Le lettere che contraddistinguono i suoni della lingua romena, e che di conseguenza ne affilano la musicalità in senso specifico, in questi testi non hanno subito traslitterazione. A seguire, una breve guida fonetico-esplicativa per la loro lettura corretta: Ă: una -a più gutturale, pronunciata con la parte anteriore della gola, a bocca mezza aperta. Â: una -a gutturale che tende alla -i. Ț: corrisponde ad una -z dura, come in pazzo. Ș: corrisponde al suono -sc, come in sciare.
Buona lettura.
Il primo “Pâh” ovvero Come sono entrato nella nebbia.
di Vasile Ernu
Traduzione Clara Mitola
Il mito racconta che Vasile Ernu sia nato nella soleggiata eroica-città di Odessa della gelida URSS. Ha umorismo a sufficienza e ironia klezmer, una miscuglio ebreo-russo-valacco, tanto da non prendersi troppo sul serio, ma da essere lucido a sufficienza. Gli piacciono i fiori e gli indumenti di canapa, non fuma il calumet della pace tranne che per nobili scopi, quando vuole trovare i significati nascosti della vita. Ammira quelli che sanno buttar fuori anelli di fumo ben controllati e ben ritmati.
Sono stato un bambino con un’educazione assai speciale per i tempi e il luogo in cui sono nato. Sono un prodotto fuori dal comune. Come piace dire al mio amico Astvațautorov, anche lui è uno strano miscuglio, noi eravamo giocattoli dei quali si sa già tutto fin dalla fabbrica. Nonostante alcune “disfunzioni storiche”, siamo comunque stati “giocattoli” abbastanza riusciti, dico ora guardando indietro. I nostri genitori ci volevano in un certo modo, la scuola sovietica, come ogni altra scuola, ci voleva in un altro, e gli amici più grandi della scala del palazzo ci volevano in un altro modo ancora. I miei genitori, che per parte loro avevano una severa educazione protestante con regole chiare e rigorose, mi facevano fare i compiti a ore fisse, andavo in chiesa con un rigore invidiabile, conoscevo le Scritture come soltanto il rabbino all’angolo della strada le conosceva e andavo anche a scuola di musica, poiché così si conviene a un bambino di famiglia protestante. La scuola sovietica aveva anche le sue regole. Aveva qualcosa dell’etica puritana, superata solo dall’etica spartana e dal protestantesimo puritano, sebbene negli anni ’80 fosse in decomposizione. Leggi il resto dell’articolo
C’è una storiella yiddish che fa così: c’è un cardinale che invita un rabbino a cena. Convenevoli, due chiacchiere, ci si siede a tavola. Il piatto forte della serata è un maialetto da latte cotto sulle braci. Il cardinale ne mangia grossi bocconi, il rabbino lo lascia tutto nel piatto. Cosa c’è, non gradisce rabbino?, chiede il cardinale. Vede, risponde il sacerdote ebraico, noi non mangiamo carne di maiale. Abbiamo una regola da seguire. Ed il cardinale: ah, rabbino! non sa cosa si perde, col grasso che gli cola dai lati della bocca.
Superato l’inconveniente, la cena continua. Arriva il momento dei commiati. Il rabbino e la moglie si avvicinano al cardinale, è stata davvero una serata memorabile, dice il rabbino al cardinale, faccia i complimenti alla cuoca, che devo ragionevolmente supporre trattarsi di sua moglie, sarà così indaffarata ai fornelli, forse è per questo che non l’abbiam vista per tutta la sera.
Il cardinale, stupito, arranca balbettante un ma rabbino, io non ho moglie: noi facciamo voto di castità, non possiamo sposarci. Èuna regola che dobbiamo seguire.
Ed il rabbino: ah, cardinale! Non sa cosa si perde.
Poi c’è un’altra storiella cattoromana che invece dice: finalmente, per la prima volta, portano il Papa allo Stadio Olimpico di Roma, si gioca il derby, il Papa prende posto nella tribuna d’onore e saluta col gesto del pantocrator il pubblico, dopodiché chiede al Gran Camerlengo Camerlengo, per chi dovrei tifare, insomma? Ed il Camerlengo gli risponde Santità, io tifo per la Lazio, con quei colori così angelici, il blu del cielo, il bianco della purezza…
Dalla tribuna retrostante il palco d’onore del Papa qualcuno urla Santitààààà, guarda ch’aaa Lazzie vince ogni morte de papa!
E allora il Papa, in piedi: Forza Roma alé!
E poi c’è una terza storiella, l’ultima, parla della Chiesa dell’Unificazione e fa così:
«Sarà stato il 1936, comprenderete se ho le idee confuse, dopotutto ho un’età: ecco, io a sedici anni ho visto Gesù. E sapete che m’ha detto? Tu sei più forte di me. Vediamo cosa sai fare, ti sfido».«A me?»«Sì». «Ah».
Sun Myung di cognome (o di nome, non si capisce mai com’è che funziona, coi coreani) fa Moon, come la luna. Ma vuole mica la luna, lui: vuole di più. Da quel giorno del trentasei, aveva solo sedici anni, quel giorno in cui Gesù gli ha gettato il guanto di sfida, lui non ha fatto altro che perseguire la sua missione: essere il nuovo Messia. (Me? Sì. Ah!).
Perseguitato, picchiato, deportato, s’è costruito una casa di sassi e fango, una casa che ci pioveva dentro ogni volta. La mattina si svegliava all’alba, camminava fino ad un eremo solitario e pregava. Pregava e disegnava, Moon. Ritratti. C’era sempre la luna, in quei ritratti. E la luna aveva la sua faccia.
Moon, per intenderci, sicuro che la storia la sapete, è quello per seguire il quale Monsignor Milingo s’è tolto la tonaca porporata, che dopotutto gli donava pure, e s’è messo in testa di sposarsi con Maria Sung.
Moon, per intenderci, sicuro che questa invece non la sapete, è quello col quale Gianni Agnelli, nell’anno del Giubileo, ha firmato un accordo per la costruzione di uno stabilimento di produzione Fiat in Corea del Nord.
Moon, per intenderci, era uno di quei Presidenti Politicanti Potenti Grandissimi Imprenditori Che Si Credono Il Nuovo Messia.
Secondo Moon, per dire, sarebbe stato compito di Adamo ed Eva generare la protofamiglia: solo che poi le mele, i serpenti, il peccato, la cacciata: troppi fatti tutt’insieme, e nessuno c’ha pensato più, alla famiglia. Isacco che cerca d’ammazzare Giacobbe, Abele che tira le cuoia per mano di Caino, converrete con me che c’è una visione della famiglia un po’ così, dice Moon.
Invece guardate me, continua: io, che sono la rettitudine, mi sposo la bella Hak Ja Han, formiamo la prima vera famiglia originale e diventiamo in un modo o nell’altro padre e madre di tutta l’umanità. Va bene, figlioli?
Il padre, si sa, è quello che porta a casa la pagnotta: poi piglia il figlio da una parte, gli scompiglia i capelli e gli porge il guantone da baseball chiedendo ti va di fare due tiri col tuo vecchio? oppure mostrando il panorama dalla finestra ammicca vedi tutto questo, figlio? un giorno sarà tuo.
Moon è un padre del secondo tipo: possiede giornali, tipo il Washington Times, e poi un hotel a Manhattan, e ancora una fabbrica di auto, la Panda Motors. Una casa di produzione cinematografica che finanzia pellicole belliche con Laurence Olivier, Jacqueline Bisset e Ben Gazzara nel cast.
E poi: una squadra di calcio.
Vedi figliolo? Anche la squadra di calcio, un giorno, sarà tua.
La squadra di calcio del Reverendo Moon è il Seongnam Ilhwa Chunma, e come tutte le squadre dei Presidenti Politicanti Potenti Grandissimi Imprenditori Che Si Credono Il Nuovo Messia miete successi in patria e a livello continentale, un rullo compressore, sette volte campione di Corea negl’ultimi tredici anni, mica uno scherzo.
Come in ogni squadra proprietà di Messia veri o sedicenti tali, ci son giocatori, nel Seongnam, capaci di miracoli.
Il portiere, Jung Sung-Ryong, una volta ha fatto goal direttamente dalla sua area di rigore. Si giocava un Corea del Sud – Costa d’Avorio di dubbio spessore agonistico, s’era sul nulla di fatto, finché il portiere non lancia lunghissimo, la palla fa un rimbalzo, prende velocità, scavalca l’estremo difensore ivoriano e s’insacca: guardatevela, nel video, la faccia stupita del portiere, quello che ha fatto goal, ma pure dell’altro, e poi ditemi se non vi viene da sorridere, o da sbalordirvi.
La stella indiscussa è un centrocampista colombiano, si chiama Mauricio Molina ed è soprannominato Mao, e pure questo è un aspetto decisamente spiazzante: sentire tifosi sudcoreani inneggiare a Mao, poi ditemi se non vi viene da sorridere, o da sbalordirvi.
il Seongnam Ilhwa ha come simbolo un pegaso rosé, animale leggendario della mitologia coreana: giustappunto, il Chunma.
Chunma, che nella lingua del taekwondo si scrive 천마, vuol dire pure carruba, o barbabietola da zucchero, a giudicare dalle foto che scaturiscono guglando.
La forza maschia e la prolificità del cavallo, la leggerezza spirituale simboleggiata dalle ali, l’evidente fallicità della carruba: non sembrano pure a voi elementi puntuali per un’ottimale rappresentazione del Reverendo Moon nella sua personalissima cosmogonia?
Così non fosse, prendetela per quello che è: uno scherzo da preti.
Questo numero della nostra rubrica insiste ancora sul tema dell’uso della psicologia e della pratica spirituale: ognuno è libero di trarre da questa insistenza una sua personale considerazione sulla centralità di queste due branche del mercato nelle nostre esistenze.
Ed è proprio questa centralità che ci impone di scegliere bene, tra le tante offerte, quella migliore, la più adatta, dico, a praticare l’inutilità, ad essere inutili. Queste poche note varranno come un semplice e agile vademecum.
Diffidate gente (questo vale sempre) dalla complessità; la complessità ingolfa l’immaginazione, e quindi fa cultura; e la cultura gonfia, come dice San Paolo: e questo è peccato. E, allora, la prima cosa che dovrete fare nel diventare clienti di uno psicologo o di un maestro spirituale è che la sua dottrina operi innanzitutto su un candido semplificatore appiattimento della vostra compagine esistenziale. Qualcuno vorrebbe farvi cadere in mille lacci; qualcuno vi verrà prima o poi a raccontare che l’anima nessuno può dire che esista, ma nessuno può dire che non faccia per intero tutta la nostra vita. Quale astruseria! È più facile e chiaro dire che l’anima esiste punto e basta (come nella storia del rabbino che incontra un suo collega e gli dice che Dio gli ha parlato; il secondo rabbino non gli crede, gli chiede di dimostraglielo se non vuole passare per mendace. Ma il primo se la cava benone: Dio non parlerebbe mai a un bugiardo). Imponendoci che l’anima esiste punto e basta otteniamo un risultato importante (si chiama concretismo): l’unica domanda successiva possibile è: allora dov’è l’anima? La risposta più semplice che sia stata trovata è: dentro. Tagliare l’anima da dove è sempre stata, fuori, nel mondo (anima mundi) viene comodo alla nostra causa perché riporta tutto al privato, in greco idios, da cui idiota: e voglio vedere qualcuno dirmi che essere idioti e inutili non sia la stessa cosa. A quel punto noi abbiamo l’anima che è una cosa che abbiamo dentro, al buio, chiusa. E al buio, e poi col fatto che siamo idioti, non riusciamo più a distinguerla dallo spirito, non sappiamo vederla differenziata nei sui vari aspetti, nelle sue infinite anime (ci fanno pena i poveri neoplatonici con le loro demonologie).
Allora badate bene che il vostro psicologo o il vostro maestro vi dica che dentro avete qualcosa (spirito, anima, prana, energia, superpoteri) che non si capisce bene cosa sia, ma che, per essere tenuta stantia dentro, e poi dentro un idiota, è malata. E qui dobbiamo passare al secondo punto fondamentale: se uno è malato va curato. Così dobbiamo ragionare.
Una volta se uno era cieco lo mettevano a fare il poeta, tipo Omero, o, fino a sessant’anni fa in Giappone, lo sciamano (lo Stato totalitario nipponico si è efficientemente liberato da questo retrivo retaggio: ora i ciechi fanno i barboni). Uno che è malato va curato. Cosa otteniamo con questo? Che l’uomo, per dire, è all’ottanta per cento fatto di acqua, e il resto sono cattivi pensieri, sogni conturbanti, strane fantasie, ansie, manie, paranoie: ci curiamo, leviamo le ansie e le paranoie, e cosa otteniamo? Diventiamo delle bottiglie d’acqua.
E così la sera torniamo a casa, dopo esserci mondati dai peccati lì dallo psicologo o dal guru, nella nostra casa privata, come degli idioti; ci poggiamo sul nostro tavolino come una bottiglia, e possiamo constatare di essere puri e calmi, anche se questa casa non la pagherò mai, anche se non ho un lavoro fisso, anche se per me non ha un vero senso vivere e non mi fa neanche più effetto che stanno massacrando di botte sotto casa mia degli emigrati.
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