Impressioni Noir

Un bar fumoso dall’atmosfera grigia come il tono della pellicola.

Alain Delon ordina un whisky al tavolo. Il complice, invece, dice di non bere alcol. A questo punto Delon si gira verso il cameriere e, con aria convinta, dice: «Allora un doppio whisky per me».

Un piccolo gioiello noir di Melville: I senza nome, classe 1970.

Uomini umbratili, apparentemente senza debolezze. Passato scomodo e misterioso. Silenzi, cappotto trench abbottonato e perenne fumo di sigaretta che buca la pellicola. E la storia, una storia fatta di personaggi incomodi, magari un Terzo uomo come il film di Carol Reed. Una storia dove non è oro ciò che luccica, dove non intricarsi nelle sue pieghe, non approfondire per non restare trincerati nelle sue macchinazioni e non farsi travolgere nel suo vortice di segreti e peccati . Leggi il resto dell’articolo

Pubblicità

L’inutilità del genio post-moderno /3

Dati i presupposti, non possiamo dimenticare l’importante affermazione che Giorgio Colli fa in La nascita della filosofia («La follia è la matrice della sapienza») e il fatto che i più straordinari documenti dell’antichità, oltre agli illusori testi filosofici (compromessi interamente con l’intangibile se non col folle) e ai reiterativi saggetti (che ruotavano sempre attorno alle stesse cose e sempre negli stessi termini), sono opere teatrali con personaggi che – per i motivi disparati – commettono quelle che oggi (come ieri, spesso) definiremmo “pazzie”: Edipo, Medea, Antigone, Elettra…

Perché il “gesto insano”, conducendo alla catarsi, è tramite per la divinità: come l’idiozia dostoevskijana, che è insania e vocazione mistica.

Tiriamo di nuovo le fila, altrimenti in questa selva di deduzioni e supposizioni potremmo sperderci, e vediamo cosa abbiamo in mano: unità spazio-temporali in dissolvenza, illusione, irrealtà, morbosità, follia, divinità.

Improvvisamente si crea un nesso, anzi, un’equazione:

letteratura : illusione = follia : divinità

ed ecco che nello sputtanatissimo legame fra letteratura e divinità si evidenzia un percorso che passa per la finzione (la nota “finzione letteraria”) e la follia (la “theia mania” platonica del Fedro). Tutti elementi abbastanza risaputi, ma raramente o mai esaminati nella loro sequenza.

Un nuovo quesito movimenta questo dipanarsi: visto che la letteratura è citazione (dovremmo dire “metafora”) della follia e perciò della divinità, data la letteratura corrente, a cosa s’è ridotta la divinità?

Ci sono dei legami nelle opere di autori lontanissimi e nelle opere – ovviamente – del medesimo autore.

E così: fra il Conte Ugolino e i due poveri amanti Paolo e Francesca c’è il legame del racconto in pianto; fra l’Ofelia di Rimbaud e la Marinella di De André c’è il fiume e l’amore di mezzo con stelle e fiordalisi di contorno; Jonson, il poeta del «Lascia un bacio dentro la coppa e io non ti chiederò vino», s’assomiglia nei modi e in alcuni tratti biografici al Catullo di «Odi et amo»; Zorba e l’Inglese di Kazantzakis altri non sono se non il Dionisio e l’Apollo di Nietzsche.

Lo strutturalismo, se vuol fissare delle Gestalt che si meritino questo nome, deve fare a meno di limiti e compartimenti stagni: la struttura del materiale culturale con cui opera dev’essere leggera e interscambiabile, levigata e pronta a combaciare con ogni cosa.

Quindi, la divinità sottesa (anche se involontariamente… involontariamente per gli autori medesimi, ovviamente) alla letteratura contemporanea non deve avere troppi legami e deve potersi accostare a tutto – esattamente come i personaggi e le situazioni di cui abbiamo parlato qualche riga fa.

I principi e i valori devono farsi trasparenti e volatili. Leggerezza, raccomandava Calvino nelle Lezioni americane.

Ma i principi sono anche la trama: sono spinte su cui si muovono i personaggi. Principi volatili danno personaggi inesistenti e plot cadenti.

Rispondiamo alla nostra domanda: la divinità – motore sotteso e originario delle letteratura – è svanita, o meglio s’è ridotta alla sua effige: la follia.

Ambiguità e ironia

Humbert Humbert, l’Abate Faria, Hannibal Lecter, il Vecchio della Montagna, Eraclito, Omero, Tiresia, Edipo, Buddha, il Mago di Oz, Nero Wolfe, perfino Babbo Natale: tutti questi personaggi (e molti altri affini) recano in sé delle tracce mai soppresse e sempre presenti in certe figure letterarie.

L’Oracolo in Matrix o la figura del profeta nei Libri Sacri o Sherlock Holmes: questi tre i grumi in cui, più che in altri personaggi, si sono mostrate le tendenze della letteratura occidentale.

Onniscienza. Ombra. Onnipotenza.

Tutti i personaggi che ho elencato poco fa hanno tre caratteristiche che manifestano singolarmente o accoppiate o nel complesso: vivono nell’ombra, intesa in senso lato (Holmes, per esempio, si traveste e vive immerso nel fumo o nella nebbia); sono, o sembrano, onniscienti; giocano con la vita e la morte perché sono immortali o perché si sentono tali oltre che onnipotenti.

Lo scrittore non s’è mai liberato di queste tre fascinazioni: il sapere, il vedere e il potere. Perché il sapere è anche potere, ma questa capacità di conoscenza (e dunque di dominio) si esplica meglio laddove gli altri non vedono: lo scrittore, così addentro alle parole, sente anche di poter manipolare come vuole i concetti, quindi la verità medesima, quindi – in ultima istanza – la vita degli altri. Perché gli altri sono ignoranti, perché non vedono, e dunque niente possono più di chi mette loro in bocca le parole di cui si servono come sonnambuli. Questa malattia degli scrittori, io la chiamo “sindrome di Polo”, dal nome del personaggio del Gorgia di Platone: consiste nell’immaginare di controllare tutto e di vivere in una trama solo perché si controlla il linguaggio, e lo spirito degli altri attraverso il controllo sul linguaggio.

Questa tendenza s’è estrinsecata, quantomeno in me, nel patologico citazionismo de Il volo interrotto, nel suo amore per l’ambiguità del dubbio dell’indeterminazione e dell’ombra, nel suo raffigurare omicidi che somigliano più a gesti quotidiani che ad attentati contro tutto ciò a cui siamo stati educati.

Ed è in fondo questo il principio di tutti i libri che si propongono oggi di essere “creativi”: l’omicidio, la conoscenza, l’ambiguità.

La generazione pulp sbandierava e sbandiera la violenza, i moderni giallisti la conoscenza, e tutti gli autori, nessuno escluso, l’ambiguità (che, per loro pochezza, s’è ridotta quasi esclusivamente ad ambiguità sessuale e non è molto di più della parodia di se stessa).

L’ambiguità siede allo stesso tavolo dell’ironia: dov’è finita l’ironia? Nei libri di oggi non ce n’è traccia.

Spostiamo allora la nostra attenzione su questi due ambiti: ambiguità e ironia.

Antonio Romano

Delia Murena

Delia Murena (Ad est dell’Equatore, 2010)

 

di Michele Vaccari

 

Dov’è finito Giorgio? L’amico di sempre sembra essersi eclissato nel nulla di questa Torino, che fa da sfondo a tutte le giornate spese insieme. Giorgio, dove sei?

È normale che ogni tanto sparisca, ne ha bisogno, deve respirare libero i propri pensieri, ma stavolta dove ti sei cacciato?

Lionel, l’amico sedicenne di Giorgio, l’amico sedicenne di cui la madre di Giorgio si è invaghita da tempo, dire innamorata sarebbe troppo, perché l’amore è roba che rimane mentre l’innamoramento è l’illusione, e nel caso di questa donna c’è soltanto questo, si sta arrovellando il cervello per darsi una risposta.

Poi lui arriva come sempre e si ricomincia il giro di vite con la madre di Giorgio che non si arrende, che ha molte frecce nel suo arco e una di queste è che lei è Delia Murena, attrice di commedie all’italiana erotiche degli anni ’70 e non solo di quelle, una femmina su cui si sono posati gli occhi di tutti, anche dei compagni di Lionel e anche lo sguardo di Giorgio stesso, (che però incoraggia il suo amico, perché sa che il sentimento che Delia prova per lui è ben diverso da quello che prova per il figlio e in questo la scusa, la capisce).

Una donna con un marito amorfo, silenzioso, “morto”, lontana dalle luci della ribalta e abituata a sedurre, si sta accanendo su un sedicenne, sul migliore amico del figlio provandole tutte, usando ogni mezzo necessario per placare la sua brama.

Un giorno però Giorgio sembra sparire davvero e Delia, in preda alla preoccupazione ma in cuor suo con la speranza di poter ottenere l’attenzione di Lionel, si precipita dall’amico del figlio per chiedergli di aiutarla; e da qui il romanzo breve, o meglio, il racconto lungo di Michele Vaccari, diventa un maelstrom di situazioni paradossali, colpi di scena esoterici, citazioni dei B-Anni ’70, qualche accenno di pulp e follia divertente e nera.

Un peccato che Delia Murena sia rimasto un racconto e non si sia sviluppato in un vero e proprio romanzo, perché avrebbe divorato il lettore che rimane dispiaciuto dal fatto che tutto finisca subito.

Un mistero rimane… l’indice che riporta101 pagine e il romanzo che si sviluppa in 71… un enigma numerologico?

Delia Murena è deliziosamente grottesco.

Alex Pietrogiacomi