Quattro Visioni

di Francesco Quaranta

A metà del mio percorso mortale, come malattia, l’intolleranza per il mondo crebbe in me. La febbre inquieta calò una coltre di turbolento, formicolante fradiciume e mi gettò nel ventre del delirio. Quando questo si squarciò, partorì le visioni.

Nella prima ero solo sulla sconfinata Terra sovraffollata di uomini che brancolavano, ottenebrati e prudenti, in una tremenda nebbia lattea. Loro unica luce e direzione erano gli Idoli: costruzioni di organicità eterea commista a solidità cristallina, articolati palazzi di cerimoniali e imperativi. Protrudevano da loro cordoni fibrosi e guizzanti, s’affondavano nella nuca di ogni uomo a concedere loro un conforto sintetico. Così questi erravano, calpestandosi l’un l’altro nel timore di smarrire il Bene ed i beni. Ma proprio come tutti gli edifici, gli Idoli avevano delle pareti, dei limiti.
Senza indugio scelsi di spezzare questa gabbia: afferrai un paio di tentacoli che penetravano le spine di uomini maturi, strattonai e li liberai. Urlarono, sperduti, spaventati e senza guida, trasmutarono in infanti dalle proporzioni gigantesche che strillavano la loro disperazione raggomitolati a terra, sbavanti.
La visione non era tale, compresi, sussisteva la necessità di agire. Posi perciò le tremanti mani dei due lattanti l’una nell’altra. Il pianto cessò ed essi riacquistarono l’aspetto adulto, illuminati dalla certezza nata con quella stretta. A cascata, i due uomini liberi strapparono i vincoli di ogni Idolo dai loro simili per sostituirli con un legame paritario, mano per mano. La nebbia si diradò rapida e la vista fu invasa ovunque da una sublime luce e dalla natura rigogliosa; gli Idoli crollarono con nulla più che gran rumore per lasciare soltanto affascinanti leggende.
Gli umani, monolitica catena, si strinsero ancora, maggiormente consci e fiduciosi della loro unione. l’Umanità, messe radici nel terreno vivo e fertile. Crebbe fino alle nuvole come titanica simbiosi.

La seconda mi trovò solitario di fronte all’immenso Albero dell’Umanità interconnessa, immensa, maestosa e sicura. Ognuno aveva un Leggi il resto dell’articolo

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Poesia precaria (selezionata da A. Coffami) – 18

Barbara Pinchi quando si faceva le Slam Poetry leggeva/recitava le sue poesie scalza. E faceva strano magari vederla al salone del libro di Torino senza scarpe che ammaliava con quella voce e quei suoi testi vibranti. Io e lei, dopo un bel periodo di letture itineranti (eravamo autori della scuderia Prospettiva editrice, con la quale lei pubblicò la raccolta D’Ombre) non ci siamo sentiti né visti per mesi e mesi finchè non debuttò in un teatro vero con un suo “recital” poetico, a metà strada tra reading e spettacolo teatrale. I testi di Barbara Pinchi sono testi di carne, di ossa, sono viscere, sono passione. E quando è in scena il tutto fa contrasto con il suo corpo esile e ci si chiede da dove provenga tanta tempesta.

Assaporatela qui.

Andrea Coffami

LORO IN BOCCA

Oggi ho il cuore che mi si riempie

strano.

Ode a te mio pallido amore.

Ave oh mattina che hai loro in bocca.

Mio istrice pungente,

pungimi,

altrimenti che mi dici

che non tutti i mali vengono a pungermi.

E loro in bocca… loro tengono un termine

che se porgo un’altra guancia me ne rimane

una

sola.

Mio pallido amore, finché notte non ci separi.

OGGI / HO IL CUORE / CHE MI

SI RIEMPIE

STRANO.

Barbara Pinchi

CONCUOCE

Se/ non avendo questa tagliola tra le gambe. Se/ in

sproporzione di labbra. Se/ dopo lagrimanti voglie non

inducendomi sempre in abbandoni. In perseveranze mie,

senza più rigido dire, maldestro e malsinistro emisfero che

cuoce e concuoce in sibili. Se anche questo cuore

anchesenzafrettanchesenzassenza fosse più un forse che

un mai. Saprei in “concediti il tempo” grattare via la

sagoma del pensiero? Mi saprei più impunita e d’altronde

orgogliosa di me.

Barbara Pinchi

Patagonìa *

Domani partiamo. Dove andiamo, amore mio?

Sappiamo che non sarà una festa ma una marcia funebre. Marcia. Una promessa ventenne che non può essere smentita affinchè l’apparenza sovrasti la ragionevolezza e tutto appaia per quello che non è mai stato. La simulazione di un idillio. Un’idilliaca simulazione. Monelli che giocano agli indiani in un acquario di pellirossa senza scalpi. Senza scampi di coppia, via di foga. Arrembante inezia dell’inerzia. Farsa di gravità che tutto ingravida affinchè tutto graviti. E che nessun meteorite oltraggi il cielo stellato del nostro presepio miscredente. Non vedi, amore mio, che non ci sono più le stelle. Non vedi, amore mio, che non c’è più il cielo? E, magari, intravvedessimo qualche meteorite, almeno potremmo respirare ancora un universo di guerra e tumulto, di apocalisse e fuoco. Almeno, potremmo ancora corrisponderci come divise nemiche cospiranti verso comuni aspirazioni: Tregua, Pace, Convivenza.

Sento la chiave incidere nel cancello i suoi riconoscibili battiti. Sei tornato, amore mio. Ti aspettavo.

Sento i tuoi passi dirompere sulle scale. Eccoti, amore mio. Sei arrivato.

Sento la tua presenza gigante dietro alla porta del bagno. Si, amore, sto aspettando. Parla pure. So quello che dirai. Ti prego, dillo.

“Rosa, devi stare ancora molto? Fai presto.”

Faccio presto. Esco. Probabilmente vorrà parlarmi a letto. Hai ragione, amore mio. Vero, che ti sei accorto che piangevo? Vero, che tra un attimo me lo dirai? Vero, che saprai dirmi le parole giuste?

Ti lavi, ti spogli, t’infili mestamente sotto le coperte. Questo è il momento. Rimango in attesa.

“Hai preparato le valigie?”

“Si.”

“Bene. Buonanotte. Domani sveglia alle 6.”

Inizia così la mia storia.

Finisce così la mia storia.

Buonanotte.

Dario Falconi

* Anteprima di Patagonìa (Prospettiva editrice – collana BrainGnu)