Odi et amo

Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris.

Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

In un solo distico elegiaco tanti problemi: un esametrino e un pentametrino.

Quando tradussi questo distico in Versus (Wip Edizioni, Bari, 2005) lo tradussi così:

Non lo so, non so com’è:

odio… amo. E non so com’è.

Non lo so, non so com’è:

odio… amo. E mi sento morire.

Non lo so com’è, ma è così

ed è una tortura.

Lo avevo fatto così perché volevo dargli un ritmo quasi di canzone, di idea che ritorna, di idea che batte e ribatte e che come una goccia lo scava. Che lo affoga e lo lacera.

Bisogna però tenere conto che il distico così come lo leggiamo noi non è esatto. Il latino lo leggiamo nella dizione ecclesiastica, che lo addolcisce. Da anni ormai i glottologi dicono che il vero latino era diverso, che i suoni dolci come la c o la g o la sc (il riferimento potrebbe essere la seconda c di croce, la sc di sciarpa, etc…) in realtà sono duri e gutturali, che i dittonghi si leggono così come sono scritti, che “ti” non si legge “zi”.

Di conseguenza la nostra interpretazione un po’ dolente dei versi è falsata. Difatti, se al posto di quei suoni dolci, ci fossero i suoni duri (dovrebbe essere letta così:  «Odi et amo. Quare id fakiam fortasse requiris. / Neskio, sed fieri sentio et ekskrukior») e la metrica letta come si deve, molto probabilmente la nostra concezione cambierebbe. Percepiremmo – più che una lacerazione di mani (excrucior significa “messo in croce”) o un cruccio – un cricchiare di ossa (o, dialettalmente, “scrocchiare”).

Quindi va a farsi benedire l’amante che è sperduto nei suoi sentimenti ambigui (come anche la mia traduzione di sopra dava adito a pensare) e si profila un poeta che è incazzato come una bestia e soffre come un caimano con le emorroidi. Emorroidi dell’anima, certo, ma sempre emorroidi.

A proposito di traduzioni. Alcuni poeti eccellenti (oltre me, ovviamente) hanno dato la scalata a questo distico. Eccone alcuni.

Il XLIV sonetto dei Cento Sonetti d’Amore di Neruda recita:

Saprai già che io t’amo e che non t’amo
dato che in due modi è fatta la vita,
la parola è un’ala del silenzio,
e nel fuoco v’è una parte di freddo. 
Io t’amo per cominciare ad amarti,
per poter cominciare l’infinito
e per non cessare d’amarti mai:
proprio per questo io non t’amo ancora. 
T’amo e non t’amo come se avessi
nelle mie mani le chiavi della gioia
e un incerto destino sfortunato. 
Il mio amore ha due vite per amarti.
Per questo io t’amo quando non t’amo
e per questo io t’amo quando t’amo.

Giovanni Pascoli la fa così:

L’odio e l’adoro. Perché ciò faccia, se forse mi chiedi,
io, nol so: ben so tutta pena che n’ho.

Per Quasimodo la faccenda era la seguente:

Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile;

non so, ma è proprio così e mi tormento.

Ovviamente la dote sublime di Pascoli è l’ingenuità, da cui deriva la corposità e rotondità dei suoni; Quasimodo era il ragioniere che era e che chissà come vinse il Nobel (probabilmente per l’ultima dozzina di poesie che scrisse prima di morire e che la giuria in Svezia non ebbe modo di leggere).

Dato che la lingua latina non ha rime, ma una notevole elasticità sintattica, più che buttarla in suono, io direi di buttarla in ritmo (un po’ come feci io nel mio libro di cui sopra, trasformandola quasi in una canzone).

Se ci si fa caso si vede che la struttura è molto precisa:

Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris.

Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Verbo congiunzione verbo. Lo stesso dicasi se partiamo dalla fine: verbo congiunzione verbo. S’inizia il componimento con una scazzottata fra odio e amore e finisce con una scazzottata fra sentio (cioè il sentire, il tatto, il percepire) ed excrucior (cioè l’esperienza che il nostro sentire cerca sempre di evitare).

Poi si potrebbe continuare con illazioni come “Dato che fieri deriva da fio, e che oggi fio significa scotto, quello è come dire che se la merita la sua sofferenza” o “Subisce passivamente la tortura: significa che era frocio e la lotta è con se stesso, fra l’Io e l’Es. E tutto sommato com’è possibile che non volesse incularsi la sua vicina di casa paralitica che in realtà credeva essere sua zia?”, ma non credo di averne la forza.

Anche se l’idea che l’odio e l’amore fossero per se stesso (o, comunque, per una parte di sé) mi stuzzica non poco.

Antonio Romano

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La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 18

[continua da qui]

Purtroppo dovremo accontentarci di un processo alle intenzioni, che sarà senz’altro sommario, ma che conterrà comunque le sue indubbie verità.

Ad esempio, che i sedicenti scrittori, una volta concluso il fallimentare reading, non si recarono a casa della cugina in dolce attesa, bensì girovagarono in auto per la città e per giunta in condizioni fisiche non del tutto adeguate. Insomma, pare proprio che in mancanza di pecunia essi approfittassero soventemente della gentilezza dei baristi, ovvero che alzassero il gomito con facilità, così come accadde quella notte all’ombra delle guglie del Duomo – per quanto fosse notte.

Così conciati essi si ubriacarono d’aria per le vie del Biscione, assetati e furenti come dei discendenti di quel principe Saraceno che fu battuto a duello da Ottone Visconti*. In queste condizioni, finirono a tarda notte dalle parti degli studi televisivi, dove la biscia non ha un moro in bocca, bensì, più poeticamente, un fiore.

I cinque – che si fossero riuniti o meno non ha più importanza – pare che rimasero di stucco dinanzi a quell’enorme margherita di grigio metallo, tanto che in uno dei taccuini compare un passaggio piuttosto esplicativo in proposito:

Mai visto cotanto simbolo di sole asservito al colore che più si confà all’alienazione; il gigantesco fiore secco si libra in aria, al di sopra dei miei occhi, insensibile come un ingranaggio e pronto a schiacciare l’uomo ancora dedito al sogno…

Adesso penserete che di vera poesia si tratti, e che tutto questo resoconto sia stato un tentativo poco felice di sminuire un’arte che invece merita plausi e allori, ma posso assicurarvi che la precedente citazione è un’eccezione alquanto rara all’interno di un’accozzaglia di retorica assai poco cesellata.

Gli è che, a mio modesto parere – per carità, son giornalista, mica poeta! –, quel simbolo di un potere tanto visibile quanto occulto, fu senz’altro una ricca fonte d’ispirazione, tanto che ingravidò le loro bocche di belle parole e le loro teste di cattivi pensieri. Insomma, quella stessa forza contro cui si battevano – che loro definivano populista – finì con l’offrirgli i semi per i loro miglior frutti, e questo ci basti per affermare che non sempre l’arte nasce dal bello e dal buono, anzi, ché a ben vedere pare proprio che prenda forma per il verso contrario.

Per certo si era di notte, nell’ora popolata dai mostri, per quanto gli studi fossero illuminati a giorno, poiché la scatola dei sogni in technicolor non si addormenta mai, e di conseguenza non dorme chi vi sta dietro a dipanarne i fili. Di spiriti i nostri scrittori dovevano vederne assai, e di fantasmi pure, annebbiati com’erano dalla loro ideologia e da tutto quell’alcool: mostri che con le loro fauci inghiottivano il paese e lo sprofondavano nella melma della barbarie. Ed era proprio per combattere contro queste terribili creature ch’essi erano arrivati ai piedi del tempio a cristalli liquidi, del totem degl’imbonitori che abbagliavano gli spettatori di bianchi sorrisi e di sguardi invitanti, mentre zompavano da un’inquadratura all’altra senza perder mai il centro dell’immagine.

Immaginateveli davanti a quell’enorme blocco di vetro e cemento, finalmente giunti alla loro meta, con gli occhi tremolanti e la gambe molli, ma soprattutto orfani del dono della parola; perché così dovettero sentirsi quando si udì il cigolio di stivali in pelle in avvicinamento sull’asfalto, mentre la voce di una guardia urlava il chi va là…

Simone Ghelli

* Si narra che nel 1187 Ottone Visconti sconfisse in duello un principe Saraceno che portava sul proprio elmo una grossa serpe che ingoiava un infante. Dopo aver schiacciato l’esercito saraceno come si schiacciano i serpenti, quelle insegne strappate al nemico furono donate dal Visconti alla Cattedrale di Milano

Poesia precaria (selezionata da L. Piccolino) – 10

Io e Rolando Agostini viviamo nello stesso quartiere ma non ci conosciamo da molto. Un paio d’anni o poco più.

Un grande poeta non sempre riceve ciò che merita. E non sempre capita di incontrarlo, un grande poeta. Io l’ho incontrato, viveva a due passi da casa mia e non lo sapevo.

Probabilmente se Rolando Agostini avesse avuto un altro carattere e maggiori possibilità, sarebbe ora riconosciuto e celebrato dall’establishment letterario italiano.

Rolando Agostini nasce a Roma il 25 agosto 1950.

Si innamora contemporaneamente sia del cinema che della scrittura.

La visione dei film di Stanley Kubrick infatti, lo spinge a dare inizio a una produzione fatta di miriadi di poesie e piccoli racconti.

La vita di Rolando è stata dura.

Ha vissuto per parecchi anni di espedienti, sempre in bilico tra il bene e il male. Ma anche questo periodo è stato utile alla crescita delle sue doti di osservatore della società cosiddetta “civile”

Ancora oggi Rolando si diverte a raccontare quei tempi:

“Dopo aver ascoltato Guccini cantare La Locomotiva, decisi di fare un furto alle ferrovie di stato!”

“Ero entrato in una condizione economica da benestante e le persone intorno a me mi criticavano e si rodevano di invidia. Oggi che non c’ho na’ lira, le cose non so cambiate per niente!”

Nel 1994, dall’opera Chissà quanta gente (a tutt’oggi inedito) viene estrapolato, dal regista Paolo Brunatto, un cortometraggio messo in onda su Rai Educational.

Nel 2008 pubblica Il Sapore della Luna Cruda (Arduino Sacco Editore).

Il libro, composto da centotrenta poesie, è un magnifico gioiello che celebra la caratura di un autore fuori dal comune per talento e personalità.

Luca Piccolino

DEMONIO E POETA

Come mi sento bene quando mi sento

un demonio, un poeta.

La cocaina, l’eroina, il successo

i miliardi mi fanno sorridere

e infatti sorrido.

Di solito mi fanno schifo.

E l’infinito è un’unghia sporca

a confronto della solitudine

e me ne torno a casa come una serva negra

come un pazzo che sa che troverà

la casa come un vestito di mattoni.

E quando spezzano il tuo cuore

d’innamorato, ce n’è sempre un’altra.

Altre! 2, 3 o 4.

Se potessi scegliere tra te e il paradiso

io solo te.

E i soldi non sono fiori

lo sono invece le razze

con i loro colori.

Tutta roba vecchia che è andata in putrefazione.

E la gente se ne va

in giro con i cuori

dentro i preservativi.

Rolando Agostini

Poesia precaria (selezionata da L. Piccolino) – 8

Riprendiamo la rubrica del lunedì con una poetessa di un certo livello.

L’idea che i versi di Loretta Sebastianelli suggeriscono immediatamente è quella di una poesia in continua evoluzione-mutazione.

Danza, Loretta, e sapientemente dosa doti tecniche ed emozioni.

Non sempre la delicatezza va a braccetto con qualcosa di forte, resistente. Ma Loretta Sebastianelli è così. Delicata e flessibile come un giunco, concede al vento solo un’illusione di supremazia. I testi che mi ha inviato sono tutti molto belli ma, stranamente, non ho avuto dubbi sulla scelta da fare. Questo perché trovo bello e interessante quando i poeti parlano della loro arte. E lo fanno scrivendo di essa.

Buona lettura.

Luca Piccolino

I poeti (dichiarazione di poetica)

La meraviglia a volte

è soltanto un fardello

che ci trascina stanchi

mentre tanto sentire

ci logora le vene.

Mai soluzione alcuna

ha saputo guidare

gli antenati possenti

e mai potevamo essere

diversi da noi stessi.

Maledetti quando sputiamo dolore,

Quando le canaglie attaccate alle mani

Guidano carovane sbigottite;

Quando l’arsenico fa nera la lingua

E gli occhi grandi giustiziano il mondo.

Quando il male di vivere sommerge,

La nostra china indelebile canta

Sulla lingua assetata

E la verità è

Uno scomodo vestito mai bianco.

***

Loretta Sebastianelli è una visionaria.

Nasce a Roma. 1974. Luna crescente.

Incoraggia le proprie visioni fantastiche e interpreta la realtà, un po’ come tutti.

Ghost writer, poetessa, scrittrice. Precaria.

Pubblica due raccolte poetiche con Azimut: “Triade” e “Chimera”.

In passato lavora in una piccola case editrice, cura una rubrica poetica per una rivista New Age. Collabora all’organizzazione di Mediterranea, Festival Internazionale delle Arti e della Poesia.

Attualmente è membro della giuria del premio Elsa Morante per Inediti.

Occupare un lavatoio in maniera facile e creativa

Ti laurei in Lettere col massimo dei voti, scendi le scalette della Sapienza con in mano un mazzo di garofani. Non hai ancora raggiunto il piazzale fuori dell’università che barcolli. Sei già ubriaco.

Io mi sono detto: “e mo che cazzo faccio?”.

Vai a consegnare pizze a domicilio nell’attesa che una signora ancora in forma dopo aver spalancato la porta apra pure le gambe.

Tornato a casa ti masturbi.

Sempre.

Il cane che ti osserva come se fossi matto.

È così che i pensieri si fanno sempre più neri: l’affitto, le bollette, i croccantini.

È così che ti viene in mente un’idea geniale.

C’è Alessia, è piccola e dolce come una barretta di Tavor. Ha il ventre piatto ed è su quel ventre piatto che cominci a fare brutti pensieri.

Io mi sono detto: “faccio un cazzo di figlio, lo chiamo Antonio, occupo un lavatoio vista mare, di quelli rimasti ormai in disuso sopra questi palazzi di periferia e do un senso a questa vita”.

Certo c’è di peggio. Ma i laureati in Lettere sono comunque una parte consistente dei nuovi poveri. Hanno semplicemente qualità mimetiche superiori, se li rivesti ti fanno pure fare bella figura, sono bestie da salotto.

Insomma dopo che ti sei laureato in Lettere torni in periferia e visto che la signora in forma non si decide ad allargare le gambe ti vengono brutti pensieri e decidi che la risposta è tutta rinchiusa in un frullino, uno di quei frullini economici che vendono al supermercato, di quelli costruiti in Cina.

Io mi dico sempre che sono un artista del frullino, riesco a disegnare dei giochi pirotecnici unici di scintille che se osservi questa periferia di sera, magari pure di sbieco, ti sembra di stare al Carnevale di Rio e questo pianerottolo del cazzo pare che si riempie di tette e culi.

Frullino in mano e laurea in Lettere: la porta di ferro arrugginito del lavatoio viene giù che è una bellezza. La vecchia al piano di sotto ha già chiamato le guardie, ma la porta si è chiusa alle tue spalle, un catenaccio già ti protegge dall’esterno mentre Alessia guarda il mare dal grande terrazzo con un omuncolo dal naso prominente che gli cresce nell’utero. Io sono come un tumore maligno: mi riproduco che è una bellezza.

Io lo dico sempre: «la porta era aperta, non possiedo nulla, mi autodenuncio come occupante che mi sono rotto il cazzo di vendere pizze a domicilio che tanto una vecchia che mi allarga le gambe non la troverò mai».

Il lavoro qui è come una vecchia che ti allarga le gambe.

Non la troverai mai.

Passano i giorni e il lavatoio diventa sempre più bello, lo spazio abitabile cresce insieme alla pancia di Alessia, i vicini cominciano a farci il callo, aspetti un figlio e non ti può più cacciare nessuno.

Ho appeso la mia laurea in Lettere al muro accanto a un finestrone che si apre sul mare. Lì, proprio in quel punto a ridosso del campo da calcio, un giorno hanno ucciso un Poeta.

Alessia guarda spesso fuori, pensa a come sarebbe stato se fossimo nati altrove.

Lontano.

Luca Moretti

* Racconto pubblicato su Minimal Noir (18:30 edizioni)

Restare o partire?

Coraggioso è chi resta. Come possiamo pensare di lasciare questa terra devastata in balia di tale smarrimento? Ma poi, dico, non siete curiosi di vedere come andrà a finire? Essere in prima linea a scoprire fin dove si potrà spingere l’assurdo, questa non-vita, questa politica, questa società che è una farsa di una farsa.

Non è guerra, ma è come se fosse, come non fosse mai finita. È una repubblica ancora bambina, Italia, vittima di stupro. Io la conosco, o almeno credo, le voglio bene, è parte di me, devo aiutarla a superare la tragedia di cui è stata vittima impotente. Da sola, non ce la può fare.

No, non me ne voglio andare. Ogni tanto ci penso, ma poi mi passa subito. Perché devo arrendermi e andarmene dalla mia terra, dal mio paese? Come posso abbandonare la mia lingua, le mie radici seppur sradicate?

Non condanno chi se ne va, come potrei, ma io non ce la farei proprio. Troppi morti non sono bastati. Troppe ingiustizie, vestite da misteri, restano impunite. Dimentichiamo in fretta, indotti. Si cambia la storia, o forse ricordavamo male. La verità è finzione. La storia ribaltata.

Italia, ferita a morte, cede il passo. Nulla più indigna, nulla sconvolge. Le porte del futuro sono serrate, aprono al nulla.

Verità è finzione. Il germe dell’odio coltivato sin dall’infanzia. Il male, travestito da bene, dice di voler combattere il male. Molti gli credono. Italia non è cambiata, regredisce.

Il problema è al vertice. La base è distratta, ma stimolata reagisce. Bisognerebbe arrivarci. Sono bloccate le vie di comunicazione. Embolia.

Focolai sparsi in tutta la penisola. Abbiamo mezzi incredibili. Ora più che mai non si può abbandonare. Ora più che mai bisogna resistere.

Saremo pure una minoranza, ma siamo una minoranza consistente, e se qualcosa abbiamo imparato in ore chini sulle pagine di un libro, è proprio che la cultura è libera, non conosce prigioni, non subisce imposizioni. Bisogna lavorare ogni giorno per cambiare, non bisogna arrendersi. Oggi più che mai.

In quanto uomo di lettere di questo paese, non debbo mai dimenticare il debito morale contratto con la mia società quella maledetta notte di novembre, quando un poeta fu brutalmente assassinato, e messo a tacere per sempre, all’idroscalo di Ostia. Come una sorta di peccato originale mai purificato.

Ci sono ancora poeti e scrittori da scoprire e da difendere, in questo mostro, Italia, ferito a morte, che dobbiamo curare.

Tra i loro compiti, quello di svegliare il dormiente.

Gianluca Liguori

*Testo ispirato dagli interventi di Simone e Claudia.

Poesia precaria (selezionata da L. Piccolino) – 4

Rieccoci pronti ad un nuovo excursus poetico.

L’agosto in città può cuocere i cervelli e spingere a trascorrere il proprio tempo in malinconiche stanze munite di aria condizionata, soprattutto con il caldo record di questi giorni.

Nella mia ricerca di refrigerio ho portato nel borsello alcuni fogli stampati. Era una raccolta poetica intitolata Consapevoli della fine di Francesco Petetta.

Consapevoli della fine è un lavoro interessante, genuino, essenziale e solo a volte spigoloso.

Mi sono trovato a mio agio nelle sue atmosfere. Quel senso di malinconia carnosa e metallica, i luoghi, le città, i nomi. Situazioni e sensazioni che mi viene da associare ad alcuni scrittori americani o a qualche contemporaneo italiano che a loro si ispira (vedi Emidio Clementi).

Parlando di Francesco Petetta diremo che è nato a Roma nel 1982 e dice di non amare la poesia.

Fa parte del progetto musicale Hyaena Reading, collabora attivamente dalla primavera del 2005 con il collettivo di artisti FPML (Fronte Popolare per la Musica Libera), è socio fondatore della Free Hardware Foundation Italia (dicembre 2006) , vende gelati e possiede anche una bicicletta.
Partecipa casualmente al Teranova Festival (performance poetiche tra Francia e Italia) nel 2005, 2006, 2007 e 2008, collaborando con amichetti e perfetti sconosciuti: Gianluca Bernardo e Claudio Mancini (Rein), il poeta-pittore-musicista Alain Amsellem, Giovanni Santese.
Nel maggio 2006 collabora come bassista fantasma alla realizzazione del disco Ballate di fine inverno di Franco Fosca, Gianluca Bernardo e Giovanni Santese.
I suoi testi Natale e Un paio di richieste sono stati pubblicati nell’antologia Teranova 2006 (Ars Multimedia / Orient-Occident).
Se non fosse per ciò, non avrebbe ancora pubblicato nulla di cartaceo, e di solito non gliene frega nulla.

Luca Piccolino

Atto d’amore

Come quando ti ho detto che andava tutto bene

Come l’amplesso che ogni animale cerca

e sa che porterà con sé bocche affamate di vita

Come Villeneuve e Arnoux a Dijon, in Francia

nel ’79

Come un adolescente alle prese con uno strumento musicale

Come una madre la cui unica spinta è da cercare

negli occhi dei suoi figli

Come quando mi mentirai, per troppo bene

Come quando sarò sincero, per troppo bene

Come la schiena di un uomo rotta inseguendo un sogno

Come i miei sacri occhi, frutto di mia madre e mio padre

che ti cercano

ora

tra miliardi

sapendo di essere

e generare

un atto d’amore.

Francesco Petetta

* La presente opera è pubblicata nei termini di una licenza con alcuni diritti riservati: Creative Commons attribuzione – non commerciale – condividi allo stesso modo 2.5 Italia

Con aggiunta della licenza Diffusion a cura dello sportello Liberius

Precari all’erta! – Me ne vado da quest’Italia…

Ecco che anche il Ghelli si mette a scrivere di vacanze estive e pettegolezzi annessi, penserete voi, allo stesso modo di tutti i tg nostrani, che soprattutto di questi tempi riempiono mezzo telegiornale di notizie utili solo a non parlare d’altro.

E invece vi sbagliate, perché voglio qui riprendere un’intervista rilasciata da Francesco Bianconi, cantante dei Baustelle, e che rilancia il tema dell’esilio volontario, già cantato nella nota Mamma Roma addio del poeta Remo Remotti.

Quanti di noi non c’avranno pensato almeno una volta a mandare a quel paese il bel paese, che di tanti sforzi sembra non curarsi affatto, che della cultura guarda solo il tornaconto economico e il lato spettacolare, che parla sempre dei soliti noti, che si tratti di cinema, musica o letteratura? Io ci ho pensato tante volte, e a volte ancora ci penso, ma ciò che puntualmente mi fotte è uno sorta di malsana testardaggine che m’impedisce di arrendermi all’idea che questo paese non lo si possa cambiare. A pensarla così c’è da ingoiare tanti bocconi amari, da farsi un fegato grosso come un cocomero insomma, ma non va per questo commesso l’errore di considerarsi dei martiri. In fondo, chi l’ha detto che le persone abbiano bisogno dell’arte, della cultura o del pensiero degli intellettuali per vivere felici e contenti? Spetta semmai agli artisti e agli intellettuali il compito di far sentire questa necessità, e l’unico modo per farlo è il duro lavoro, l’ostinazione di una vita, la voglia di votare il proprio sé all’idea utopistica di una comunità che possa cambiare anche attraverso il proprio fare.

Con questo non voglio dire che la scelta di andarsene via sia in sé più facile o più comoda, ma la trovo una scelta pericolosa per il futuro di chi ci succederà, perché un domani potrebbe sempre peggiorare anche il nuovo posto che avremo trovato, e poi tutti gli altri, finché non ve ne sarà più neanche uno. Quello che penso, e che ritrovo in qualche modo rappresentato dal progetto Scrittori Precari, è che oggi sia necessario più che mai ripensare i modi della partecipazione – a cominciare dalle possibilità che ci offre la rete – e, insieme a questi, i modi di sentirsi riconosciuti.

Io non mi riconosco in quest’Italia di nani e ballerine, di truffatori, di corrotti, di puttanieri, di razzisti, di analfabeti, ma proprio per questo non me ne voglio andare, anche se ci sono tanti posti migliori, oggi, dove poter vivere.

È una forma di rispetto verso chi ci ha preceduto che mi costringe a resistere, a non adeguarmi, ma se un giorno dovessi rendermi conto di parlare al vento, allora quello sarebbe il giorno in cui prenderei le mie cose e me ne andrei.

Oppure no, perché magari ci sarà da ascoltare il pensiero di chi è rimasto, che avrà senz’altro da dire cose più intelligenti del sottoscritto.

Ecco perché vi chiedo di non andarvene.

Simone Ghelli