Quattro poesie di Edoardo Olmi

Firenze
Tricolore-hc
(2011)

aveva le mie stesse Converse nere
mica tanto –
my Step by Step
13 euro quanti
loro rispettive edizioni in 6 anni
erano vera imitazione di finte
sue                                                      (49 euro e 90).

i pantaloni sotto al ginocchio
ricalcavano
i nostri diciott’anni,
ma ne avrà avuti almeno
una decina tanti –
neri come l’ombra all’assenza di maniche
della sua maglietta
nera, come

sotto la spalla destra tatuata

di una tartaruga ottagonale,

cerchiata

tricolore.

«la tartaruga»
rise giocondo, una volta un fratello
«è l’animale più punk che ci sia pensaci: è pacifica quanto corazzata.»

noi pogavamo insieme al Leggi il resto dell’articolo

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Nuovi scrittori, nuovi lettori. KATACRASH: quando il New diventa Gnu

Leggere Katacrash significa mettersi all’ascolto di un racconto. Il suono, infatti, rappresenta lo scheletro, la struttura portante dell’intera narrazione (intercalari, onomatopee, titoli di canzoni). E non poteva essere altrimenti, visto che l’ultimo romanzo di Fabrizio Gabrielli (Prospettiva, 2009) mette in scena un genere musicale, l’hip hop, e tutto il mondo che ruota attorno alla cultura della doppia acca all’inizio del Terzo Millennio. Come già ricordato altrove, l’autore, circa dieci anni fa, rappava e si faceva chiamare Tsunami Kobayashi. Come a dire che Gabrielli conosce bene la materia di cui tratta. Un romanzo sonoro, interamente costruito sulla forza del linguaggio: l’utilizzo di modalità espressive contemporanee («svario», «benza», «spino»), di un lessico sempre meno famigliare e sempre più metropolitano («bro» per fratello, «bellalà»), contraddistinguono Katacrash, testo sperimentale che va letto ad alta voce con musiche in sottofondo, consigliate appositamente dall’autore (in calce al libro nelle Note a cura di Valentina Vitale). Già, perché il suono riecheggia ad ogni parola e il tratto fonico sovrasta perfino i significati delle parole stesse: ecco allora che MTV si trasforma in «emtivì», rap in «erre a pi», SMS in «essemmesse». La simbiosi tra i vocaboli e i suoni ha chiaramente la funzione di riprodurre i frangenti emozionali dei personaggi in tutta la loro completezza. Si tratta di un mélange che funziona, non fosse altro per quelle acrobazie lessicali che ci ricordano quanti forestierismi, acronimi o sigle hanno ormai contaminato la nostra lingua: «emmepitré», «occhei», «biemmevù». Lo spaesamento è forte, quasi non capisci cosa tu stia leggendo; poi, pagina dopo pagina, ti ricordi che l’autore decompone volutamente la parola per riproportela così come tu non l’avevi mai percepita.

Protagonista indiscussa del volume è la musica, segnatamente quella rap e hip hop, che accompagna la crescita di tre ragazzi di provincia dalle «braghe larghe»: il narratore e i suoi amici Gi (Gionata) e Donnie (Donato). Il Pro-epilogo catapulta il lettore all’interno di un condominio agitato a caccia di un «topo grosso così». Si mobilitano la polizia, i pompieri, tutti i condomini per il «rodeo»: lo scarto tra la descrizione seria dei comportamenti umani e la vacuità dell’evento descritto rende decisamente umoristica la scena inaugurale. La trama è affollata di nomi, situazioni, musiche, rimandi intertestuali (si pensi ai titoli che fanno il verso a ben più note canzoni ed opere letterarie). Trentasei capitoli brevissimi, veri e propri petits coups de pinceau, dove si aprono parentesi riflessive che per un attimo ti costringono a rallentare: figli che cercano modelli da imitare, mentre i genitori preconfezionano loro il futuro secondo le proprie ambizioni; o l’appuntamento fisso, ogni novembre, di manifestazioni studentesche: «magari avessimo letto il testo della finanziaria, avremo anche potuto decidere il perché dell’insofferenza» (p. 48). La punteggiatura (in particolare l’uso abbondante delle virgole) segue il fiato della voce narrante: soggetti messi per inciso, ordo verborum snaturato, termini riproposti in sillabazioni esclusivamente foniche (ken-ne-dici?) e parole stranianti che, invece, sei tu a dover dividere per comprenderle: «pocopiùchebambine», «vattelapescadove», «diotenescampi».

La scrittura di Fabrizio Gabrielli è il tratto originale del racconto: alla fine della lettura è come se in testa ti rimanesse un rumore, un ritmo, una melodia e non il ricordo di aver appena letto un testo. Un linguaggio martellante, un vortice che ti risucchia, un libro fuori le righe, così come instabile e per niente convenzionale è l’adolescenza di cui si narra, con le sue incertezze, precarietà, collassi: «avevamo un background culturale fatto di Otto sotto un tetto, Tangentopoli, Notti magiche inseguendo un gol nanninicamente e bennaticamente scanticchiato, film di Vanzina e al massimo i Quaderni di Gramsci, che solo il più rosso di noi aveva nella libreria anche se non significa che l’avesse necessariamente pure letto» (p. 21). Katacrash è la storia di «tre giovanotti infottati con la doppia acca che vivono la formazione deformata nel destino di una generazione degenere. Finché non arriverà il momento del fragoroso crollo. Fin quando non sarà Katacrash». Così l’autore ha spesso introdotto il suo racconto nelle innumerevoli presentazioni in giro per le librerie italiane.

Il romanzo fa parte della collana BraiGnu della casa editrice Prospettiva. Ricordo che, oltre Katacrash, sono usciti Patagonìa di Dario Falconi e Finefebbraio di Valentina Grotta. Cosa sono i libri BrainGnu lo leggiamo nel sito web della collana: «deflagrazioni emotive, naufragi letterari, derive metropolitane. Scalpitìo di zoccoli nella savana. Tutùm tutùm. Paradosso e mutevolezza. Baratri ameni ed incantevoli, voragini vertiginose e feritoie di luce. Gnu, perché New». Ed è questo il segreto vincente della casa editrice: la propensione al Nuovo, la volontà di dare voce a giovani scrittori (precari) che sentono il bisogno di raccontare il loro mondo, le loro storie, ma soprattutto la loro evoluzione. Niente di scontato. Nessuna ovvietà. I volumi della collana BrainGnu sono alti venti centimetri e larghi tredici, come il muso di un cucciolo di gnu. Tutti i libri hanno lo stesso layout grafico. Si somigliano molto, così come all’interno di un branco di gnu è difficile distinguere un capo dall’altro. Ogni titolo è composto da una singola parola, unica nota di colore su copertine rigorosamente in bianco e nero.

Numerose e degne di nota le attività che ruotano attorno a Prospettiva editrice. Su tutte giganteggia il Premio Carver, nato come contropremio letterario italiano e che si distingue, come avviene nelle migliori accademie americane, per la segretezza della giuria, la quale legge i libri a prescindere dal nome dell’autore. Libertà di giudizio e mancanza della non meritocratica equazione “nome autore-casa editrice” sono i punti cardine del premio diretto da Andrea Giannasi, già definito dalla critica come il Premio Strega o Campiello dei nuovi scrittori. Non vanno dimenticate, infine, la lodevole iniziativa di pubblicare le tesi di laurea ospitandole nella collana “I Territori”, il Giornale letterario, il Festival del libro di Civitavecchia “Un mare di lettere”. E poi il canale ProspettivaTV su youtube e la Rivista letteraria Prospektiva: ogni numero è monografico; l’ultimo, ad esempio, (il n. 52) è dedicato al tema della Traversata. Così la letteratura scende dalla torre d’avorio, fa passi in avanti, si apre ad un pubblico vasto e non per forza specialistico. E i libri, finalmente, vengono letti anche tra i più giovani.

 

Stefania Segatori

[Clicca qui per leggere un estratto di Katacrash]

Storia d’amore a sud di nessun nord

[Riproponiamo il racconto del nostro Gianluca Liguori pubblicato su Prospektiva 51. Inoltre ricordiamo che è uscito, interamente dedicato al tema La Traversata, il numero cinquantadue dove, sotto la direzione editoriale dello “sforbiciatore” del lunedì Fabrizio Gabrielli, troverete i racconti dei precari Gianluca Liguori e Alex Pietrogiacomi, in compagnia, tra gli altri, di alcuni autori che abbiamo avuto il piacere di leggere su questo blog come Domenico CaringellaDario Falconi, Marco Marsullo, Roberto Mandracchia, Gianluca Morozzi, Sacha Naspini, Eduardo Olmi e Stefania Segatori. Buona lettura]

 

Io non lo so se quella cosa di averci un burrone
stomaco capita a tutti, mammina cara.
Però in quel momento mi sembrava di cascarci a me,
dentro quel burrone.

Sacha Naspini, I Cariolanti

 

Per esempio la luna. Quando guarda la luna, Adele scoppia a piangere. Io mica la capisco questa cosa qui. Vedi tu se si può piangere a guardar la luna. Questa cosa della luna io l’ho scoperta tardi, perché prima, fino a quella sera, poteva essere un mese fa, io e Adele ci incontravamo solo di giorno. Ci guardavamo di lontano e lei sorrideva. Sorridevo anche io, poi mi sentivo il fuoco sulla faccia e scappavo via.

È più forte di me, mi commuovo, ha detto quella sera che l’ho trovata sul ponte a guardare la luna e l’ho avvicinata. Io non ho potuto far altro che offrirle una carezza. Lei ha cominciato a raccontarmi tante cose. Parlava, parlava. Io non sono scappato fino a quando lei ha detto che s’era fatto tardi e doveva tornare a casa, se no i suoi non l’avrebbero fatta più uscire a guardar la luna.

Io vorrei pure baciarla, Adele, ma mica lo so come si fa. La mamma mica me l’ha spiegato: la mamma dice che di ragazze ne devo baciare solo una, quella che sposo. Che se no, dice, mi prendo le malattie e non mi sposa nessuna, che già c’abbiamo poco da offrire noi. La mamma dice che ci sono tante ragazze cattive, che devo stare attento. Io ci ho un po’ paura delle ragazze e non parlo mai con loro. Tranne che con Adele, perché con lei è diverso. Adele è lei che mi parla. Io sto zitto. Cioè, non è proprio che sto zitto, mi limito a dire “Sì” “Certo” “Bene”. Mai detto altro. Io le parole che vorrei dire le cerco, me le immagino sempre quando sono a pascolar le pecore, quando mi siedo sulla pietra penso tante parole; ma quando Adele mi parla dico solo “Sì” “Certo” “Bene”. Non le so dire altro.

Questa cosa che non riesco a parlare è proprio strana. Mi si crea una sensazione di vuoto tra lo stomaco e il cuore, come se un topino mi rosicchiasse da dentro. Io questo topino me lo immagino davvero, una volta l’ho pure sognato che mentre dormivo mi entrava in bocca. Forse mica che non era un sogno e che il topo m’è entrato dentro e lì vive. E siccome quando vedo Adele il cuore comincia a battermi forte, il rumore del cuore lo spaventa e comincia a mordermi, povero topino.

Io alla mamma mica posso dirglielo che c’ho il topo di dentro. Io lo so che lei prenderebbe il mattarello della pizza e comincerebbe a menarmi sulle braccia e sulla schiena. Io lo so che va a finire così, e siccome le botte non le voglio, ché già il babbo quando beve troppo vino dice che è colpa mia se non è riuscito a combinare nulla e me le dà di santa ragione. Il babbo beve tutte le sere. Certe volte me la scampo, che me ne vado a dormire prima che lui si ubriaca. Però poi è peggio, perché mi sveglia nel sonno il pianto di mia madre. E capisco che mio padre se l’è presa con lei. Io questo lo so perché una volta ho finto di dormire e poi mi sono affacciato e ho spiato mio padre che dava mia madre con la cinta. Io guardavo e mi faceva male pure a me, era come se picchiasse anche su di me. È da quella volta che ho deciso che in camera ci vado solo quando ho sonno da non star sveglio. Preferisco prendermi le botte io, piuttosto che la mamma. Che poi il babbo lo dice pure lui che io c’ho la pelle di ciuccio. E quando hai la pelle di ciuccio il dolore lo sopporti bene, mica come quei bambini che vanno a scuola e sono tutti belli lindi e puliti, bianchicci, che una sola cinghiata del babbo e sarebbero un lago di sangue. Io lo so che il babbo me le da perché mi vuole bene. Oramai non piango nemmeno più. Mi chiudo come una palla e aspetto che finisca. Tanto finisce sempre. Mica può stare sempre a picchiarmi, dopo un po’ si stanca, gli viene a noia, o peggio comincia a piangere lui e dice che non voleva, si scusa. Io il babbo quando fa così mica lo capisco. Io quando piangono i miei genitori non piango mai. Le lacrime sono dei deboli, diceva la nonna. Io voglio esser forte ché devo proteggere Adele. Adele è debole, e di certo non è una cattiva ragazza. Una cattiva ragazza non più piangere a guardar la luna. Sono sicuro che alla mamma piacerà tanto, Adele. Io però alla mamma non gliela voglio raccontare questa storia della luna, chissà cosa penserebbe, direbbe che Adele non fa per me, che per me ci vuole una donna di campagna che sappia badare alla casa, che mica quando invecchia c’avrà le forze, dice lei. La mamma non capirebbe mai perché Adele piange alla luna. Non lo capisco nemmeno io.

Gianluca Liguori