I capolavori ritrovati della poesia – Seppo Pullulaa

Un’operazione di salvataggio a cura di Ennio Canallegri e William Kessel Pacinotti

I DENTINI di Seppo Pullulaa (1957)

Rodono l’essere, la carne
fino al bianco dell’osso
senza fermarsi eppure immobili
Mi inseguono su un’altalena
che naviga
vuota di vago e d’implicito
E cercano incessanti l’erba
che mi cresce sul petto
e sotto la pelle che si sfalda
i conigli d’alabastro.

SEPPO PULLULAA (Merimasku 1927- Suomussalmi 1973)

La prima (e ultima) edizione del “Concorso per pupazzi di neve poeti”, organizzato nel ’73 dalla Fondazione reduci di Suomussalmi sul luogo della battaglia combattuta trentatré anni prima contro i russi, lo ha tolto alla patria, che ancora ignara di aver perso Leggi il resto dell’articolo

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La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 21

[Puntate precedenti]

Si racconta che prima di giunger nel bucolico rifugio, i fuggiaschi vagarono per diverso tempo fra rotatorie indifferenziate, chioschi di piadine e crescioni, e soprattutto su e giù per strade sterrate dove contadini increduli sorridevano al loro passaggio, mentre i cani rincorrevano le ruote ormai consumate della povera utilitaria. Essi approdarono al sicuro porto che ormai era calato il sole, mentre il rosso del tramonto colorava i vitigni già saccheggiati dall’avida mano dell’uomo. La Romagna, terra di bevitori e ballerini, accolse i poveri derelitti come meglio non si poteva, offrendo loro la pace e il silenzio di cui abbisognavano dopo tanto clamore, nonché un po’ di buio rassicurante che oscurasse la luce dei riflettori accesisi lungo tutta la dorsale dello stivale.

Casa del Cuculo è il nome del luogo ameno e incriminato, dove i cinque vennero accolti tra vassoi di lasagne al forno e bicchieri di vino rosso, prima di venir loro concesso un salone dal pavimento ricoperto di grossi tappeti, dove pare si riunirono in diversi ad ascoltare le loro deliranti parole, con le quali inveirono contro un paese che non dava più voce alle anime sensibili dei poeti e che piegava il potere della parola all’arte della menzogna.

Per tutta la serata si susseguirono anche altri eventi disseminati fra i campi, con contrabbassisti, cantautori, e chissà che altro ancora, perché tutt’intorno era buio pesto, e c’è chi potrebbe financo giurare d’aver visto dei satiri e dei fauni ballare, ma non son certo questi dei testimoni attendibili, per via di tutto il vino che tenevano in corpo.

Lo spasso durò però ben poco, appena il tempo di una notte passata in giacigli d’emergenza, nella promiscuità dei corpi, perché all’albeggiar del giorno dopo si udirono le sirene ululare per tutta la spianata e rincorrersi laddove il razionalismo aveva chiesto spazio alla storia *.

I cinque, con gli occhi ancora gonfi di sonno, raccolsero in fretta e furia le loro cose, mentre gatti sonnacchiosi gli si strusciavano addosso, e grida di bambini felici li accompagnavano in un addio consumato troppo velocemente.

A questo punto, mi scuserete se la narrazione tende al patetico, ma mi sembra giusto concedere un po’ di sentimento anche a queste anime così materialiste, che, nonostante il persistere dell’errore che ha viziato tutta la loro visione del mondo – vedere addirittura in un Presidente l’incarnazione del male assoluto – hanno senz’altro creduto nella loro opera, e con loro vi hanno creduto anche altre sparute persone, come questi villici dei colli romagnoli, che si prodigarono così bene nel coprire le tracce della loro fuga dal lasciare a bocca aperta gl’inquirenti.

Essi cercarono ovunque, tutto all’intorno, e s’impegnarono non poco nell’usare tutte le armi lecite della giustizia in divisa – in tempi in cui l’arma aveva carta bianca in certe operazioni – ma nonostante le intimidazioni e la cura del manganello, che non risparmiò neanche donne e bambini, non un solo indizio scappò dalla bocca di quei predicatori dell’arte e della natura, che avevano rifiutato le comodità della società capitalista per un rudere appoggiato in un pezzo di terra grassa.

La rabbia dei tutori dell’ordine fu tanta e tale che alcuni di essi cominciarono a sparar fra gli alberi, e il giorno dopo, fra la costernazione generale, nei bar dei paesi limitrofi si parlò di un’apertura anticipata della caccia, anche se non v’era ancora odore d’arrosti per l’aria.

Quel che è certo, fu il titolo di un noto giornale locale all’indomani:

Misteriosi spari nella notte: le parole corrono più veloci delle pallottole.

Simone Ghelli

* Intendo la città di Forlì, dove gli architetti di regime abbatterono le porte e le mura antiche per far spazio ai nuovi viali.

Un bacio sulla bocca

Tiro fuori dall’armadio la mia borsa nera, quella di vernice con sopra il disegno di una lucertola. È un po’ piccola, ma la riempio con tutto quello che ho sottomano. Due T-shirt, un golfino, la felpa dei Rolling Stones con la lingua di fuori, una tuta da ginnastica e le mie Nike predilette. Non contenta, ci metto pure un paio di jeans, una copia di Vanity Fair, un libro di Patrick McGrath e l’ultimo Cd dei Babyshambles. Però, manca qualcosa.

La Gazzetta di Parma è ancora sopra il letto, aperta in terza pagina dal giorno prima. E lì accanto c’è il libro che avevo comprato per te, Andrea. Il tuo regalo di compleanno.

Ieri non ho fatto in tempo a dartelo, così è meglio che ora lo porti via con me. In ogni caso, non lo avresti letto. Non ti sarebbe piaciuto. Io non so cosa ti piace, così ho scelto un libro a caso, un brutto libro, una storia da quattro soldi che parla d’amore, di destino, e di mille occasioni perdute. Eppure, per un attimo, ho creduto che parlasse anche di noi due.

Invece ho scelto male, Andrea.

Ho sbagliato, perché io non ti ho perduto.

Tu sei in tutte le mie parole, nei miei respiri, nei miei più intimi pensieri. Ma questo non lo sai.

Tu non sai nemmeno che esisto.

Non c’è mai stato niente tra noi due, solo un bacio sulla bocca dato un po’ per scherzo, un po’ per noia. Ma io non ti ho dimenticato. Sono passati quasi tre anni da quel bacio, ed io ti ricordo ancora.

Tre anni, sembra incredibile.

Come vola il tempo quando non ci si diverte. Quando ogni fibra del tuo essere, ogni minuscola particella d’energia che gravita nel tuo corpo è tesa verso un solo obiettivo, un solo amore.

L’amore che quelli come te non meritano. L’amore che capita una volta nella vita, quello che nel Trecento veniva cantato dai poeti. Ma io non sono un poeta. Sono una puttana, sono una stronza, sono tutte queste cose, ma di certo non sono un poeta. Allora mi chiedo perché è successo a me e non ad un’altra. Perché mi sono innamorata del tuo cappotto nero, e di quella sciarpa bianca che ti ostinavi a portare fino a primavera. Eppure, conciato così, ricordavi Bela Lugosi ai tempi dell’Uomo Ombra, o David Copperfield, il mago, durante un trucco di scena. E anche i tuoi occhi erano un trucco, Andrea. Sembravano così intensi, così profondi, quando invece erano vuoti. Vuoti, come vuoto è il baratro che si apre ai miei piedi, ogni volta che un amico mi fa il tuo nome, ogni volta che m’imbatto in una tua fotografia. Già, le fotografie. Quelle sono la cosa peggiore. Mi sento impazzire quando, dal fondo di un cassetto, fa capolino la tua fronte alta, o la bocca che ho baciato avidamente, la stessa bocca che poi mi ha detto parole tanto dure.

Tu hai riso del mio amore, Andrea. Ed io ho passato questi ultimi tre anni ad augurarti tutto il male possibile, a maledire ogni tuo passo, ogni tuo gesto. Perché non hai capito niente. Perché senza di te, mi era impossibile anche respirare.

Tu eri la mia aria. Eri la mia vita, il mio spazio, il mio tempo. Eri il cielo stellato che osservavo da bambina, eri il colore sulle pareti della mia casa, il profumo del pane appena fatto che mi svegliava al mattino presto.

Tu eri tutte queste cose, e non lo hai mai capito.

Hai scelto di andare per la tua strada, come oggi io vado per la mia. Tra poche ore, prenderò il treno che mi porta via da questa città, da quest’Emilia che ci ha fatto incontrare. Tornerò a casa e riabbraccerò i vecchi amici. Mi ubriacherò, mi divertirò, e dimostrerò a me stessa, una volta per tutte, che alla fine sei tu quello che ha perso.

Tu hai perso me, non il contrario. E con me, hai perso tutto il resto. Hai perso un amore che non meritavi. E hai perso anche il tuo compleanno, gli auguri, e la festa.

Finalmente, sulla Gazzetta di Parma vedo anche il tuo nome. L’inchiostro viene via e non si legge bene, ma mi pare di capire che non è stata colpa dell’alcol, quanto della roba che hai preso. È quella roba che ti ha ucciso, Andrea. È stata l’eroina, non l’intruglio che hai bevuto. C’è scritto qui, a caratteri piccolissimi. Ma in queste righe non si parla dei tuoi demoni, della tua paura di vivere. Queste righe non spiegano la tua incapacità di essere felice, ed il dolore che, invece, sei in grado di dare a chi ti ama. Sei solo un tossico da terza pagina che ha sfondato il guard rail, uno dei tanti.

La Gazzetta non dice che ieri era il tuo compleanno. Dice solo il nome del cimitero dove ti hanno sepolto. Quello è scritto in grassetto.

Cristiana Danila Formetta

Poesia precaria (selezionata da L. Piccolino) – 17

Ricevo con immensa gioia quattro poesie della giovanissima Francesca Galderisi.
Sono doni molto molto graditi questi che i poeti fanno alla nostra rubrica del lunedì.
I testi stanno giungendo copiosi negli ultimi tempi, credo (anzi spero) che tutto ciò sia dovuto al nostro modo di lavorare.
Perciò, cari poeti e poetesse, continuate a spedirci i vostri scritti. Siamo qui appunto per riceverli.
La poesia di Francesca Galderisi sembra avvezza all’uso di immagini fotografiche.
Immagini che paiono scattate dall’alto, nel corso di un volo irregolare che tocca vari lidi dai diversi colori.
E dall’alto osserviamo dunque un tempo implacabile capace di incastrarci nelle proprie ragnatele. Una comunicazione difficile e dei rapporti umani che inevitabilmente si sfibrano nelle maglie di una società che di riconciliante ha ben poco.

Buona lettura

Luca Piccolino

Voi siete lì
a tapparvi le bocche,
ingozzarvi gli stomaci,
sbrinarvi le anime
che schegge di ghiaccio
sferzano tutt’intorno.
Vi vedo strapparvi fughe di gloria,
collezionare parole madide
di odio antico.
Che incontro è questo?
Quale disgusto può digerire meglio
questo cibo avariato?
Dove guardare?
Chi rincuorare?
Disfate questo empio teatro
poiché questi attori non recitano!
I commensali, segnati alla fronte,
siedono a un tavolo storpio
dov’è servito un cibo ancor più morto
e dove gli attori fuori scena recitano:
Riconciliazione”,
il loro unico atto.

Francesca Galderisi

Poesia precaria (selezionata da L. Piccolino) – 8

Riprendiamo la rubrica del lunedì con una poetessa di un certo livello.

L’idea che i versi di Loretta Sebastianelli suggeriscono immediatamente è quella di una poesia in continua evoluzione-mutazione.

Danza, Loretta, e sapientemente dosa doti tecniche ed emozioni.

Non sempre la delicatezza va a braccetto con qualcosa di forte, resistente. Ma Loretta Sebastianelli è così. Delicata e flessibile come un giunco, concede al vento solo un’illusione di supremazia. I testi che mi ha inviato sono tutti molto belli ma, stranamente, non ho avuto dubbi sulla scelta da fare. Questo perché trovo bello e interessante quando i poeti parlano della loro arte. E lo fanno scrivendo di essa.

Buona lettura.

Luca Piccolino

I poeti (dichiarazione di poetica)

La meraviglia a volte

è soltanto un fardello

che ci trascina stanchi

mentre tanto sentire

ci logora le vene.

Mai soluzione alcuna

ha saputo guidare

gli antenati possenti

e mai potevamo essere

diversi da noi stessi.

Maledetti quando sputiamo dolore,

Quando le canaglie attaccate alle mani

Guidano carovane sbigottite;

Quando l’arsenico fa nera la lingua

E gli occhi grandi giustiziano il mondo.

Quando il male di vivere sommerge,

La nostra china indelebile canta

Sulla lingua assetata

E la verità è

Uno scomodo vestito mai bianco.

***

Loretta Sebastianelli è una visionaria.

Nasce a Roma. 1974. Luna crescente.

Incoraggia le proprie visioni fantastiche e interpreta la realtà, un po’ come tutti.

Ghost writer, poetessa, scrittrice. Precaria.

Pubblica due raccolte poetiche con Azimut: “Triade” e “Chimera”.

In passato lavora in una piccola case editrice, cura una rubrica poetica per una rivista New Age. Collabora all’organizzazione di Mediterranea, Festival Internazionale delle Arti e della Poesia.

Attualmente è membro della giuria del premio Elsa Morante per Inediti.

Trauma cronico – Presentazione

Scrittori precari non si ferma e vi propone una nuova rubrica, Trauma cronico, che vi terrà compagnia ogni domenica. Non potevo esimermi dal compito, mancava un appuntamento col subcomandante Liguori e quindi eccomi rispondere presente all’appello, alla chiamata alle armi. Le nostre armi sono le parole, questo antico vizio di tanto inascoltato, oppresso, ma perennemente pronto a risorgere. Il nostro programma di rivoluzione culturale ha radici lontane, siamo rivoluzionari reazionari: la comunicazione primordiale, la parola, il racconto orale, e la comunicazione universale della rete, internet. ricomincia dal basso, dalla strada e dalla rete, dalle nostre letture. La parola è caduta. Il linguaggio è stuprato e la verità è finzione.

Cosa succede nel mondo? Ancora nefandezze. Siamo al ritorno di un’inclinazione al male che non lascia scampo. Il nostro dovere di scrittori contemporanei è ristabilire il nostro ruolo sociale, resuscitare le nostre opinioni, arrivare a tutti, ovunque, siamo stufi di questo andazzo immorale e bovino, questo indegno, indecoroso spettacolino, questa sciatta attenzione che la società di oggi ha nei confronti dei libri e della letteratura. Un popolo senza cultura è un popolo abbrutito, proprio come temo siamo diventati noi. E pensare che cambiare prospettiva è semplice. Noi abbiamo cominciato per gioco, ma poi abbiamo iniziato a crederci sul serio e siamo arrivati a fare un tour in giro per la penisola addormentata, incontrando vecchi e nuovi amici coraggiosi, gente che come noi si batte, sbattendosi, per la letteratura. Abbiamo incontrato scrittori, poeti, giornalisti, editori, attori, musicisti, anziani intellettuali e giovanissimi decisi e determinati, e soprattutto abbiamo incontrato tantissimi lettori. Abbiamo parlato con loro, ci siamo confrontati. Abbiamo preso tanti contatti in giro per portare Scrittori precari su e giù per la penisola, per raccontare le nostre storie, per ritrovare un lettore sempre più abbandonato, oggi che le piccole librerie chiudono e nei grossi megastore dei libri i titoli che vanno promossi non sono scelti certamente in base alla qualità. Sono brutti tempi, tempi precari, belli miei, ma noi siam qui che vogliamo fare la nostra parte, vogliamo giocare le nostre carte.

In questo spazio scriverò di quello che accade intorno a me, settimana per settimana segnalerò e commenterò un evento, un fatto, un qualsiasi elemento che abbia in qualche modo solleticato la mia coscienza in disuso. Abbiamo disimparato a cercare. Dobbiamo cercare quello che vogliamo cercare.

Gianluca Liguori