Face to Face! – ‘Ala Al-Aswani

Dopo Palazzo Yacoubian ‘Ala Al-Aswani torna a parlare del mondo arabo, della sua cultura, dei suoi paradossi e dei sentimenti che animano un paese difficile e affascinante. Stavolta però cambia la scenografia, cambiano le strade e le voci sono quelle degli immigrati che popolano la piccola Egitto americana che è nata a Chicago. Città dell’università in cui si incrociano le strade dei protagonisti e titolo dell’ultimo libro di ‘Ala, incontrato in una splendida mattinata romana davanti a molte tazze di caffè.

Questo libro parla del “Mal d’Africa” in un certo modo?

Può essere un aspetto del romanzo anche se in realtà il libro apre a prospettive più ampie su quelle che sono le esperienze della sofferenza umana in generale. Aspetto che poi si riscontra in tutti i personaggi.

“La libertà ha un prezzo” viene detto in Chicago, qual è il prezzo che devono pagare i suoi personaggi e quale quello che dovrebbe pagare il suo paese?

Vorrei innanzitutto dire una cosa: io non mi ritengo responsabile di quello che dicono i miei personaggi nel libro, nel senso che io non esprimo una mia opinione per mezzo di loro e del mio romanzo. Personalmente posso trovarmi in pieno accordo o in pieno disaccordo con le loro opinioni, ma non sono le mie idee ad essere espresse per bocca loro.
Detto questo, mi trovo pienamente concorde con l’affermazione che fa il mio personaggio. Ovviamente questa non vale solo per gli egiziani o gli arabi, non è una problematica legata prettamente a loro ma a tutto il genere umano: tutti i popoli hanno dovuto pagare, nella storia, un prezzo per ottenere la propria libertà. Compreso l’Egitto che ha subito il colonialismo inglese per 90 anni e che ha pagato un altissimo prezzo di sangue per ottenere la sua indipendenza.

Chicago è una specie di atto di fede continuo: nella medicina, nello studio, nei ricordi, nella religione. Cos’è per te la fede?

Credo nei valori umani. Credo nell’essere umano e questo è prettamente correlato al discorso della letteratura perché tutte le cose di cui hai parlato si ritrovano nel romanzo in quanto io cerco di produrre la vita sulla carta nei miei libri.
Giangiacomo Feltrinelli pronunciò una frase molto bella, lui che, come ben sappiamo, è stato un comunista rivoluzionario e ha condotto una vita d’onore, disse “Io conosco soltanto due tipi di romanzo: il romanzo vivo e quello morto”. Ecco io sento questa frase molto vicina alle mie idee. Quando scrivo cerco di scrivere un romanzo vivo, che affronti ogni genere di problematica.

La tua è quindi una fede nella vita come flusso di ricordi, esperienze che si riversano nello scrivere?

Impariamo una cosa molto importante nella letteratura: possiamo essere tutti diversi ma condividiamo gli stessi valori, o meglio , stessi sentimenti, desideri e dolori e se diamo uno sguardo alla storia vediamo che ci sono state guerre e lotte tra popoli in nome di questo scibile umano. Ma tutte queste lotte, essenzialmente ci conducono a quella tra il lato umano e il lato non umano della vita. Per lato umano intendo dire la difesa di valori come la democrazia, la libertà d’uguaglianza contro il non umano della dittatura, del terrorismo, del potere. Credo nella vita e nella lotta per essa.

Pur mantenendo, chi più chi meno, la propria coscienza etnica, religiosa, i tuoi personaggi hanno una specie di incapacità all’integrazione con la nuova società che gli accoglie. A volte sembrano rassegnati ad uno status quo impostogli o auto imposto. Perché?

Innanzitutto ci tengo a dire che i miei personaggi non rappresentano modelli sociologici, sono quello che sono: creazioni letterarie. Questo è molto importante proprio perché, in quanto tali, sono frutto dell’ispirazione di uno scrittore e quindi non ci si può aspettare di trarre delle conclusioni dai loro comportamenti nel tessuto narrativo, mentre invece le conclusioni si possono giustamente trarre guardando i modelli sociologici.
In questo romanzo ho presentato figure di immigrati che non sono riusciti ad affrontare, ad adattarsi a questa nuova cultura che li accoglieva. Questo però non collima affatto con la mia esperienza perché conosco moltissimi immigrati che si sono integrati perfettamente.
Due dei miei personaggi vivono un conflitto molto forte tra quello che è il loro retaggio culturale e la loro tradizione con la nuova cultura nella quale si trovano inseriti. La formula dell’inserirsi mantenendo le proprie radici non è impossibile, ma loro non ci riescono.

Se ti chiedessero di scrivere un libro scegliendo uno dei tuoi personaggi quale sceglieresti e perché?

È una domanda molto difficile perché scegliendo un personaggio andrei ad escludere tutti gli altri e per me è impossibile perché questi personaggi nascono dall’esigenza di essere presentati, di essere introdotti nella storia. Nascono dalla stessa motivazione di essere raccontare e farsi raccontare, allora a questo punto se dovessi scrivere un libro su un solo personaggio non sceglierei tra quelli già vissuti ma lo creerei ex novo.

Una frase dice “Era stato come se avesse voluto seppellire la sua pena dentro di lei”. La donna è una grande protagonista in ‘Chicago’, un contenitore di emozioni proprie e altrui. Come viene visto il mondo femminile dai tuoi occhi?

La donna svolge un ruolo importante, anzi importantissimo, non solo nei miei romanzi ma nella mia vita naturalmente. Devo dire che io sono molto di parte per quanto riguarda le donne, perché le trovo delle creature incredibilmente creative, degli esseri umani incredibili. Come medico so che la vita “nasce” dall’uomo ma poi si “sviluppa” nella donna e questo è molto, molto significativo in quanto la donna ha un talento per tutte quelle che sono le comunicazioni nel mondo e con il mondo, una sensibilità decisamente superiore. Preferisco avere a che fare con le donne nella vita proprio per questo in quanto rarissime volte mi trovo ad avere difficoltà a comunicare cono loro e poi, quando scrivo, nel momento in cui mi trovo di fronte ad un personaggio femminile e al suo sviluppo, la scrittura diventa più fluida, probabilmente questo è dovuto all’energia dinamica che possiede la donna e che riesce a trasmettere.
Ritengo che la donna finora abbia ottenuto molto meno di quanto si meriti e non solo nel mondo arabo, ma ovunque. Dobbiamo arrivare al punto in cui la donna deve essere vista come la meravigliosa creatura che è senza distinzioni sessiste di nessuna specie.

Possiamo parlare di redenzione nel tuo libro?

Qualsiasi buon testo letterario e spero che questo lo sia, deve essere letto a livello stratificato quindi c’è anche questo desiderio però non ho un vero e proprio controllo sui miei personaggi dall’inizio alla fine del lavoro. Io li creo, li porto alla vita ma poi smetto di avere le redini e inizio a seguirli, a leggerli e portano a compimento la loro esperienza, la loro volontà, trovando o no la loro strada, la loro redenzione.

Sei quindi uno scrittore “grande fratello”.

(Ride) Sì e alcune volte sto simpatico ai miei personaggi mentre altre volte diventano molto aggressivi.

Cosa ci vuole per produrre vita sulla carta per te?

All’inizio ho scritto una novella e due raccolte di racconti e mi ci sono voluti dieci anni per scrivere il romanzo, che è la forma più complicata se vogliamo di narrativa e ho verificato i programmi che si seguono nei corsi di scrittura creativa, anche se non ho mai frequentati e ho scoperto che non esiste una formula precisa per scrivere. Ho tentato e fallito molte volte nell’arco di questi dieci anni perché spesso mi sentivo davanti ad un testo morto e per questo mi è piaciuta molto la frase di Giangiacomo Feltrinelli. In quei momenti mi fermavo per poi tornare a riprovare, ma è stato un processo lungo di tentativi e fallimenti.

Dopo aver messo la parola fine ai tuoi romanzi, cosa auguri ai tuoi personaggi?

È un’esperienza strana. Ho lavorato per due anni e mezzo tutti i giorni e alla fine avrei dovuto mettere tutto su cd per mandare in stampa ma per due settimane ho rimandato, procrastinavo. Ad un certo punto mi sono fermato per capirne il perché e ho individuato tre sentimenti: il primo un senso di grande orgoglio, il secondo una condivisione quotidiana della vita dei miei personaggi e ora la separazione imminente e alla fine mi sono sentito come al giorno delle nozze di una figlia, un giorno di gioia ma anche di lacrime perché sai che dovrà vivere la sua vita e le si deve augurare il meglio.
Ho provato queste sensazioni con ogni mio lavoro ma ne ho preso consapevolezza solo con quest’ultimo.

Detto tra noi, i tuoi personaggi si farebbero curare una carie da te?

Essere un dentista mi ha permesso di sviluppare grandi contatti umani e amicizie. Ho molto a cuore i miei pazienti e quello che mi raccontano quindi penso di sì.

Alex Pietrogiacomi

Comunicazione di servizio:

qui trovate i prossimi imminenti appuntamenti dal vivo con Scrittori precari

Pubblicità

Face to Face! – Don Winslow

Dopo lo splendido L’inverno di Frankie Machine torna Don Winslow con “il più grande romanzo sulla droga che sia mai stato scritto” come lo ha definito James Ellroy, Il potere del cane (Einaudi).

Un viaggio senza freno nell’incapacità di potersi salvare, la storia di una guerra dove non esistono innocenti e il male regna assoluto.

Un’intervista per vivere in prima persona il morso del cane.

Come e perché nasce questo libro?

Io vivo a San Diego, in California, vicino al confine messicano. Ecco, tutto è nato una mattina: mi sono svegliato e ho letto il giornale che parlava del massacro di 19 innocenti, tra uomini, donne e bambini in Messico. Un posto dove con mia moglie e gli amici andavamo per passare dei week end a basso costo, così per divertirci. Non volevo davvero scrivere questo libro ma da questa notizia mi sono chiesto come poteva succedere, come poteva accadere un fatto simile, e per capire mi sono reso conto che dovevo spiegarmi quello che era accaduto nel 2001, ma per farlo dovevo indagare su ciò che era accaduto nel 1997, nel 1993 e così via, a ritroso. E anche grazie a questo scavare è uscito fuori un libro molto “alto”.

Realtà e fiction come possono convivere nel tema della droga?

Con difficoltà, con tristezza e più del 90% di quello che viene raccontato nel romanzo corrisponde tragicamente alla realtà. Il vero problema dello scrivere questo libro è che la maggior parte degli eventi reali sono di gran lunga peggiori, di gran lunga più bizzarri, per così dire, di quello che potevo inventare. A volte qualcuno potrebbe pensare o esclamare “Ma questo è incredibile!”, potrebbe, tranne il fatto che in realtà tutto questo è accaduto e accade.

Molti hanno definito questo romanzo il nostro “cuore di tenebra”. Ma esiste davvero questo cuore di tenebra e, se sì, qual è?

Probabilmente questa è proprio la domanda che ha fatto nascere questo libro, che mi ha spinto a scrivere. È stata la ricerca di una risposta a questa domanda. Naturalmente non penso di essere un saggio, infatti ho impiegato cinque anni per scrivere Il potere del cane, cinque anni in cui ho studiato, mi sono documentato, ho fatto ricerca. È stato come una sorta di quotidiano viaggio virtuale nell’Inferno e io credo veramente che il “cuore di tenebra” sia in ogni persona e temo di dirlo, sia raffigurabile con la capacità di essere crudeli con gli altri. È un processo che ci indurisce, ci rende più impenetrabili e che raramente avviene per grandi passi. È qualcosa che parte dal piccolo, dal minimo, quindi un piccolo atto di crudeltà apre le porte per un passo più grande verso questa, verso un’efferatezza maggiore.

Quindi un’evoluzione verso un cuore di pietra più che di tenebra.

Oh sì! Avrei voluto dare io questa definizione, mi sarebbe piaciuto scriverla. Ottima definizione ridatemi il romanzo che lo scrivo. Sì un cuore che non ha nulla di pulsante.

I protagonisti dei suoi romanzi sono quasi sempre dei mezzo sangue: irlandesi, messicani, italiani. Cosa vuol dire essere uomini a metà in America?

Il libro fondamentalmente parla di confini, e il confine è qualcosa che separa ma al tempo stesso unisce e ci sono molti confini nel romanzo: abbiamo quello fisico, Keller (uno dei protagonisti) è metà americano e metà messicano, lacerato dalle due culture. Un’intera vita che trascorre in questa lotta. Per quanto riguarda essere metà irlandesi e americani può anche essere un lavoro a tempo pieno, perché noi irlandesi ci portiamo il passato dietro come una palla al piede, perché siamo innamorati del dolore del nostro passato in realtà, e quindi il personaggio irish di Callan è sempre in lotta con il suo passato, che sia personale o generale, deve esserlo per poter soffrire.

Cosa nasconde per lei e per i suoi personaggi il passato? (Fischia, ride e saluta facendo finta di andar via)

Per quello che mi riguarda come irlandese mezzo sangue, porto il mio fardello da irlandese ma soprattutto da cattolico irlandese, il passato per me è anche quello, è anche il tipo di istruzione religiosa ricevuta. Per i miei personaggi non nascondo ad esempio che l’alcolismo di Cullen è una cosa che conosco bene, come la violenza dei quartieri da cui viene. Il passato in una certa misura è un fantasma che ci segue non che deve inseguirci. Credo che per uno scrittore i ricordi siano al tempo stesso una benedizione e una maledizione.

I suoi eroi o antieroi, vivono o sono vissuti dalle loro storie? (ride)

C’e una differenza!?

La consapevolezza è la differenza.

Sono di certo consapevole che sono dei protagonisti di un romanzo eppure per questo tipo di libri, sono convinto che il carattere, il personaggio è tutto, quindi trascorro mesi e mesi a pensare ai protagonisti prima di scrivere. È questo che gli permette di muoversi nella loro storia. Entro molto in profondità con loro e a questo punto ci si sente molto vicini a queste entità, si vedono come reali e al tempo stesso sono conscio del fatto che non esistono. Il dramma sarà quando penserò il contrario … allora dovrete venirmi a prendere! Invece sembra che i fan, i lettori non si rendano conto di questo e arrivano delle mail arrabbiate “Perché hai fatto questo?!” e io mi sento di rispondere “Easy…”

C’è sempre un’operazione nei suoi romanzi (l’operazione perizoma in Frankie Machine, la Fenice in questo): quanto serve avere un buon piano, una buona operazione nella vita?

Non è molto importante, credo che possa essere qualcosa di negativo, un impedimento. “L’uomo fa i piani e Dio ride” hanno detto persone più importanti di me. Bisogna avventurarsi, vivere un’avventura. Ogni libro che scrivo parte con un piano, una visione in cui dopo circa 70 pagine i personaggi dicono e fanno cose non preventivate e il piano è rovinato. Quindi perché impegnarsi in una cosa così? Ma soprattutto perché togliersi il gusto dell’imprevisto, dell’ignoto?

Grazie al suo stile le città prendono vita e parlano, denunciano, mostrano: quanto però non si sa delle strade che si percorrono ogni giorno?

Credo che i luoghi siano dei personaggi e non penso che si possano disgiungere i personaggi dai luoghi perché in realtà i luoghi sono troppo importanti per le persone e poi c’è una magia in questi luoghi. Amo scrivere di questa magia e di questi posti. Ci sono dei panorami, delle viste di San Diego di cui non mi stanco mai e sento sempre la stessa emozione ogni volta che ci torno, la stessa emozione della prima volta. Quando vengono degli amici a trovarmi lì porto in quei posti a determinate ore e spesso penso ai miei lettori come se fossero miei ospiti e voglio mostrargli i miei posti. Perché sarebbe così se venissero a farmi visita.

Le sue città sono mamme borghesi o prostitute ammiccanti?

Senza dubbio delle prostitute ammiccanti.

C’è una caratteristica o più caratteristiche dei suoi personaggi, in cui si rispecchia?

Sì e questo mi disturba un po’. I miei personaggi sono dei solitari e vedo un po’ questa cosa anche in me, forse in maniera eccessiva. La maggior parte delle volte cerco di stare da solo e quando mi capita a lungo, non cerco di incontrare persone ed è un peccato perché mi piace la gente che conosco, che scopro. Poi c’è una certa tristezza che sinceramente vorrei anche eliminare.

I nuovi Stati Uniti, con il nuovo governo saranno più carichi di storie noir o di saggi che spiegheranno?

Entrambe, però ci saranno più spiegazioni del passato. Queste elezioni sono state un punto di svolta fondamentale per gli Stati Uniti, per delle ragioni ovvie ma anche per alcune che non sono così evidenti: ovviamente Obama è nero, ovviamente è giovane però ritengo che questa amministrazione consideri l’informazione non come una minaccia ma come qualcosa che da potere, che davvero occorre e quindi può avere conseguenze per tutti e soprattutto per gli scrittori.

Qual è il potere del Cane?

Innanzitutto si tratta di una frase della Bibbia e questo ha sorpreso tutti quelli che mi conoscono, pensa che un amico mi ha detto “Ehi cosa ti è successo!? Una notte sei inciampato e ti si è aperta la Bibbia?”. È un salmo che recita “Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane”. Una frase che continuavo a ripetermi e a ripetere a tutti per capire da dove provenisse, a cosa appartenesse e continuavo a ripeterla anche perché aveva una sua poesia che si rispecchiava con quello che stavo scrivendo. Poi ho incontrato una donna, un ministro del culto che ha sposato me e mia moglie, che mi ha spiegato che era nel vecchio testamento e che il potere del cane è la capacità e la consapevolezza dei ricchi e dei potenti di poter opprimere i poveri e coloro che non hanno nessun tipo di potere ed io dopo 500 pagine di libro mi sono reso conto che stavo parlando di questo. Inoltre nello slang americano il cane, soprattutto il cane nero è un sinonimo di dipendenza, si dice “Questo cane mi ha azzannato”, per parlare della dipendenza da una droga e quindi era perfetto per un romanzo che parlava di droga.

Alex Pietrogiacomi

*Intervista pubblicata sul numero 662 de Il Mucchio Selvaggio