Parigi à passages – Galerie des Variétés

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di Simone Olla

Camminavano senza una meta precisa, la luce dei becs de gaz si confondeva con quella che a est saliva lenta annunciando il nuovo mattino. FH – ubriaco e sfatto – mandava a memoria la nuova lettera da indirizzare a Emmy. WB – impeccabile dentro il suo abito nero, camicia avorio e papillon slacciato – accompagnava i passi barcolli del suo amico tenendolo per un braccio; e parlava poco, WB, e ascoltava ancora meno. Lo sforzo che FH impegnava per resistere alla vita doveva scolpirlo nella mente per non dimenticarsene il giorno dopo: scriverlo non basta, amava ripetere. WB, invece, non faceva alcuno sforzo di resistenza alla vita giacché il suo vivere non era resistere: i giorni scorrevano leggeri e fin troppo veloci, riempiti con metodo di studio e riposo quanto bastava.
Emmy adorata – bofonchiò FH – non vi aspettate questa lettera e forse nemmeno io mi aspettavo di scriverla a quest’ora di notte… nell’ultima vostra, mi chiedete dei miei acciacchi… di quelle scosse improvvise che Leggi il resto dell’articolo

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La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 23

[Segue da qui]

Per quanto gli animali si dannassero nel rifornire con celerità i loro compagni, fu chiaro fin dall’inizio che quel diversivo avrebbe avuto vita breve. Le forze dell’ordine esibirono in fatti il loro corredo di scudi in plexiglas, col quale ripararono anche i politici e i giornalisti, che da dietro quel bel paravento tuonarono altre minacce condite con frasi di convenienza.

In un momento di pausa – ché d’altronde gli artisti, tra alcool e fumo, di fiato ne tenevano ben poco – dallo schieramento uscirono un paio di ardimentosi volontari, imbottiti di tutto punto e muniti di tenaglie, con le quali si apprestarono a rompere i catenacci che tenevano chiuso il colorato cancello della Repubblica indipendente.

Il nemico avanzava, spronato anche dalle parole del Presidente, che dal megafono lanciava la promessa di detassare gli straordinari per incentivare l’iniziativa dei suoi soldati. Più l’azione si faceva serrata e più le sparate aumentavano di calibro: si parlò di abbattere l’ici sulle seconde case di tutti i familiari di primo e secondo grado appartenenti all’arma, mentre ai giornalisti, per tenerseli buoni, venne fatta solenne promessa di ristabilire la libertà d’informazione. Addirittura, pare venne persino ventilata l’ipotesi di sconfiggere alcune tra le più gravi malattie che da decenni flagellano il corpo umano.

Insomma, tutti, dagli operai agl’imprenditori, si strinsero intorno al proprio governo nella caccia agli spietati parolieri, che non possedevano la necessaria e cieca fede per risollevare le sorti del mondo. Grazie alla magia del montaggio e all’arte dell’inquadratura, le televisioni seppero poi fare il resto: quella trasmessa in diretta sembrò ai più una vera e propria azione di guerra, necessaria per sventare la minaccia di una nuova terribile banda di terroristi.

Messi alle strette, con tutto il popolo contro, gli scrittori si decisero a usare quella che da sempre è la loro arma migliore, l’unica che avrebbe potuto ancora salvarli: la parola.

A tal proposito, il vegliardo intellettuale teneva in serbo un’arma segreta, di cui nessuno, neanche la fidata compagna, era a conoscenza. Egli raccontò ai suoi compagni che nascondeva in una stanza un grosso baule, dove erano stipate centinaia di copie di libri insulsi, ch’egli andava sequestrando in giro. In pratica, l’uomo aveva passato diversi anni a convincere le persone che uscivano dalle librerie con in mano un’opera, a suo dire indegna, ad accettare il cambio che proponeva loro: un altro libro, la cui lettura avrebbe cambiato per sempre la loro vita, purché avessero acconsentito a consegnargli la porcheria che avevano appena acquistato, attratti più dalla pubblicità che dal vero contenuto dell’opera.

“Finalmente”, esordì l’artefice della Repubblica indipendente, “è giunta l’ora di dare un senso a tutta questa robaccia!”.

Insomma, il piccolo battaglione si sbizzarrì non poco nel rendere utili quei libri. Di alcuni strapparono le pagine, intrise di pessimo romanticismo e retorica da quattro soldi, per farne delle grosse palle di carta a cui dar fuoco. Di altri usarono invece i dorsi, che con i loro spigoli erano armi contundenti alquanto dolorose.

Mentre si provvedeva al lancio di palle infuocate e di copertine rigide, il canuto autore di satira si lasciò andare a teneri ricordi: “Non avete idea, voi altri, di quanti Bianciardi, Gadda e Landolfi sia riuscito a far leggere con questa semplice tecnica pedagogica…”.

Simone Ghelli

Come avrete intuito, questa storia non finisce qua, ma l’autore si riserva d’infliggervi quella giusta punizione chiamata attesa, che renderà ancora più gradita la lettura quando i pezzi della vicenda saranno stati rimontati a dovere, come si conviene a ogni finzione che si rispetti. Nel frattempo, tutto questo potrebbe essere accaduto davvero…

Il cielo dei se

IL CIELO DEI SE *

Era così profondo che a guardarlo dall’alto quasi avevo le vertigini. Il canyon che mi ritrovavo sotto il collo, là dove normalmente sorgono floride colline, mi lasciava in uno stato di arida desolazione ogni volta che mi esaminavo allo specchio. Profilo destro. Profilo sinistro. Frontale. Osservavo attentamente qualsiasi impercettibile rigonfiamento che potesse farmi sperare in un embrione di femminilità. Ma niente. Lo specchio, facendomi rassegnate spallucce, mi rifilava sempre lo stesso verdetto: anche questa estate niente tette. Mi rivolsi allora all’unico santo a cui potevo votarmi: mia nonna Alberta, intenta in quel momento a fare la sfoglia. Diceva rosari per ogni gattino smarrito, ogni gamba fratturata, ogni colpo di tosse del paese: non vedevo proprio perché non potesse occuparsi del problema del mio seno, che all’epoca mi sembrava poter competere con la guerra e la fame nel mondo per aggiudicarsi il titolo di più grave catastrofe dell’umanità. E così le commissionai due rosari, uno per seno, e che ci si mettesse d’impegno, la rimbrottai direzionandole lo sguardo a quei tristi bottoni di tettucole che avevo al posto del decolleté.

Il punto è che io volevo diventare bella e grande per lui, Bici Rossa, il mio amore sedicenne, un affascinante moretto che passava le vacanze nel mio paese. L’estate per me cominciava quando riuscivo a vedere (dopo settimane intere di indecenti appostamenti in cima alla collina) la macchina dei suoi genitori parcheggiata davanti alla sua villa e finiva quando lui se ne andava con le prime folate settembrine. Trascorrevo l’intero inverno a immaginare il momento in cui ci saremmo rivisti: lui scendeva dalla macchina dei suoi, mi scorgeva (nel frattempo ero diventata una strappona bionda, alta un metro e ottanta, con la quarta di reggiseno e avevo anche ottenuto magicamente un paio di occhi verdi) mi diceva “sei proprio tu? Sei diventata meravigliosa!”, s’innamorava all’istante, ci baciavamo e vivevamo felici e contenti, come in tutte le fiabe che si rispettino. Proprio quel giorno, finalmente, l’estate era arrivata in macchina con Bici Rossa e me ne stavo irrequieta al fiume con i miei amici, sapendo che poteva comparire da un momento all’altro.

Era così profondo il fiume che ogni volta che mi tuffavo per andare a toccare il fondo non riuscivo a riemergere per vari secondi. Quando sbucai dall’acqua gelida e me lo ritrovai davanti, lì in acqua accanto a me, lo accolsi con la mia muta bocca spalancata: è qui che il mio film cominciava. Ma io non ero una strappona bionda bensì un’aspra dodicenne e neanche quell’anno, chiaramente, il film cominciò. Bici Rossa mi salutò con il suo sorriso pieno di sole e malizia, mi fece una carezza sulla testa di quelle che si fanno ai bambini e si occupò presto di altro, anzi di altre. Loro sì che erano appetibili: avevano addirittura tredici anni, venivano dalla “città” e non gli mancavano di certo delle arroganti, altezzose mammelle. Bici Rossa e gli altri ragazzini cominciarono per scherzo a slacciare a tutte il bikini. A tutte tranne che a me, perché era inutile. Un pochino mi rodeva.

La sera, come ogni sera, raggiunsi gli altri nel piazzale. Anche se eravamo piccoli nel paese non si celavano pericoli e i nostri genitori ci facevano restare fuori fino a tardi, le undici. Io avevo sempre i capelli ancora un po’ bagnati e un inebriante odore di balsamo addosso: era quello il profumo dell’estate per me, l’odore di una promessa mai completamente mantenuta.

Giocavamo sempre a un nascondino evoluto, che aveva come confini i dintorni del paese. Anche quella sera Daniele cominciò a contare Uno, due, tre…novantanove, cento! e noi ci spargemmo dietro ai porticati, giù per i borghi, sotto il Ponte medioevale, su a perdifiato per le colline. Io “casualmente” mi nascosi nel prato in cima alla collina con Bici Rossa. Mentre eravamo stretti stretti dietro a un dosso, il silenzio della notte si addensò attorno a noi e lui mi disse “quando sarai più grande ripasserò”. E allora cominciai subito ad aspettare di diventare grande, e a contare Uno, due, tre…novantanove, cento… Gli sorrisi per quella spremuta di potenzialità che mi stava offrendo, felice in fondo di non essere ancora. Ci sdraiammo sul prato senza fare più nulla se non contemplare le stelle che pattinavano veloci sul cielo nero.

Era così profondo il cielo e così pieno: pieno di tutto quello che mi sarebbe accaduto, di tutto quello che mi sarebbe potuto accadere e anche di tutto quello che non mi sarebbe accaduto mai. Mentre sentivo di lontano gli echi degli scalpiccii di qualcuno, dei “Tana per me!” e mia mamma che mi reclamava dalla finestra – No, mamma, fammi giocare ancora un po’– io mi scioglievo tra le trame oscure del cielo, da cui mi sgocciolavano addosso dei seducenti

SE      SE      SE…

Sofia Assirelli

* racconto pubblicato sul Corriere di Bologna