Harley Davidson

ROMA 1997

Armando parcheggiò il motorino nel cortiletto che dava sul lotto nove. Suonato il citofono, salì al quarto piano del palazzo, nel complesso delle case popolari. Il Befera lo accolse in tuta, abbracciandolo e baciandolo sulle guance. Erano le dieci e mezza di un martedì mattina. La città, intorno, lavorava frenetica. Quei due invece se ne stavano dentro un bolla. Sveglia alle nove, telefonatina, caffè e un paio di cannoni d’erba. Quando a quasi trent’anni non lavori, devi stare a sentire le pippe di tutti quelli che ti esortano a cambiar registro. Gli amici e, soprattutto, i parenti. Ma i loro parenti certi discorsi non li facevano. Erano entrati e usciti di galera per una vita. Non potevano permettersi troppe ramanzine. La prole, d’altro canto, non si era mai allontanata dalle tradizioni di famiglia. Leggi il resto dell’articolo

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Anno del signore 1997

È chiamata interlinea la distanza verticale che intercorre tra la linea di base di una riga e quella della riga successiva.

È chiamata focale 64 (ƒ64) la minima apertura di diaframma nello scatto di una fotografia ed il conseguente valore massimo di profondità di campo.

La rubrica Interlinea ƒ64 nasce dalla collaborazione tra La Rotta per Itaca e Scrittori precari: una volta al mese, uno scrittore, leggendo tra le righe di una fotografia, ci racconterà una storia in profondità di campo.


di Andrea Coffami e Angelo Zabaglio da una foto di Andrea Pozzato

Era l’ora tarda dei televisori accesi sulle emittenti locali che passavano cosce allargate, coperte leggermente da numeri telefonici da 2000 lire a scatto, bocche bagnate da lingue che inumidivano labbra e capezzoli esposti per nulla utilizzati ad allattare neonati.

L’uomo sonnolento sulla sua poltrona marroncina aveva solo la forza di usare i muscoli della mano, anzi delle dita, per pigiare i pulsanti del telecomando del suo televisore abbastanza anziano. Sarà stata la televisione. Sarà stato il ricordo. L’uomo si spogliò. Stese sulla sua poltrona marroncina le vesti che portava e indossò un abito ben più pesante. Chiudendo la porta principale del suo abitacolo, cominciò a passeggiare per il viale notturno, illuminato dai lampioni alti e accesi, dai lampioni spenti e dai lampioni rotti. Era piovuto poche ore prima ed una leggera pioggia riprese a scendere dal cielo, ma questo non importava alle numerose donne di colore scuro e colore chiaro che come tutte le notti attendevano corpi paganti, alti, bassi, bianchi, neri, larghi, corti, lunghi, corpulenti, mingherlini, esili, gracili, massicci, forti, robusti, repellenti, vigorosi, muscolosi, flaccidi, goffi, vivaci, tristi, sciocchi, soli, cortesi, incivili, pelosi, malinconici, ricurvi, belli, attraenti, sconosciuti, apatici, maturi, eccitati, dolci, affettuosi, rozzi, sgradevoli, puzzolenti, sudati, riservati, simpatici, unti, timidi, taciturni, comuni, lavati, spavaldi, anziani, sciupati, saggi, giovani, rauchi, disoccupati, nervosi, commossi, impauriti, confusi, delusi, infedeli, depressi, tutti rigorosamente paganti.

Era piovuto e la pioggia abbondante ritornava nuovamente a bagnare le auto parcheggiate ma leggermente ondulanti di ammortizzatori pressati dai corpi che si pressano. Il nostro signore sonnolento non aveva intenzione di pagare, preferiva riscuotere.

La notte terminò abbastanza priva di forze. Al mattino seguente, la solitudine della stanza venne riempita dal dolce venticello, che partendo direttamente dalle poche nuvole in cielo, come un ciclista in volata giunse direttamente all’interno della camera dove il vecchio signore era intento ad aprire la finestra con ante in legno caldo, come nel retro di una piccola chiesa. La zuppa di latte terminò di vivere entro dieci minuti. La tazza che il signore portava alla bocca era color ceramica sporcata di rosso al bordo… come di rossetto per labbra. La televisione trasmetteva un film in bianco e nero. La televisione non era a colori. Il film era un vecchio classico degli anni novanta.

Erano le ore 9:30 e alle 10:00 si sarebbe svolta la santa messa. In meno di dodici minuti il vecchio signore si tolse il trucco dal viso e dagli occhi, non avendo avuto il tempo, la voglia e la forza di farlo la notte precedente (9 ore prima). Con cotone imbevuto di creme, fece risplendere la sua pelle raggrinzita, eliminando il nero stropicciato di trucco che contornava disordinatamente gli occhi. Il forte rosso acceso sulle labbra scomparve e, indossando la cotta, si preparò ad accogliere i fedeli arrivati in chiesa per ascoltare la messa che il vecchio signore celebrava tutte le mattine alle 10:00.

Peep-show

Le cose romantiche non mi sono mai piaciute. Questo me lo sono sempre ripetuta, tanto che non riesco più a ricordare se sono diventata così cinica o lo sono sempre stata. E non si tratta di essere incazzati col mondo, non è questo. La verità è che all’inizio io nel mondo ci stavo bene. Ho avuto tutto. Ma una vita serena vale a dire non conoscere nulla veramente, di quello che c’è fuori. Potevo arrabbiarmi con quelli che mi rinfacciavano di essere fortunata, potevo arrabbiarmi con i miei genitori, che mi hanno permesso di esserlo.

Le persone fortunate, credimi, non sono mai piaciute a nessuno.

E la nostra generazione non piace a nessuno per questo.

Allora abbiamo rovesciato il gioco delle parti: abbiamo smesso di mangiare, abbiamo smesso di studiare, abbiamo smesso di sentirci felici.

Questa cosa me l’ha insegnata Eva. Che la felicità è lobotomia. Che nascere felici è come non avere mai avuto le dita, il tatto, per esempio. E mentre lo diceva faceva scorrere uno sull’altro i polpastrelli.

Eva l’ho conosciuta la sera di un aprile invernale in cui la mia vita è cambiata. Una ragazza così bella io non l’avevo mai vista, davvero. Una ragazza così bella non deve chiedere niente nella vita, pensai. Faceva freddo, io ero fuori un locale di San Lorenzo e piangevo. Così, rannicchiata in un angolo, mentre dall’interno del locale si sentivano le voci altalenanti della gente soffocare un disco di Jimi Hendrix. Eva si avvicinò con una birra. Mi chiese perché piangevo e non le risposi subito. Mi sarei laureata dopo poche settimane in medicina, le dissi, e avevo rotto la sera stessa con il mio ragazzo. Non sapevo cosa dovevo provare. Felicità o tristezza. La disperazione le comprendeva entrambe.

Se non sei felice tu, non permettere a nessuno di esserlo, aveva detto Eva.

Eva aveva un tatuaggio sul braccio sinistro, un cuore trafitto da una spada, attorno una pergamena con sopra scritto “mom and dad”.

Piangi perché non sai un cazzo tu della vita. Ci posso scommettere. Mi disse. Si abbassò sulle ginocchia e poggiò sulle mie un libro. Piccole donne. Da un piccolo flacone fece uscire una polvere bianca, la sistemò in fila e tirò su col naso.

Ci hanno fatto credere un sacco di falsità. Che si deve crescere, come queste povere puttanelle. Che si deve rinunciare. Che ci si deve sacrificare. Che ci si deve innamorare. Quando poi diventano vecchi, queste cose le dimenticano, divertiti, ti dicono, ma solo quando è troppo tardi.

A questo punto della storia, la canzone esatta sarebbe Vodoo child. Ci sarebbero i titoli di presentazione, la musica che aumenta, Eva che mi dice. Pensaci. Tra uno stacco e l’altro della voce negra di Hendrix, e poi si allontana, dopo avermi lasciato un biglietto nella mano. Un appuntamento.

Era il giorno del mio ultimo esame. Andai all’università, aspettai il mio turno. Sapevo tutto. Ero pronta a diventare un medico. Quando mi chiamarono però non riuscii ad alzarmi dalla sedia. Non risposi al mio nome. Cercai nervosamente qualcosa nella borsa per nascondermi in volto e trovai il biglietto di Eva: il giorno indicato era esattamente quello. Mi alzai di scatto e cominciai a correre disperatamente verso l’orario e il luogo indicati.

Questo è il solo modo in cui si può assistere alla propria nascita. Me l’ha insegnato Eva.

Prima ci hanno insegnato Woodstock e poi ce ne hanno privato. Mi diceva sempre lei. La libertà e tutto il resto.

La scena successiva riprende la mia amica di spalle, chinata sul fornello della sua cucina lurida.

La vedevo svolgere quei movimenti come un rituale sacro. In quei momenti era una sacerdotessa inviolabile, nel silenzio. Due pezzi di ferro, i resti di una vecchia stampella, tenevano in equilibrio pochi grammi di oppio. Mi avvicinavo a lei che mi chiamava con lo sguardo. Incameravo il fumo. Incenso.

Ti manca casa? Mi chiedeva sempre, una volta stese sul pavimento della cucina. E io le rispondevo. Si, a volte, Eva, mi manca casa.

Allora lei mi diceva che il vero problema erano i pesci rossi. Ne teneva uno in una piccola vasca sul pavimento della cucina che nuotava in acqua melmosa. I pesci rossi hanno una memoria di soli tre secondi, poi ricominciano ad apprendere per dimenticare tutto immediatamente dopo.

Pensavo che era vero. Che Eva aveva ragione. Che fino ad allora l’affetto dei miei genitori, la felicità di rispondere ad un preciso senso del dovere e non del volere, era stata la mia gabbia. Raccolta dalla memoria degli affetti.

Ci hanno insegnato Woodstock e poi se lo sono ripresi. Lo hanno trasformato in colpa e poi lo hanno dimenticato. Infliggi alla tua casa la tua assenza. Questa è la punizione che si meritano.

Domani partiamo. Mi disse. Se tu non sei felice, non devi permettere a nessun altro di esserlo.

Ed era l’estate e il nostro primo viaggio insieme. Prese l’estremità della stampella ancora rovente e l’appoggiò sull’interno del braccio pallido senza emettere suono. Fece lo stesso con me. Doveva essere quello l’inizio della liberazione.

Ci fanno credere che il dolore sia qualcosa di negativo. Ci hanno insegnato Woodstock e poi se lo sono ripresi.

Fanculo la nostra generazione. Fanculo la modernità. Io ed Eva insieme fondammo un tempo nuovo.

La libertà di una donna a Londra si chiama Peep-Show. Sai cos’è un Peep-Show? Immagina un locale luminoso nel centro trasgressivo di Soho. Immagina delle cabine, separate da un’altra stanza con un vetro unidirezionale. Il cliente vede la donna senza essere visto. La donna si tocca, balla, si accarezza, si dondola su un’altalena di fiori. Il cliente si tocca con la donna, sente il proprio respiro che si condensa sul vetro. Nient’altro. Non è prostituzione, non è sfruttamento. È un modo onesto di affermare la superiorità della donna. Io che scopro lentamente una gamba, lentamente, fino al ginocchio, vicino, che quasi puoi toccarlo, così, e ti eccito e ti sono vicina senza esserci. So che tu mi stai spiando. So che sono bella. So che ti stai eccitando. Una cosa del genere, insomma. Ed è la cosa più autentica che c’è. Spiare dichiaratamente una donna. Rendere conto dell’atto. Pagare i diritti dell’atto. I nostri clienti erano i più sani appassionati di sesso che avessi mai conosciuto, come i grandi amanti della musica, che spendono tutto in dischi e trovano oltraggiosa la condivisione in rete. I nostri clienti non avrebbero mai spiato dal buco della serratura, di nascosto. Il punto estremo in cui il reality si dichiara fiction, senza falsi buonismi, era questo che affermavamo continuamente.

Piccole donne sotto vetro che danzano ondeggianti come pesci rossi. Goldfish in a Bowl, mi pare dicesse una canzone. Forse erano i Pink Floyd, ma non lo ricordo, non lo ricordo.

Abbiamo iniziato a guadagnare in quel modo. Potevamo ottenere tutto quello che volevamo. Ci sentivamo delle dive. Era come un banco del seme senza giornaletti porno e senza fiducia nella riproduzione. Dopo qualche mese eravamo diventate famose. Preparavamo i nostri show in un appartamento di periferia e li ripetevamo al locale. Nelle notti di Soho non esisteva cordone di velluto che non si alzasse per farci passare. Per la prima volta eravamo libere. Pensavo ad Eva come la mia vera madre. Madre senza padre. Era anche lo schifo per gli uomini ad accomunarci. La maledizione dell’innamorarsi, un motivo in più per sentirsi schiave.

Lei me l’aveva insegnato, io le credevo. Da bambina era stata violentata dal padre. Quella sera me lo confessò ridendo. Scopare è uguale con tutti. Non c’è differenza, aveva detto. La cultura vuole che non sia così, ma pensaci, è tutta una finzione. Tutti gli uomini sono uguali… lo dice anche il vangelo, no?

E rideva, infilandomi una giarrettiera rosa pallido ad una gamba. Mi baciò dolcemente sulle labbra. La felicità non esiste, sussurrò. Quella sera allo specchio vidi solo due anoressiche vestite da bambola.

Entrai in cabina senza sorridere. Dondolavo sull’altalena e in alto le corde si avvolgevano su se stesse, facendomi girare. Guardavo in basso. Dall’altra parte del vetro sentivo la voce di un uomo che mi diceva di togliermi il vestito , di sfilarmi lentamente le mutandine di pizzo giallo pallido, un nastrino per volta, sul fianco. Io stavo ferma a guardare nel vuoto. Iniziò a dirmi che ero una puttana, che aveva pagato per vedere, che non lo facevo eccitare abbastanza. Pensai alle gite in campagna. Pensai a tutte le volte che di sabato sera aspettavo sveglia i miei genitori che rientravano tardi, e a quanto ero sollevata nel vederli. Pensai alla mia camera, ai miei dischi di Simon & Garfunkel, alle poesie di Herman Hesse.

Mio padre che mi legge i versi di Omero in una giornata di sole, ai raggi che filtrano tiepidi dal vetro della cucina, mentre mia madre prepara la tavola con i colori più belli del mondo.

Sobbalzai al suono che indicava la fine del turno. L’uomo era andato via. Uscii fuori e accesi una sigaretta. Mi cambiai. Andai a casa. Aveva iniziato a piovere. Era bella la notte di Londra con la pioggia e mi sentivo affondare nelle cose.

Arrivai a casa mezza fradicia di pioggia ma ricordo perfettamente che andava bene così. Avevo cambiato idea e forse di vita ne avevo vista abbastanza. Che ero sempre in tempo per insegnare ad Eva quello che avevo scoperto e cioè che non tutto è definitivo. Che si è sempre in tempo. Questo lo pensai mentre cercavo le chiavi di casa, davanti alla porta.

E adesso immaginala con me, una voce che mi chiama. Una voce musicale, una ninnananna che inquieta. Bambolina. Mi chiama. Torna qui. Dice. Bambolina. Ho pagato per vedere. E ricordo che la borsa cadde a terra e si sentì solo il rumore delle chiavi.

Immagina: io che non ho fiato per gridare. Che mi fa male il cuore. Che provo a dimenarmi ma l’uomo stringe forte, mi trascina in un angolo di strada vuota. Sento che puzza. Sento che respira forte sul mio collo. Mi strappa i vestiti da dosso. Mi mordo la lingua per sentire più dolore, il mio, che io posso farmi più male di come me ne fa lui.

Basta, basta, ti prego, basta. Adesso basta. E dopo poco mi accorgo che non sento più niente, neanche la pioggia sul volto, neanche il freddo. Non avere paura, mi dico. Tra poco sarà tutto finito. E penso a quando nei sabati sera della mia infanzia lenivo da sola la paura dell’abbandono. Domani saranno i miei genitori a svegliarmi. Perché non mi hanno abbandonata. Saranno loro. Domani, domani sarà tutto finito.

Restai con il volto piantato a terra in una pozzanghera. Mi svegliai insieme a Londra alle prime luci oblique del mattino. Il sapore del sangue e quello della terra bagnata sono simili. Sanno di ferro. Senza muovermi riuscivo a guardare la porta di casa. Eva ha già portato dentro il latte, pensai. Ma non riuscivo a muovermi né a chiedere aiuto. Con un braccio sfiorai a tentoni la superficie della strada. Le mie dita incontrarono un pezzo di carta bagnato dove era ancora riconoscibile il nostro indirizzo. Il tratto blu scritto a penna e sfumato in parte e mi ricordò una laguna dipinta ad acquerelli. A stento riconobbi la scrittura di Eva.

Se tu non sei felice, non devi permettere a nessun altro di esserlo.

Ci hanno insegnato Woodstock e poi se lo sono ripresi, con l’innocenza e tutto il resto.

E noi non siamo altro che pesci rossi. Lo ricordiamo per tre secondi , poi basta. La condanna è eterna. Dobbiamo imparare ogni volta ad impararlo di nuovo.

 

Olga Campofreda

Trauma cronico – Una classe politica che va a puttane

È mai possibile o porco di un cane che le avventure in codesto reame debban risolversi tutte con grandi puttane

Fabrizio De André

Una volta erano storie d’amore e di coltello, oggi di trans e cocaina. L’ultimo scandalo gossipolitico riguarda l’ex giornalista Piero Marrazzo, che dal 2005 ricopre la carica di governatore della Regione Lazio. La storia è confusa e complicata, e come tante vicende italiane pare sia colorata di misteri, ricatti, giochi di potere e di poltrona.

Mi chiedo: a chi avrebbero fatto comodo nuove elezioni per il Consiglio della Regione Lazio?

La storia è becera, e non starò qui a ripeterla, tanto più che ne parlano tutti e dappertutto. Hanno ragione quelli che dicono che le classi dirigenti dei nostri partiti politici vanno a puttane.

E la classe operaia? A puttane anche quella, solo che va con quelle di strada, più economiche.

Ci sono uomini che mille euro li guadagnano in un mese, quando va bene, e con quelli ci mantengono moglie e figli. E ogni tanto, quando si può, trenta euro bocca e fica. Col rischio di una multa salatissima da far saltare il bilancio familiare.

Ci sono uomini che mille euro e più li spendono per una serata con una escort, che mette in cassa, esentasse. Poi i conti dello Stato non tornano…

Mi chiedo: ma non sarebbe meglio una leggina che legalizzasse la vendita dell’amore, così se pure a qualcuno di potente piace andare a puttane o farsi inculare da un trans, sarebbero pure cazzi suoi… e poi non farebbero niente di illegale, all’opinione pubblica dovrebbero da rendere solo su una questione morale, ma parliamoci chiaro, cosa vuoi che se ne frega, la gente, di questi tempi, con tutti i problemi seri che ci sono, con il lavoro che non c’è, se un politico va a puttane? Qui, in Italia, tutto va a puttane…

Un mio amico è disperato perché gli hanno chiuso la sezione incontri del sito Bakeca. Pare che vi fossero annunci che nascondevano prestazioni a pagamento. Lui preferiva andare in appartamento, si sentiva sicuro e gli piaceva di più. Adesso non può. Come lui, immagino, tantissimi. Sarebbe antropologicamente interessante vedere una protesta dei consumatori d’amore, una manifestazione per la fica!

Sono millenni che l’uomo paga in cambio di un’illusione d’amore o più volgarmente per svuotare i sacchetti, e niente mai potrà fermare quest’istinto primordiale. La prostituzione esisterà sempre, non credo sia eticamente corretto proibirla. Da proibire è lo sfruttamento, il racket e tutte le storie di violenza criminale che ci sono dietro, da salvaguardare ci sono donne giovanissime, esseri umani indifesi, ancora oggi, anno domini 2010, ridotti in schiavitù. I diritti fondamentali sono quotidianamente stuprati.

Ipocrisia, in questo paese, Italia, mai sarà abolita.

Gianluca Liguori

Condizioni d’uso – ibrido_xN

ARTISTA:

Ibrido_xN

COMPONENTI:

Germano “J” Tasselli: voci, campionatori, chitarre

Andrea Lucidi: basso, synth bass, chitarre acustiche

Carlo Schiaroli: batteria, campionatori

TITOLO DEL DISCO: Policarbonato trasparente

TRACKLIST:

1. Io non voto
2. L’odio
3. L’allergico
4. Tutta colpa della regina
5. Nel buio
6. Ibrido

CANZONE MIGLIORE: Nel buio

Tra emo-zioni ormai perse, emo-rragie di suoni plastificati, io voto gli Ibrido x_N.
Ogni atomo di questo EP risplende, inebria, fino a divenire un prezioso brivido, quello che sempre più raramente si impossessa delle mie viscere quando ascolto musica.

La rabbiosa ironia di Io non voto è il manifesto di chi si ritrova a doversi tristemente arrendere davanti alla “prostituzione” della politica italiana, di un paese che depone il suo stivale per incappucciarsi, rosso, ma solo di vergogna.

E’ inquietante constatare che band come gli Ibrido_xN debbano ancora lottare per organizzare serate nei locali romani, tra un “quanta gente portate?” ed un “vi va bene come rimborso una cena ed una consumazione?”.

Non molto tempo fa mi è stato fatto notare che anche nel mondo “underground” troppa gente suona per vivere e non vive per suonare: io ribatto dicendo che all’estero i musicisti vengono finanziati, aiutati, perchè l’arte è considerata un bene culturale, probabilmente il modo più genuino per elevare lo sviluppo della razza umana.

Ed io, ogni volta che ascolto Policarbonato trasparente, mi rendo conto che la bellezza risiede nella semplicità, nella frenesia delle passioni, nei dolci risvegli, quando rapiti, legati, drogati ed ubriachi, apriamo gli occhi ed una luce confortante si accuccia accanto a noi, cullandoci “Nel buio”.

SITO UFFICIALE: www.ibridoxn.com
MYSPACE: www.myspace.com/ibridoxn

Ilenia Volpe

Face to Face! – John Romita Jr.

John Romita Jr. è figlio (John Romita Sr.) di uno dei disegnatori di Spider Man più conosciuti e riconosciuti nel tratto e nella sensibilità con cui ha saputo realizzare e far vivere il nostro affezionatissimo ragno di quartiere sulle pagine dei comics.

John Romita Jr. è un artista che con Spidey ha ancora a che fare perché da anni lo disegna, da anni ne conosce i più intimi segreti e i problemi più profondi, uno dei pochi che ci puoi realmente parlare del futuro di questo supereroe che in Italia festeggia il suo numero 500 con un’edizione speciale della Panini.

Dopo trent’anni di carriera, a Roma, mi trovo davanti un vero e proprio mito che scherza sul fatto di essere famoso, racconta il suo modo di concepire l’arte e il lavoro, ci parla delle sue origini ma soprattutto dichiara tutto il suo amore per un padre incredibilie e una famiglia per la quale si muove tutta la sua vita.

Benvenuti nel fumetto inedito della storia dello Stupefacente John Romita Jr.

Quanto leghi la parola eredità al tuo Jr.?

E’ una parola molto importante, doppiamente legata a me come artista e come figlio di un grande arista.
La cosa meravigliosa tra me e l’eredità che ho ricevuto, tra me e mio padre è che non c’è mai stata un’imposizione, mai un conflitto, uno scontro.
Per me è sempre stato solo un meraviglioso rapporto tra padre e figlio. Semplicemente questo. Non ho vissuto nessun tipo di costrizione grazie al tesoro che mio padre ha fatto della sua esperienza. Mio nonno (originario di Bari dove costruiva le bare) infatti era un uomo duro, concreto, che ha cresciuto il figlio con un regime molto autoritario. Una mentalità che neanche lontanamente pensava all’arte che si è ritrovata con un figlio che dal nulla ha dimostrato di viverne. Un talento naturale che è spuntato fuori così!
La vena artistica di mio padre era mal vista, come una “stranezza”. Ecco io sono cresciuto completamente distante da tutto ciò, grazie alla profonda intelligenza e sensibilità di un uomo che continuava a dirmi che mi avrebbe aiutato in qualsiasi modo, che mi avrebbe consigliato sempre, solo se lo avessi chiesto. “Chiedimi figliolo e io ti dirò tutto quello che vuoi sapere, ma da me non avrai nulla che possa influenzarti in qualche modo a fare questo lavoro o ad avvicinarti all’arte” continuava a ripetermi. La cosa fu semplice: iniziai ad osservarlo e a chiedere.
Lui si è sempre rifiutato di trattarmi come è stato trattato.

Quali sono gli artisti che al tempo ti hanno influenzato e quelli che continui ad ammirare anche grazie al modo in cui hanno rotto le regole?

Sono cresciuto osservando opere italiane, francesi. Amo gli impressionisti, Matisse. Tra gli illustratori Gibson, J.C. Leyendecker e molti altri che avevo in un grande libro di cui non ricordo il nome e che sfogliavo continuamente.
Tra i cartoonist mio padre, John Buscema e Jack Kirby. Per quello che riguarda la mia professione sono loro tre i nomi più importanti, le influenze più grandi e i maestri da cui imparare. Hanno avuto la capacità di raccontare le storie, di dare un taglio quasi cinematografico alle sequenze sapendole immaginare nella loro testa con la stessa precisione con cui poi l’hanno disegnate.
Forti di una espressività narrativa innaturale.

E come vedi l’influenza di un giovane talento, negli anni 90 soprattutto, come Rob Liefield nello sviluppo del disegno e dell’attitudine a questo?

Agli inizi degli anni novanta ha influenzato moltissimo i giovani che si stavano avvicinando al nostro lavoro con il suo tratto caratteristico, irriverente e la sua età. Io però non sono d’accordo su una cosa, pur rispettando Rob e la sua arte, un artista (soprattutto se giovane) deve formarsi con i grandi maestri, con la grande arte come dicevo anche all’inizio e non da altri esordienti.
Mio padre mi ha fatto studiare al College insistendo molto sulla mia educazione scolastica, ripetendomi che prima sarei dovuto diventare un artista e poi un cartoonist. Mio fratello ed io siamo delle buone persone grazie ai grandi insegnamenti di mio padre e grazie al suo amore smisurato…naturalmente anche grazie alla mamma! (ride).

Come definisci il tuo lavoro in tre aggettivi da quando hai iniziato ad oggi?

Wow, sono trent’anni… ho un po’ di tempo??? Nei primi vent’anni: veloce, attento, sopravvivente. Negli ultimi dieci invece ho semplicemente imparato come imparare. Dai miei errori del passato, dai miei successi e c’è ancora così tanto da imparare. Se penso di non aver più niente da imparare penso che sia finita è come per i musicisti: più pratica fai più cresci.
In tre aggettivi oggi? Pieno di pensieri, medio… figo.
Mio padre poi mi ha sempre detto che se anche penso di essere bravo è meglio non dirlo, perché significa che sono quasi arrivato, che non ho più niente da imparare e che mi manca quella modestia per andare avanti. Per questo ha sempre consigliato di dire e pensare che sono nella media, in un livello “giusto”, così da non cadere anche nella trappola dell’ego e finiva dicendomi “Ricorda che ci sarà sempre uno più forte, più in gamba e bravo di te”.

Cosa pensi quando finisci un tuo lavoro e lo consegni?

Pwee… un’altra fatta!!! È un lavoro davvero molto duro, fatto di lunghe ore di concentrazione, meticolosità, attenzione. Difficilmente si fa questo mestiere per anni e infatti molti nel mio ambiente preferiscono farlo per un periodo, guadagnando molto così da godersi il frutto di tanta fatica. Altri diventano pieni di sé e si lanciano in progetti assurdi. Molti, semplicemente impazziscono! (ride).

Agli inizi gli eroi si scontravano con super criminali lontani dalla nostra realtà l’unico problema era sconfiggere un nemico con un costume colorato e dei super poteri. Poi è arrivata la droga, l’alcolismo, la prostituzione, le guerre e gli eroi hanno cambiato il loro sguardo. Cosa è successo?

Eccellente domanda. Stan Lee è stato tra i primi a bilanciare fantasia e realtà e credo che la risposta sia proprio qui, in questa capacità. Questa è la vera ricchezza di un fumetto.
Molti preferiscono creare scenari fantascientifici, lontani dal reale, allontanando troppo il lettore dalla storia perché manca un legame concreto. Altri hanno invece hanno realizzato personaggi molto drammatici che però, non hanno più permesso di far godere l’aspetto fantastico del comics.
Spider man ha molto successo per questa sua dimensione equilibrata: Peter è un ragazzo qualsiasi, un newyorkese che tutti i giorni fa i conti con i problemi più umani, ritrovandosi però poi a fronteggiare minacce sensazionali.
Un nome, secondo me, che è riuscito a coniugare fantasia e realtà in maniera stupefacente, è Neil Gaiman.

Ma chi è oggi il nemico? E in un certo senso anche il “nostro” nemico?

I cattivi sono una rappresentazione ingigantita, ma neanche tanto, della corruzione umana. Kingpin ne è l’esempio calzante: avido, infido, crudele, vuole soltanto possedere e dominare. I problemi reali vengono spesso calati nei personaggi dei fumetti: ad esempio l’antisemitismo che subiva da ragazzo Stan Lee, sono stati riportati ne Gli Incredibili X-Men. Mutanti, emarginati, diversi che decidono comunque di proteggere gli umani.
Ecco, tutto viene riversato nelle storie per poter essere anche affrontato, denunciato in un certo modo, reso comprensibile anche dai più giovani.

L’uomo ragno nasce dalla frase “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”… quali sono i tuoi poteri e la tua responsabilità.

Il mio potere? Avere pazienza. La mia responsabilità? Avere più pazienza.

Chi senti più vicino tra Peter Parker e l’Uomo Ragno?

Ogni padre, ogni figlio, ogni famiglia è un supereroe. Anche io ho una doppia vita: sul lavoro sono come Peter, alla presa con i problemi quotidiani, ma è con la mia famiglia che divento Spider man e uso i miei poteri per proteggerli, sostenerli.

Spider man è famoso per le sue battute, per l’umorismo che scaglia contro i nemici durante i combattimenti: quanta ironia c’è nella tua vita?

L’ironia la ritrovo nella mia insicurezza che fa capolino nella mia vita, nella mia carriera. Ci sono stati momenti e ci sono tutt’ora dei momenti in cui sono stato colto da questo sentimento. Una cosa di cui non ho parlato mai con mio padre perché si sarebbe arrabbiato da morire come fa la moglie quando capita. Non è un retaggio paterno, ma semplicemente a volte mi sento così e lo trovo ironico visto quello che faccio.

Qual è l’abilità di Spider man che potrebbe aiutarti nel lavoro?

Oh! Sicuro la velocità!

Il personaggio più complicato che ti sei trovato a disegnare?

Spider man. Pensa soltanto a tutte le ragnatele sul costume… Scherzi a parte. È un eroe con il volto coperto da una maschera eppure ha una serie infinita di espressioni da comunicare… ecco questa è ironia!

Qual è l’incarnazione di Spider man che preferisci?

Il classico, senza dubbio. Per me l’originale è quello che dovrebbe essere.

Hai mai vissuto o rivissuto un tuo dolore, un tuo problema con i personaggi che disegni?

Sì. Con Iron Man. Tony Stark è un alcolizzato ed io avevo due amici molto cari che soffrivano di questo problema. Uno di loro si è ucciso, con mio grande dolore. L’altro ne è uscito definitivamente. Ecco, in questo caso ho di nuovo vissuto quella situazione, mi sono tornati in mente tutti i momenti difficili. E sono riuscito ad addentrarmi di più nel personaggio che disegnavo
Con Peter Parker invece ho vissuto il problema della crescita, anche se da ragazzo non ho vissuto l’emarginazione del nerd, dell’immaturo, perché comunque disegnavo ed ero interessante. Però da adulto quando mi sono trovato di fronte a grandi uomini, mi sono sentito un po’ immaturo, insicuro. Come Peter.

Tu hai disegnato oltre a Spider: Thor, Cable, Iron Man, Devil, The Punisher. A quali ti senti più legato?

Mi piace molto Daredevil, ma adoro disegnare The Punisher… anche perché molti miei parenti sono simili a The Punisher. (ride)

Hai disegnato anche World War Hulk. Hulk è rabbia, cos’è per te la rabbia?

Nel mio lavoro è la voglia di fare, di farcela. Con la mia famiglia è prendersi cura di loro e non farli mai essere arrabbiati.

500 numeri in Italia, festeggiati con questo volume. Il futuro di Peter?

Negli Stati Uniti, Peter dovrà decidere tra la vita di zia May e la cancellazione di ogni ricordo con Mary Jane Watson a causa del demone Mephisto. Qui torna il discorso dell’equilibrio, perché ci deve essere un bilanciamento tra chi era Spider man all’inizio e chi è diventato. Dal matrimonio con M.J. c’è stato un allontanamento dalle difficoltà esistenziali di Peter e questo lo aveva distanziato anche dal lettore “sfigato” che si riconosceva nel Parker degli esordi e non in quello sposato con una top model meravigliosa. Per ri-bilanciare si è pensato a questo, a questa nuova verginità che sarà anche una nuova forza per il tessiragnatele.

Chi sceglieresti per una birra: Thor, Ercole, Hulk, la Cosa o She Hulk?

Niente donne! c’è mia moglie. Assolutamente Ben Grimm… è di Brooklyn, come me!

Alex Pietrogiacomi

Precari all’erta! – Me ne vado da quest’Italia…

Ecco che anche il Ghelli si mette a scrivere di vacanze estive e pettegolezzi annessi, penserete voi, allo stesso modo di tutti i tg nostrani, che soprattutto di questi tempi riempiono mezzo telegiornale di notizie utili solo a non parlare d’altro.

E invece vi sbagliate, perché voglio qui riprendere un’intervista rilasciata da Francesco Bianconi, cantante dei Baustelle, e che rilancia il tema dell’esilio volontario, già cantato nella nota Mamma Roma addio del poeta Remo Remotti.

Quanti di noi non c’avranno pensato almeno una volta a mandare a quel paese il bel paese, che di tanti sforzi sembra non curarsi affatto, che della cultura guarda solo il tornaconto economico e il lato spettacolare, che parla sempre dei soliti noti, che si tratti di cinema, musica o letteratura? Io ci ho pensato tante volte, e a volte ancora ci penso, ma ciò che puntualmente mi fotte è uno sorta di malsana testardaggine che m’impedisce di arrendermi all’idea che questo paese non lo si possa cambiare. A pensarla così c’è da ingoiare tanti bocconi amari, da farsi un fegato grosso come un cocomero insomma, ma non va per questo commesso l’errore di considerarsi dei martiri. In fondo, chi l’ha detto che le persone abbiano bisogno dell’arte, della cultura o del pensiero degli intellettuali per vivere felici e contenti? Spetta semmai agli artisti e agli intellettuali il compito di far sentire questa necessità, e l’unico modo per farlo è il duro lavoro, l’ostinazione di una vita, la voglia di votare il proprio sé all’idea utopistica di una comunità che possa cambiare anche attraverso il proprio fare.

Con questo non voglio dire che la scelta di andarsene via sia in sé più facile o più comoda, ma la trovo una scelta pericolosa per il futuro di chi ci succederà, perché un domani potrebbe sempre peggiorare anche il nuovo posto che avremo trovato, e poi tutti gli altri, finché non ve ne sarà più neanche uno. Quello che penso, e che ritrovo in qualche modo rappresentato dal progetto Scrittori Precari, è che oggi sia necessario più che mai ripensare i modi della partecipazione – a cominciare dalle possibilità che ci offre la rete – e, insieme a questi, i modi di sentirsi riconosciuti.

Io non mi riconosco in quest’Italia di nani e ballerine, di truffatori, di corrotti, di puttanieri, di razzisti, di analfabeti, ma proprio per questo non me ne voglio andare, anche se ci sono tanti posti migliori, oggi, dove poter vivere.

È una forma di rispetto verso chi ci ha preceduto che mi costringe a resistere, a non adeguarmi, ma se un giorno dovessi rendermi conto di parlare al vento, allora quello sarebbe il giorno in cui prenderei le mie cose e me ne andrei.

Oppure no, perché magari ci sarà da ascoltare il pensiero di chi è rimasto, che avrà senz’altro da dire cose più intelligenti del sottoscritto.

Ecco perché vi chiedo di non andarvene.

Simone Ghelli