari e Vanni Santoni, volevamo raccontare è il paese Italia, il paese che muore, il paese che dello spettacolo ha fatto la realtà perché la realtà potesse sembrare uno spettacolo. E per farlo abbiamo usato ogni mezzo a nostra disposizione: il documentario e la performance, la luce e la musica, il videoclip e la pagina scritta.

Adesso bisogna rilanciare la posta in gioco, portare lo spettacolo in giro, sino a dove possiamo arrivare.

Dimitri Chimenti e Andrea Montagnani


LIVE THE WRITING – omaggio breve a Trauma Cronico e ai pigiami singolari

“Prima ci facciamo un’idea, poi semmai…”, così dicendo il pubblico entra in sala e si siede in platea dopo aver ispezionato di fretta libriccini cd e volumi riposti in bella vista sul tavolo all’ingresso.

Piccolo gingillo questo teatro dei Varii, i cui fronzoli ottocenteschi cozzano meravigliosamente con l’apparato scenico vuoto dei Precari, creando una strana attesa incerta e diffidente.

A terra i cavi sembrano serpenti dormienti in attesa di venire scossi e manipolati dalla fonazione.

Nessuno sa. Si può solo immaginare a scatola chiusa cosa mancherà, essendo solo un reading. Cosa non si vedrà, visto che è solo un reading. Quanti tempi si dovranno aspettare in tossicchio nervoso a causa di virgole e punti e fogli da girare. “E’ solo un reading!”

Scorrendo, le immagini per qualche minuto restano schiacciate sul fondo. Innocue. Distanti. Finché lo spirito si fa carne e qualcuno esce dallo schermo, invadendo lo spazio che prende a riempirsi. Sotto l’occhio di bue sale la voce e lo scrittore s’allontana dal precario. Lo vedi perchè si premura di centrare la carta e se stesso sotto l’occhio di luce, finendo, senza volerlo, col dare preminenza al foglio. Deformazione professionale.

Lasciando cadere le pagine a terra sembra sospeso su una nuvola bianco sporco e finisce per fondersi con le immagini in un gioco serrato di dentro e fuori, casa e palco, voi e noi. Noi. 4+1 moschettieri immobili, illuminati psichedelicamente dalle luci che, ora, sparano su un pubblico calato e assorto. In attesa di altro.

Lo sguardo che dopo un’ora e mezza davanti al tavolo all’ingresso ripassa in rassegna a mente fresca le copertine dei libri, ha un’altra coscienza.

“E’ solo un reading… forse”.

Donatella Livigni


La prima volta degli Scrittori precari in un teatro.

Una prima volta che emoziona ma intriga fin da subito.

Le tavole di legno sotto ai piedi. Un’acustica particolare e a noi nuova. Le luci puntate su di noi che non riusciamo a vedere il pubblico davanti a noi. Strano.

Da quando abbiamo iniziato l’avventura di Scrittori Precari abbiamo avuto col pubblico un rapporto quasi simbiotico. Ed ora siamo soli, in una bolla di luce che non svela i volti in platea.

E’ l’applauso che accompagna la nostra uscita di scena a sollevarci. Man mano che ci alterniamo ci rendiamo conto che questa nuova dimensione non ci è poi tanto estranea.

Lo spettacolo dura un’ora e quaranta ma vola via come se niente fosse. E noi, nonostante tutto ancora leggeri, ci rendiamo conto che avremmo persino voglia di rifarlo daccapo.

Luca Piccolino


Erano anni che non tornavo a Colle: anni ingoiati dalla vita metropolitana, dove il tempo scorre ad alta velocità. Una volta amavo fuggire dalla bolla d’aria che è la vita di provincia, oggi sento a tratti la necessità di ritornarvi, come per un principio di liberazione e rigenerazione, per disintossicarmi dai miasmi della vita di città.

Ad attenderci, dunque, non soltanto il tempo sospeso della provincia protetta da mura medievali, ma anche il tempo pieno del teatro, che per la prima volta abbiamo sperimentato venerdì. Tutto per merito di due folli chiamati Dimitri Chimenti e Andrea Montagnani, che prima hanno passato tre giorni a girare per Roma dietro a questi quattro ceffi rabberciati che siamo noi; che poi hanno fatto le ore piccole per due settimane a montare quelle immagini; e che infine si sono rinchiusi nel Teatro dei Varii, dove li abbiamo trovati al nostro arrivo, per concludere la regia di questa incredibile video performance. Che adesso tocca lavorare per esportarla in giro, perché lo spettacolo funziona, anche se nato in condizioni d’emergenza, o forse soprattutto per quello, perché c’era e c’è l’urgenza di farlo.

Simone Ghelli

Pubblicità

Trauma cronico – Appunti

Sono in ritardo mostruoso, in genere il pezzo per Trauma cronico sono solito scriverlo almeno un paio di giorni prima della domenica, lo carico sul blog e programmo la sua pubblicazione per la mezzanotte e un minuto. Questa volta no. Questa volta avevo buttato giù qualche appunto, delle riflessioni sull’omicidio di Brenda, sulla storiaccia della querela a Tabucchi da parte del presidente del Senato (colpirne uno per educarli tutti), oppure dell’inquietante caso Cosentino, avrei voluto parlare di queste cose e concludere con la bella notizia della decisione del giudice a sospendere l’ordinanza di sfratto a Frigolandia di cui vi ho parlato già qui e qui.

E invece sono nella mia stanza, mezzanotte passata da un po’, Zabaglio è appena andato via, era venuto un paio d’ore fa, dopo avermi telefonato per uscire ma io ero troppo stanco. Abbiamo mangiato un piatto di pasta col pomodoro e chiacchierato di tante cose. Abbiamo letto insieme il pezzo di Alex del primo tentativo di racconto collettivo che stiamo sperimentando noi precari, e poi il pezzo, fantastico, del Diario di bordo di Colle Val d’Elsa di Vanni Santoni. Già, perché con Scrittori precari non ci fermiamo mai. Venerdì scorso siamo stati all’università di Siena, in una splendida giornata letteraria in cui prima Wu Ming ha presentato Altai (di cui vi invito a leggere il resoconto qui) e poi Rovelli ha presentato Servi.

Nemmeno una settimana dopo, giovedì, eravamo a Colle Val d’Elsa. L’appuntamento con i ragazzi era per l’una e mezzo a casa mia, dove avremmo dovuto mangiare la frittata di maccheroni di Zabaglio e poi partire. La frittata fatta da Zabaglio era qualcosa di immangiabile, insipida, gommosa, insapore, dopo il primo morso ho desistito, eppure io non sono di quelli schizzinosi, mangio quasi tutto. Ma la frittata di Zabaglio era qualcosa di indescrivibile. Lo stesso Piccolino non è riuscito a buttarne giù più di due bocconi. Zabaglio non sa bere, non sa mangiare e non sa cucinare; lo amiamo anche per questo. Lo abbiamo preso in giro per l’intero viaggio, sgranocchiando risate incontenibili.

Siamo arrivati a Colle che era già buio, abbiamo parcheggiato e passeggiato fino a che non ci ha raggiunto Francesca, che ci ha scortato dapprima a depositare gli zaini, prendere un caffè rigenerante e una mezz’ora di relax a Villa Francesca, dove eravamo ospiti, e poi di lì al Teatro dei Varii dove ci aspettavano i registi, gli straordinari Dimitri Chimenti e Andrea Montagnani. Quindi prove. Una pizza e del vino in teatro. Ancora prove. Poi tutti a Villa Francesca, dove.

Premo il tasto ffww – scorre la nottata insieme a Luca ed Angelo (Simone, arrivati a casa, si è messo nel fodero, ha letto qualche pagina di un libro, poi è crollato) e la notte, quindi eccoci al venerdì mattina. Si è trascorsa la mattinata tra la casa e il giardino, in completa rilassatezza e buon umore, poi si è andato a mangiare un paio di panini a qualche chilometro di distanza, quindi di nuovo a casa fino alla chiamata del Chimenti che ci dava appuntamento per le cinque e mezzo in teatro, dove si è fatta un’altra prova, e poi mentre si fumava sigarette fuori è arrivato pure Vanni. Rituale di baci, abbracci, sorrisi, poi via con la prova generale. Quindi ancora un’altra pizza, la birra, le sigarette, il caffè, il whisky, ed il teatro che si riempiva e s’era fatta l’ora.

Lo spettacolo si chiama proprio Trauma cronico. Appunti per un film in terra straniera. Quando Dimitri mi ha chiesto l’autorizzazione ad utilizzare per lo spettacolo il nome di questa rubrica, mi sono sentito molto orgoglioso di me stesso.

La performance è volata. Siamo andati alla grande, tutti bravi. I registi, due pazzi. Vanni è stato eccellente, come suo solito. Non vedo l’ora di leggere il suo prossimo romanzo.

Una serata eccezionale. Siamo partiti per il verso giusto in un’altra nuova magnifica avventura. Certo c’è ancora tanto da crescere e da lavorare, ma sono certo che se ne vedranno ancora delle belle. I lavori, d’altronde, non finiscono mai.

Vi saluto tutti, abbracciandovi, invitandovi a ritornare domani, lunedì, per il Diario di bordo della carovana errante di Scrittori precari con piacevolissimi contributi esterni, ma non vi dico altro. L’appuntamento è a domani.

Buona domenica

Gianluca Liguori

Face to Face! – Amira Munteanu

Amira è un vampiro metropolitano, dei nostri giorni, un essere che crea arte e ne beve dalla giugulare pulsante. L’ho conosciuta grazie a due grandi “artisti” come Manuela Gandini e Alan Jones e dopo aver visto i suoi lavori ho deciso di intervistarla.

Quattro chiacchiere con i canini sul collo.

Amira: vampira antropologicamente modificata, cosa si nasconde dietro questa definizione?

E’ la frase autoironica con la quale inizia il mio libro d’arte sul vampiraggio, argomento molto discusso in questi tempi. Il mito del vampiro affascina da 200 anni e ha avuto anche una sua evoluzione.

Per me è un gioco autoironico sul mio folklore e gli ho dato una connotazione diversa in quanto legata favolette della Transilvania, terra dove io sono nata.

Con la mia arte rivendico la serietà delle cose frivole e l’ironia delle cose serie. Ovvero? Che tipo di arte crei?

Non credo alle tipologie. Le considero termini inventati o assunti da studiosi, critici, che fanno di tutto per schematizzare il lavoro dell’artista e inquadrarlo in una cosiddetta tipologia.

L’artista non la pensa cosi, è libero, crea senza pensare al tipo di arte, alla corrente o alla tipologia in cui verrà poi catalogato.

Come nasce Amira e la sua passione per l´arte?

Sono nata in una casa piena d’arte, i miei erano appassionati e molti dei miei familiari hanno scelto la via dell’arte, dunque ho avuto la fortuna di respirarne sin da piccola.

Perché l’Italia? C’è ancora spazio qui per l’arte e soprattutto per donne artiste?

Lo spazio te lo crei. Sono 12 anni che vivo e lavoro in Italia. Sono arrivata qua per l’arte che appartiene a questa nazione.

Per quello che riguarda la donna artista è un argomento molto discusso, basta non farci troppo condizionare da quello che si dice.

Sei più una performer o un’artista pura?

Chi lo dice che un’artista performer non è un’artista pura? Io uso la performance come contorno o come un aggiunta ad un’’idea, ma non mi limito all’effimerità della performance.

Penso che serva per dare forma a un’idea, ma l’idea non si deve limitare solo alla performance.

Quale forma prediligi per le tue creazioni?

Io creo quello che sento e mi sento molto libera nel farlo.

Cerco di indagare su argomenti che m’interessano veramente nel momento del mio lavoro senza però soffermarmi per anni sulla stessa forma.

Infatti ho spaziato dal figurativo all’astratto, collage, fotografia, scultura, installazioni, performance e anche video.

Cosa fa cultura oggi?

Quasi niente… quello che si fa oggi nell’arte non è cultura, è più vicino a varie forme mediatiche o pubblicitarie.

L’artista fa operazioni troppo individuali e socialmente non esiste un contesto per radunare il lavoro degli artisti contemporanei in una tendenza.

Il lavoro individuale ha bisogno di decenni per diventare cultura e per ciò io non credo che l’arte contemporanea faccia cultura in questo momento.

Quali sono i tuoi riferimenti nell’arte?

La sincerità del pensiero e il lavoro libero senza condizionamenti imposti dal mercato.

Trovo obbligatoria una ricerca sul contenuto del lavoro che si intende fare e diffido dai lavori senza un approfondimento sensato.

Vivere, morire o risorgere?

Immedesimata nelle vesti della vampira direi ”vivere da vampiro”.

Buio e luce. Cosa preferisci?

Direi ”quella luce buia”.

Il silenzio cos’è per te?

Saper far rumore.

La frase che vorresti ti rappresentasse.

Ogni lavoro ha il suo motto, un solo termine lo trovo limitativo.

Il libro che ha accompagnato la mia mostra sul vampiraggio è pieno di frasi ricercate e ironiche sul mito del vampiro, ma come avevo detto il mio lavoro è in evoluzione e dal profano argomento vampiresco mi sto avviando verso un mondo poco esplorato in questo momento: IL SACRO.

Alex Pietrogiacomi