“Estate crudele” – un estratto

[Questo breve estratto è tratto da Estate crudele, romanzo al quale sta lavorando Alessandro Bertante]

 

Antonio sta lavorando. Insieme a lui s’intrattiene un uomo di fuori città, quelli li riconosco al primo sguardo.

Una brava persona che viene dalla provincia e che fa decine di chilometri con la sua lunga automobile berlina grigio nera metallizzata per succhiare cazzi di giovani ragazzi brasiliani. Sono tutti uguali quei tipi di uomini: impacciati all’inizio e poi rozzi e prepotenti. Quando si abituano alla lordura che li avvolge, pretendono di possedere ogni centimetro del corpo che hanno pagato. Vogliono tutto, come sempre, come tutti quanti, e non possono aspettare. Perché loro lavorano sodo! Ogni santo giorno della settimana lavorano nella regione pedemontana delle antiche foreste perdute. Dal mattino fino alla sera lavorano, non potrebbero fare altro che la loro razza non conosce altri modi di trascorrere il tempo. Hanno la fabbrichetta, hanno le scarpe marroni, hanno l’agenzia immobiliare, hanno le cravatte grosse, hanno l’auto grossissima, hanno le fedi d’oro, hanno i centri commerciali sberluccicanti di tristezza, hanno il bar nella piazza, hanno la pizza al taglio che è uguale ovunque ed è un antico retaggio di povertà, hanno la macelleria e ce l’avevano pure i loro padri, quelli che hanno costruito i capannoni sulla statale intasata che non finisce mai e che adesso sono vecchi e stanno rinchiusi nella villa monofamiliare con il giardino cintato e la pistola nel cassetto. Hanno tutte queste cose ma non bastano più.

Questi uomini la domenica, quando non lavorano e possono fare il loro dovere, vanno a messa con la famiglia e sono soli nella chiesa vuota e fredda e intasata di menzogna e di paura antica ma loro in realtà se ne fottono perché il lunedì si ricomincia a tirare su denaro e quella è solo una mascherata che tocca farla per zittire la gente che nei paesi è grama e malfidente. Dovranno pure concedersi qualche ora di ebete rinuncia, questi sono uomini che lavorano mica passano i pomeriggi a fare niente come me che sono un fallito e un malfattore senza futuro.

Questi uomini dabbene tristi lavoratori indefessi credono di vivere nella megalopoli della produzione che non finisce mai di aumentare, dove tutto vale, dove le differenze fra le persone sono sfumate nell’unico grande pensiero del consumo, dove tutto si può fare e non ci può essere alcun cedimento né alcuna compassione per le debolezze della gente che mangia e caga lontano da loro. Tutto sembra poter cambiare veloce, sembra crescere, migliorare, raggiungere vette di efficienza rassicuranti. Ma è falso, questa è la più grande menzogna che dobbiamo sopportare, qui non si trasforma più niente, tutto è guasto, indegno e caduco dentro all’assurda megalopoli della fabbrichetta che ha preso il posto del lago Gerundo sulle cui rive i popoli parlavano alla natura ricevendo in cambio saggezza.

Questi uomini sono padroni, non padroncini. Questi uomini sono il vanto della piccola imprenditoria italiana che ci ha fatto conoscere nel mondo. E ci ha fatto pentire di starci. Questi uomini capi di famiglia ci impiegano poco a mutare pelle. Si abituano allo squallore, alla rumenta della vita, si abituano e finalmente si riconoscono davvero. Lo vogliono prendere in bocca, bramano il cazzo giovane, palpitante fra le labbra.

È bello il cazzo, è sincero, è immediato, è l’unica cosa vera nella loro vita di menzogne. E dopo altri tre o quattro incontri, si fanno coraggio e lo prendono anche nel culo, proprio quel cazzo giovane sudamericano perché lo hanno sempre desiderato e ci sono affezionati, perché loro in quel momento diventano capaci di amare. Sborrano dentro al culo di un ragazzino, si lavano il cazzo nel lavandino e poi escono e subito montano in macchina.

Prendono l’autostrada e in silenzio tornano a casa. Soli a notte fonda, lontani dalla moglie, nella luce fioca del bagno degli ospiti, si guardano allo specchio della loro anima.

Non mentono più, sono felici, tornano bambini.

Fanno tanta strada, raggiungono la metropoli, solo per quel breve, inestimabile, attimo di verità.

 

Alessandro Bertante

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La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 5

La partenza non fu certo delle migliori, anche se la preparazione fu certosina e richiese, stando alle testimonianze di certi vicini, diversi giorni di movimenti sospetti.

Il signor Tal dei Tali, ad esempio, giura e spergiura di aver sentito nell’appartamento sottostante (quello del leader del gruppo, e che negl’incartamenti viene definito “il covo”) strani rumori metallici, con molta probabilità corrispondenti al reiterato gesto di aprire e chiudere il tamburo di una pistola – ma qui andiamo nel campo dell’interpretazione, e difatti negli stessi incartamenti si annota anche del sospetto di un rumore prodotto piuttosto dallo scatto di un coltello a serramanico; per non parlare dell’assurda difesa dello scrittore di cui in oggetto, che insinua addirittura la presenza di un ossessivo ribattere sui tasti di una vecchia macchina da scrivere (come se ancora ne esistessero ai tempi di internet!). Proprio questa macchina da scrivere, di cui non si è mai trovata traccia a dire il vero, è stata poi assunta quale simbolo di una rivolta delle lettere che si è arenata al primo scoglio: quel potere economico a cui da sempre la letteratura finisce col genuflettersi, e ancor più oggi che del libro si ricorda prima la confezione del suo contenuto.

Rumori sospetti o meno, gli è che i cinque si dettero un gran da fare a stipare materiale altamente esplosivo nel loro portabagagli, e finanche sotto alle poltrone e in mezzo ai piedi, perché ne producevano in gran quantità, e soprattutto lo davano via con difficoltà. Libretti e libricini che sbucavano come funghi velenosi da somministrarsi all’inconsapevole popolino, che come i curiosi della domenica va per boschi con la guida, ma che poi si emoziona al primo mistero che sfugge alla tassonomia ufficiale, e chinansi sopra a coglierlo; che poi si sa, da lì a intossicarsi è un attimo.

Se vogliamo esser precisi, visto che abbiamo qua a che fare con documenti ufficiali – e che l’intento mio non è di far letteratura per amor del bello, ma di mirare al vero per onor del giusto – ce n’era uno di cui non si son trovate tracce di pubblicazioni ufficiali, ma solo strampalate storie stampate, a suo dire, in un connivente internet point bengalese. Era costui di corporatura robusta e avvezzo alle arti marziali, il che conferma il sospetto che dietro la copertura della missione per le arti e lo spirito si nascondesse una cellula di un’organizzazione paramilitare alle prime prove con il colpo di stato. Di questo nerboruto personaggio si ritrovano tracce in vari tornei di karate sparsi per il mondo, dove più d’una volta venne squalificato per condotta violenta, ragion per cui vien da chiedersi di dove gli sortisse fuori tutta questa poesia dell’anima, e da pensare, persino, che la farina fosse d’altrui sacco, magari di qualche sognatore caduto nella trappola dell’inesperienza. Avete idea di che cosa non siano capaci di fare gli scrittori alle prime armi pur di farsi conoscere? Io, che le redazioni me lo son fatte un po’ tutte, ne ho visti di ridotti così male da farmi venire la sincope cardiaca per il magone. I migliori, poi, son quelli che girano da anni con un pacco di fogli che si fa di volta in volta più voluminoso, come se il peso di quella sconfitta dovesse muovere a maggior pietà i pescicani dell’editoria: son questi gli scrittori del romanzo infinito – che niente ha a che vedere con la Poesia ininterrotta di Eluard – quello che cambierà per sempre le sorti del mondo, che se dovesse attendere loro non farebbe neanche la rivoluzione terrestre.

Questo per dire che forse i cinque avevano i loro buoni motivi per nascondere delle armi sotto la carta macerata dei loro libri, anche se di pistole e fucili, per non parlar poi di coltelli, non se n’ebbe a trovar traccia; così come accade oggi per i loro presunti possessori, che prima o poi dovrò anche spiegarvi il motivo che mi spinge a parlar di loro rivolgendomi al tempo passato.

Ma andiamo avanti cercando di rispettare la cronologia degli eventi, che servirà a dar loro un senso secondo l’ordine in cui si sono susseguiti, ché se poi sian stati dominati dal caso, non è certo colpa da imputarsi a chi cerchi di ricostruirne la trama.

Simone Ghelli