IL FLEP!, PRESUMO

di Pier Paolo Di Mino

Il Festival delle Letterature Popolari, dunque: che detta così è una cosa che si presta a non pochi fraintendimenti.

Un festival sembra una fiera, una manifestazione che, con l’aggiunta della specificazione letteraria, riguarda i libri. A rigore, è certo che i libri hanno a che fare con la letteratura, ma dovrebbe essere dato meno per scontato che la letteratura debba averlo coi libri, visto che una storia si può avvalere di altri mezzi per vivere. E poi c’è l’aggettivo popolare, che potrebbe alludere a una fama sperata; o a questioni folkloriche; oppure essere l’indicazione di una precisa aspirazione populista: in fondo il limite tra lo scrittore e il politico è difficile da demarcare. Certamente quella espressa dal nostro festival è una politica, un prendersi cura della nostra civiltà, ma proprio per questo abbiamo ben poco a che fare con il populismo. Leggi il resto dell’articolo

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Il libretto rosso di Pertini

Sandro Pertini è stato, ed è, il Presidente più amato dagli italiani. Rappresenta quella figura etica di uomo incorruttibile e di indefesso combattente per la libertà di cui oggi più che mai si sente il bisogno. Il libretto rosso di Pertini è un saggio fra letteratura e storia, che raccoglie gli scritti e i proclami politici del grande Presidente di tutti gli italiani e ne ricostruisce l’entusiasmante biografia, dalle sue imprese durante la Prima Guerra Mondiale alla Guerra di Resistenza durante la Seconda, passando per l’esilio e il carcere, fino ad arrivare alla Presidenza della Repubblica. I Di Mino, autori del romanzo Fiume di tenebra, sull’epopea dannunziana a Fiume, e de Il libretto rosso di Garibaldi, completano così un percorso ideale alla riscoperta dell’epica nazionale, ridisegnando la figura di Sandro Pertini, in una chiave moderna e originale, come mito ancora attivo. Leggi il resto dell’articolo

Il piccolo Michaux #3 – Editoriale

Il viaggio così come è andato veramente, almeno secondo Pier Paolo Di Mino.

Del resto non andare al Salone di Torino, con lo struscio in mezzo ai banchi, il chiacchiericcio da bar sport in salsa aulica, la festa di Minimum Fax, e tutte quelle strette di mano fra bella gente, è come non vedere il Festival di Sanremo: astrarsi dai piaceri delle vecchie casalinghe a cui non sono più rimasti nemmeno i rammarichi è un tirarsi fuori dalla mischia comunque pericoloso. E poi la bellezza non è mai gratuita, e, anzi, va estratta con fatica, magari trovandola nell’insolito. Leggi il resto dell’articolo

Il senso del piombo – Reloaded

Mi chiedete chi è Carlos Reutemann, se esiste un’organizzazione dietro questa sigla. Rispondo no, non è stata la sigla di un’organizzazione unica, con organi dirigenti, con capi, programmi e riunioni periodiche. Non esiste un’organizzazione che abbia questo nome e che sia comparabile alle Brigate Rosse o a Prima Linea. Non esiste nemmeno un livello minimo di organizzazione. Ogni gruppo armato che si è formato anche occasionalmente nel nostro ambiente, fosse anche per una sola azione, ha potuto usare questa sigla. D’altra parte non c’è stato modo per impedirlo. Mi chiedete se siamo o siamo stati fascisti, vi rispondo che i fascisti del dopoguerra non sono mai esistiti e che candidamente qualcuno può solo aver pensato, o per meglio dire immaginato, di essere fascista. Di Mussolini non me n’è mai importato niente: non ho mai pensato che fosse una gran persona. Quando sentivo dire: “Uccidere un fascista non è reato” non pensavo al Duce o al Ventennio, ma all’unica persona fascista che conoscessi, mia madre.  

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IL SENSO DEL PIOMBO – Quando la cronaca segue la fiction

[Riproponiamo qui di seguito una nota di Pier Paolo Di Mino e un estratto del romanzo di prossima uscita per Castelvecchi, Il senso del piombo di Luca Moretti]

Torna in libertà Pierluigi Concutelli il più grande tra i killer della destra eversiva degli anni Settanta

la Repubblica

Corriere della Sera

Il Messaggero

Oggi  le foto del “Comandante” riempiono le prime pagine dei quotidiani. L’irriducibile killer nero, adorato ed emulato dai giovani della destra eversiva è stato liberato per gravi problemi di salute.

Concutelli, l’irriducibile che ha gridato: “Non mi pento di nulla! Non rinnego nulla, non mi sono mai inginocchiato allo Stato.”, è uno dei protagonisti del nuovo romanzo di Luca Moretti, Il senso del piombo,  in uscita a maggio per i tipi di Castelvecchi.

 Un romanzo epico che affronta una materia difficile come quella della destra eversiva: dal rogo di Primavalle alla fine dell’esperienza di lotta maturata in seno allo spontaneismo armato dei Nuclei Armati Rivoluzionari di Giusva Fioravanti. Un romanzo che restituisce le profonde ragioni epiche che condizionano, nel bene e nel male, i fatti della storia.

Oggi che quella realtà torna alla ribalta, nessuna lettura è più salutare per la comprensione di quei fatti e di quelle gesta (quelle del killer spietato del giudice Occorsio) di quella che si può godere su queste pagine. Di seguito incollo due stralci dal romanzo di Luca (sapendo che l’amico non me ne vorrà) in cui si ripercorrono proprio i momenti dell’assassinio del Giudice e dell’arresto del “Comandante”.

PPDM

…Hey! Ho! Let’s go!

Il Giudice dovette prestare un po’ più di attenzione alle parole, capiva molto bene l’inglese ma alla radio qualche parola finiva sempre per sfuggirgli. Quella canzone sembrava fare ironia sulla tentata invasione americana dell’isola di Cuba del 1961. Era il primo singolo di un gruppo nuovo, i Ramones. Allungò la mano destra sulla manopola dell’autoradio e cercò di sintonizzare meglio la frequenza.

Milleottocento colpi al minuto, trenta colpi al secondo.

– Il mio giudice è morto ma ancora non lo sa.

Fu così che il Comandante si fece il giudice suo. Senza parlarne con nessuno, con la facilità con cui si beve la birra d’estate, da solo. Quel giudice continuava a infilare il naso dove non doveva e lui l’aveva fatto fuori senza troppi convenevoli, così, come un maiale in mezzo alla strada, mentre lo Stato rimaneva a guardare.

Il Comandante era in guerra, da sempre. Il suo cervello era un’affilata tattica militare, conosceva ogni tipo di arma, ne avrebbe potuto parlare per ore. Ma non era uso che il Comandante parlasse con qualcuno, il combattente parla solo con la sua Kavasaki: milleottocento colpi al minuto, trenta colpi al secondo.

Il Comandante era solo, riteneva i suoi vecchi compagni degli sciacalli, dei collusi, uomini ormai lontani dallo spirito vero della Rivoluzione. Anni prima aveva combattuto in Africa per l’indipendenza dell’Angola, in Spagna aveva fabbricato orfani a non finire e poi, solo con la sua Kavasaki, era tornato nel Belpaese per cucinarsi il giudice suo. Nessun problema, niente di strano: il carro armato va colpito una e una volta sola, nel punto più fragile, al cuore. Il Giudice dal canto suo aveva fatto tutte le dichiarazioni possibili: quei gruppi andavano messi a ferro e fuoco, andavano catturati, tutti.

Nessuno lo aveva ascoltato, il Taranta aveva fatto in modo che venisse lasciato solo e il giorno era arrivato.

Il Comandante era allora uscito di buonora, pettinato e con dei baffetti affilati, la strategia perfetta al millesimo, da buon miliziano aveva già calcolato ogni movimento del Giudice suo: la strada senza possibilità di manovra che imboccava ogni mattina per recarsi al Palazzo di Giustizia, i tempi, gli spazi. Il Comandante fermò la moto proprio davanti all’auto del Giudice suo impedendone la marcia, quindi la trivellò comodamente con la Kavasaki spagnola, quello crepò all’istante, lui fece inversione e venne via come tornando da una giornata al mare con gli amici, senza rimorsi, senza guardare indietro, perché in guerra si guarda solo avanti. I Ramones erano ancora sulle note di Blitzkrieg Bop: “la guerra lampo”.

… Intanto il Comandante era stato arrestato. Gli avevano dato giusto il tempo di farsi il giudice suo e poi l’avevano messo fuori gioco. Il covo dove viveva trincerato era in pieno centro storico, i vicini furono allertati subito dal rumore degli spari, il Generale era stato chiaro: il Comandante era un soggetto pericoloso e nessuna pietà dovevano avere nel catturarlo, dovevano ammazzarlo se necessario.

La porta era corazzata e i quaranta colpi dell’M12 non riuscivano a sfondarla, gli uomini dell’antiterrorismo continuavano a sparare.

Era la paura a sparare.

– Io non esco!

Strillava dall’interno dell’appartamento.

– Fatene entrare uno. Solo uno e deve essere pulito, disarmato, mi serve solo un volontario che mi viene ad ammanettare.

Passarono alcuni secondi di silenzio.

– Entro io.

– Chi sei?

– Mi chiamo Antonio.

– Entra Antò, che se ti comporti bene oggi è il tuo giorno fortunato, una medaglia non te la leva nessuno.

La porta si aprì e l’agente entrò così come il Comandante aveva ordinato, ponendosi nel cono di fuoco dei mitra. Il Comandante richiuse la porta e perquisì Antonio per bene.

– Inquilini, mi sentite? Sono nudo e mi sto consegnando disarmato alle forze dell’ordine! Avete sentito bene? Sono disarmato!

Gli inquilini non risposero, rimasero barricati in casa. Avevano sentito tutti, il Comandante era salvo, nessuno avrebbe potuto più suicidarlo.

LM

Pier Paolo Di Mino presenterà con l’autore Luca Moretti e Cristiano Armati, direttore editoriale di Castelvecchi, il romanzo Il senso del piombo sabato 7 maggio presso la sede RASH, in via dei Volsci 26 a San Lorenzo – Roma.

Info: http://www.ilsensodelpiombo.tk


Intervista a Giuseppe Garibaldi

È arrivato in libreria il secondo lavoro di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino “Il libretto rosso di Garibaldi” (Purple Press), un vero e proprio compendio che racchiude quanto si volesse sapere sull’eroe italiano attraverso lettere, proclami e scritti di varia natura.

Per parlarne e approfondire abbiamo puntato molto in alto, scomodando lo stesso Giuseppe, che abbiamo scoperto essere il vero artefice della nascita del libro.

Quanto segue è la pura verità.

 

È vero che lei ha imposto ai Di Mino di scrivere un libro che la riguardasse?

La vostra è una generazione delicata, vegetariana: chiamate “imposizione” ciò che è semplicemente un consiglio dato con forza. Nella vita ho imparato a fare le cose alla spicciolata, con veemenza e senza pensare troppo. Mai ritrovarsi a dire che «pensando, consumai la ‘mpresa che fu nel cominciar cotanto tosta». Sono versi di Dante, il secondo italiano più importa della storia dopo di me. L’importante è fare. Per esempio, l’Italia: non è come la sognai, ma la rivoluzione è come l’amore, e in amore è meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati.

Perché lo ha fatto?

Perché in fondo la vita di un uomo si riduce al racconto che se ne può fare. E penso che farei peccato più grave fingendo modestia se non reputassi la mia vita un racconto che vale proprio la pena di essere fatto. Io stesso vi provai, cimentandomi con calamo e carta. E molti sono quelli che hanno usato la loro arte per proseguire la mia leggenda. Ma oggi, in questa Italia immiserita, vituperio delle genti (è sempre il secondo italiano più importante che lo dice) vedo riaffacciarsi una nuova pubblicistica che mi dipinge come un ladro (io che non ho mai accettato un soldo da nessuno e ho sempre vissuto poveramente!). Qualcuno mi ha accusato di essere un negriero (io che ho liberato schiavi lungo tutte le coste d’America: Aguyar, fratello mio, mi sei testimone!). Mi si accusa di essere la fonte dei mali del nostro bel meridione, e si dimentica che sono stati i soldati piemontesi, e non le mie giubbe rosse, a fare gli eccidi di contadini calabri e campani; non io ho vuotato le casse del ricco regno delle due Sicilie e ridotto quella terra felice a una colonia interna. Dare la colpa di tanti mali alla mia opera di liberazione è cosa vana e folle quale l’accusare un padre dei mali di un figlio per averlo messo al mondo. Non voglio dimenticarmi di parlare di Bronte, che mi grava sul petto: ma dirò solo che la strage terroristica (perché questo fu praticato da quei contadini) non è la stessa cosa di una rivoluzione. Parlare male di me, significa parlare male di una rivoluzione che cercava di realizzare giustizia e libertà. Con questo libro voglio far smettere questo vaneggiamento, perché si torni a parlare di giustizia e libertà.

È vero che lei è un socialista?

Non vedo come potrei essere definito diversamente. Sono stato il primo internazionalista per aver combattuto per tutte le cause progressiste di tutti i paesi del mondo. E l’ho fatto perché gli uomini potessero vivere in un mondo libero, dove il contadino avesse la sua terra e l’operaio il suo diritto al lavoro e alla vita la più dignitosa possibile: dove non vi fosse posto per il tiranno, l’ingiustizia, la violenza. Il mio è il socialismo delle persone, e non una teoria su un libro di filosofia. Il mio socialismo è vivo non in teoremi astratti, ma nella certezza che la marea socialista finirà per sommergere l’impreparata nave dello Stato.

È vero che lei non aveva rispetto per le donne?

Se amare una donna è non rispettarla, allora mi assumo la colpa.

È vero che lei è stato in Messico?

Mi manca. Un mio nipote, in effetti, ha combattuto lì, ma preferisco non parlare di lui.

Sono vere le cose che si dicono sul suo coraggio?

Vere. E anche se non le fossero, sarebbe dovere e responsabilità ineludibili di un uomo e di un rivoluzionario vantarle. La cosa più brutta che può accadere ad un uomo, e ad una nazione, è di perdere il coraggio; anche solo quello di sperare in una vita migliore.

Come ci si sente ad essere l’Eroe dei Due Mondi? Donne ovunque eh!?

Non è tutto rose e fiori. Per esempio, ricordo in Inghilterra tutta quella gente che mi acclamava, e mi dava segni di affetto, ma poi non volevano farmi fumare il sigaro dentro quelle stanze tutte tappezzate fino a far perdere i sensi a un povero uomo. Per non parlare dell’avermi costretto a coricarmi in orari proibitivi, tipo anche le dieci di sera. E poi le donne, contesse e affini, con quelle astruse complicazioni come l’andare a letto senza stivali. Se vogliamo parlare di vera felicità, parliamo di Caprera e della mia Armosino: una donna vera, con due mani così!

Cosa troveremo in questo libro?

Quei discorsi e quei proclami che rappresentano il mio pensiero vivo: il mio costante invito a tutte le generazioni umane a combattere per il diritto contro l’ingiustizia. Ricordate: lo schiavo solo ha diritto di far la guerra al tiranno!

Cosa non troveremo?

I Di Mino non solo hanno raccolto un ragionato catalogo di miei scritti, hanno anche ridisegnato la mia figura di rivoluzionario e di uomo in una nota introduttiva che è un invito alle generazioni presenti. Io, finita la mia vita mortale, sono ormai un racconto sul quale modellare il proprio impegno umano e, quindi, politico. È un libretto esortativo: quindi non troverete la testimonianza dolente della delusione che nutro nei confronti di questa Italia che pure ho espresso con tanta forza in molti luoghi. È ora di guardare avanti!

Chi le scriveva i discorsi?

Mi pare i Di Mino, no?

È soddisfatto del lavoro svolto dai Di Mino?

Ancora non l’ho letto. Comunque, sì.

Ma lo sa che prima hanno scritto un libro su D’Annunzio? Che ne pensa?

Fiume di tenebra, un romanzo sulla Reggenza del Carnaro, che è l’ultima impresa risorgimentale e, quindi, garibaldina. Ricordo di aver consigliato con forza anche al D’Annunzio di scrivere un libro su di me. Poi, pieno di entusiasmo, il simpatico poeta mi ha addirittura emulato. Nei festeggiamenti di quest’anno, non verrà nemmeno nominato. Tanto gli italiani hanno dimenticato la loro storia, e non sanno più chi sono!

Ci saluti come meglio crede.

Vi saluto, augurando a tutti una nuova Fiume, un nuovo Risorgimento: augurandovi lo splendore di una nuova Repubblica Romana, senza disperare mai, perché ovunque sarete con i vostri ideali di giustizia, libertà e bellezza, là sarà Roma.

 

Intervista a cura di Alex Pietrogiacomi

IL LIBRETTO ROSSO DI GARIBALDI

IL LIBRETTO ROSSO DI GARIBALDI – Discorsi, scritti e proclami dell’uomo che inventò l’Italia sognando una patria socialista (Purple Press, 2011)

a cura di Pier Paolo e Massimiliano Di Mino

 

Riportiamo un breve estratto del nuovo lavoro firmato dai fratelli Di Mino, che a distanza di pochi mesi dall’uscita di Fiume di tenebra escono con un nuovo libro in cui la storia si fonde col mito, che è poi da sempre una delle possibilità che può darsi la scrittura per resistere a una malattia che sembra ormai spopolare nel nostro paese: la perdita della memoria.

Segnaliamo che il libro verrà presentato mercoledì 2 febbraio alle ore 18:30 presso la Casetta Rossa, in via G.B. Magnaghi 14 a Roma (zona Garbatella).


Ci hanno insegnato che non esistono più i miti, o che non è abbiamo più bisogno. In cambio ci danno per articolo di fede che quello di cui abbiamo bisogno, invece, è di produrre e comprare coscienziosamente. Sarebbe più onesto e corretto dire, quindi, che i vecchi miti sono stati soppiantati, con utile operazione teologica, da un nuovo racconto della vita non meno fantasioso di qualsiasi altro racconto. In questa favola bella si immagina la vita come una competizione senza limiti, con leoni e gazzelle che, in barba alla loro reale natura, vivono una vita insonne gli uni cacciando e gli altri fuggendo.

Si capirà, dunque, come siano divenute viete, per non dire pericolose, le vecchie storie che ci avvertivano sugli eccessi egotici degli eroi, con Achille e le sue schiere di ubbidienti mirmidoni pronti al massacro, o con Beowulf che manda a marcire tutto il regno pur di dimostrare il suo valore. Ci dicono che sono robe di scuola piena di polvere.

Non godere più dei benefici di tale avvertimento porta a conseguenze quali sono visibili, oggi, agli occhi di tutti.

La metafisica commerciale contemporanea, poi, deve considerare come vere nemiche quelle storie che ci guidavano nel mondo con coraggio, generosità e astuzia, tipo la storia di Odisseo, il re contadino che torna a casa e, con il porcaio Eumeo, un giovane figlio e una moglie abbandonati, caccia gli usurpatori e pratica giustizia e libertà. Splengler diceva che la civiltà sarà salvata da un plotone di soldati: è vero, ma il plotone è sempre composto dalla gente più strampalata.

Pensate, poi, se un mito ce lo troviamo incarnato, ed è anzi il nostro eroe, un eroe di questo mondo. Anzi di due, ma molto concreti e poco trascendentali: insomma un eroe il cui avvento non va spettato con fede. Pensate se, questo eroe, è l’eroe di cui il mondo sentiva veramente il bisogno (ce lo assicura il comandante Ernesto Che Guevara), e si chiama Giuseppe Garibaldi.

Fiume di Tenebra

È la notte di un giovedì quando, venuto a Roma per un reading di Scrittori precari, mi ritrovo a casa del subcomandante Liguori, in attesa dell’Intercity delle 4:28 che da Roma Tiburtina mi avrebbe riportato a Firenze.

Evidentemente non pago di quanto bevuto durante la serata, il subcomandante sfodera una bottiglia di calvados. Dico che non importa, che sono troppo stanco per bere. Lui versa. Mi faccio un bicchiere, poi un altro. Poi un altro.

Aggrappato al tavolo, cerco di posticipare il torpore, che è ottimo per affrontare l’Intercity delle 4:28 (non c’è mai posto e allora se sei bello stanco ti schianti nel corridoio, la borsa come cuscino, e tanti saluti), ma prima devi arrivarci, al treno.

Sto per desistere e chiudere la serata addormentandomi al tavolo con la testa sulle braccia, come a scuola, quando lui attacca a leggere qualcosa:

Nel settembre del 1919…

Visto il periodo e i gusti del subcomandante, penso che possa essere Rilke, il che non mi smuove. Forse, sballando di nove anni, bofonchio un “li leggerò, i quaderni, lo giuro…”, ma lui va avanti:

…arditi, sbandati, artisti di mezza tacca, orge in mezzo alle strade, donne che si davano a chiunque, e gli uomini pure con gli uomini; e la popolazione che veniva nutrita fantasiosamente a cocaina. Ma questo sarebbe ancora un metodo come un altro per vivere, perché il grave era che…

Io alzo gli occhi, troppo sonno e troppo calvados per capire di cosa parli il brano che sta leggendo, ma la buona prosa, insomma, quella uno la riconosce in qualunque condizione. Lui continua:

… aveva ribattezzato la marina militare fiumana con il nome degli antichi pirati dell’Adriatico, gli uscocchi, e l’aveva mandata a derubare le navi degli altri, al grido di eia eia alalà. A Fiume si campava con la pirateria, sebbene si dicesse che,

oltre che sulla provvidenza piratesca, D’Annunzio dovesse fare conto sull’aiuto di qualche banchiere: ma molti troveranno la differenza troppo sottile. E non finisce mica qui, perché si diceva anche che a Fiume erano peggio dei bolscevichi, e che Lenin in persona avesse approvato tutta la questione: Carli e Marinetti, con le bombe a mano nella giacca, a Fiume si presero una bella ubriacatura comunista. Insomma: un puttanaio: un immenso puttanaio.

Mi ritrovo improvvisamente rivitalizzato. E quindi parla di Fiume, questo brano! La storia della Reggenza Italiana del Carnaro l’avevo scoperta già da ragazzino, leggendo “TAZ” di Hakim Bey, e da lì avevo sempre sospettato che questo D’Annunzio qualcosa di buono lo avesse, se nelle sue vene scorreva almeno un po’ d’anarchia, e metteva l’Oroboros sulla bandiera. Mi entusiasmo, gli chiedo di leggermi qualche altra pagina. Lui va avanti, ma ben presto l’orologio sulla parete mi chiama al treno. Raccolgo i miei coccini e chiedo come si chiama quel libro, che lo voglio cercare.

A sentire che è un libro in lavorazione, un libro-italiano-contemporaneo e non un testo ripescato chissà dove, ci rimango secco. Il subcomandante mi promette che appena esce me lo farà avere. Preso il treno, mi addormento nel corridoio lercio

vagheggiando imprese da “disertore in avanti”.

E qualche mese dopo mi arriva davvero, il libro. Bello anche a vedersi, seppiato come uno lo immagina, con la faccetta del Vate in un cammeo. Fiume di Tenebra, si chiama. Di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, Castelvecchi editore 2010.

Leggo di Serra, di Keller, Comisso e Ada, di generali per cui il frustino non è solo una decorazione, di una estate dell’amore (un autunno-inverno, a voler esser precisi) in anticipo di quarantasette anni e di un piccolo D’Annunzio tutto nervi e sogno. Sono piaceri.

Vanni Santoni



Fiume di tenebra – L’ultimo volo di Gabriele D’Annunzio (Castelvecchi, 2010)

di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino

 

[Leggi qui il prologo]

[Leggi qui il capitolo “Aspettando il tenente Keller”]