Let. In. 13

[Diventa anche tu uno scrittore inesistente su Scrittori precari: invia i tuoi Let. In., seguendo queste istruzioni, a carlo.sperduti84@gmail.com. I migliori saranno inseriti nelle prossime puntate della rubrica]

Let. In.
Antologia di Letteratura Inesistente a cura di Carlo Sperduti
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REVISIONISMO

Su “Lettera al figlio” di Hermann Kafka

(Applausi)

Eeee… Ed eccoci qui di nuovo… Riprende, dopo il consueto spot dell’Acippe, sponsor nostro e della manifestazione, la diretta radiofonica di Fahrenint dall’oratorio del palazzo vecchio di Pordenone scalo, dove stiamo seguendo le “Ferie del Libro”, da noi stessi sostenute, promosse, ideate, sostenute e quindi seguite nel loro svolgimento in questi giorni. Abbiamo con noi Manolo Scolta, critico e direttore di Orizzontali… Benvenuto, intanto.

Benvenuti anche a voi, agli ascoltatori e al pubblico delle Ferie.

In occasione dell’anniversario della morte di Franz Kafka la nostra rete sta dedicando ampio spazio, all’interno di ogni suo programma, al ricordo di uno dei più importanti scrittori del ’900. Segnaliamo, ad esempio Leggi il resto dell’articolo

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Macchie *

Era l’anno quarto dell’epoca forzista. Il governo della Repubblica Federale, in uno sventolio di verdi tricolori, s’apprestava a perfezionare la Costituzione e a restituire il Parlamento alla sua (consultiva, e ininfluente) natura.

Quella mattina, il giovane Guido Orsini non riusciva a distogliere lo sguardo dallo specchio. C’era qualcosa nei suoi occhi – erano più bianchi ancora del solito, e d’un castano chiarissimo – che lo inquietava. “Santa voglia di vivere, e dolce venere di Rimmel”, borbottò, passando il dorso della mano sulle guance un paio di volte, per sentire quanto pizzicavano. S’avvicinava l’ora della prima colazione.

La grande casa di famiglia ospitava gli ultimi pezzi di un clan che un tempo aveva avuto diversa influenza e altro prestigio; Guido e sua sorella Benedetta erano il ritratto della decadenza dell’ultima generazione della vecchia borghesia intellettuale italiana. Fragili, stravaganti e non estranei ad una discreta (ma fertile) serie di vizi, ciondolavano postlauream, immalinconiti, inseguendo vaghe ambizioni artistiche e sdegnando con arroganza i lavori dell’epoca forzista: né interinali, né stagisti, né niente. Foglie morte distese su una generazione di sepolti vivi.

Guido, sbadigliando, s’accertò che il vecchio padre non fosse nei dintorni; mentre le domestiche preparavano il caffè e rassettavano la cucina, indagò con cura il fondo e i bordi della sua tazzina, temendo fosse sudicia. Che disgusto le posate o i bicchieri o le tazze mezze macchiate – sbreccate sì, è diverso, quella è vita e diversità – ma le macchie, cazzo, proprio no.

“Ada… Ada cara, perdonami. Queste macchioline non mi tornano…”.

“Non fa niente, Guido. Te la cambio subito”.

Versò il caffè in un’altra tazzina. Guido non poté ispezionarla, e rabbrividì mentre dava la prima sorsata. Chissà che non fosse rimasto del detersivo sul fondo. Rapida allucinazione olfattiva, quindi rumore di fondo – il nonno ha acceso la radio. Sigla del notiziario.

Benedetta, intanto, entra in cucina e s’annoda meglio la vestaglia.

“Buongiorno a tutti. Che dormita…”

Cenno del capo alla sorellastra, quindi tutta la mente sul notiziario.

“Il Premier sostiene che la disoccupazione sia ai suoi minimi storici. L’economia registra un nuovo miglioramento – ha ribadito – e chi lo nega è un disfattista e un traditore della patria”.

Guido trattenne un rutto a fatica. Per rispetto del Premier, rinviò ad un momento di intimità. Col Premier.

“Il Premier, oggi in visita agli imprenditori del nord-ovest, presenterà loro una nuova riforma del sistema occupazionale: proporrà loro la legge nota come ‘giusta riconoscenza’ – che prevede che il lavoratore paghi, per i primi 24 mesi, un adeguato dazio al suo datore, pur di poter aggiornare il suo curriculum”.

“Nonno, spegni quella cazzo di radio”.

“Hai dormito male?”

“No, che c’entra. Ho la faccia stanca, sono brutto stamattina. Mi innervosisce molto vedermi così allo specchio”.

La signora Ada sorrise laterale, intenerita; poi continuò a spazzare per terra, senza intervenire nei discorsi di famiglia. La buona vecchia servitù.

“Ah, capito… Hai litigato di nuovo con Floriana?”

“Floriana non la vedo più”.

“Ma va? C’è un’altra?” – in quel momento, abbassò il volume della radio.

“No, basta. Chiuso con le donne”.

“Cioè?”

“Cioè chiuso con le donne. Stufo. Chiuso con il lavoro. Chiuso con tutto. Ho deciso: voglio crepare in salone, tra i divani di pelle e le tende bianche. Guardando quel soffitto alto dieci metri, fin quando non lo buco”.

“Buona scelta. Un po’ di musica e una lettrice al tuo fianco, e…”.

“No, basta letteratura. Mi stucca”.

“Giornataccia, insomma. Succede. Vai al parco, no?”

“A mostrare l’uccello alle nutrie?”

“E vabbè. Oggi ti rode. Fa’ come cazzo ti pare. Dicevo per te. Magari facevi una cosa nuova”.

La signora Ada arrossì e si ritirò nelle camere da letto.

“Non me ne frega niente del parco. Pieno di vecchi e di filippine, a quest’ora. Nessuno di noi, e nessuno dei miei”.

“Fijo mio, nun te va mai bene gnente”.

Guido s’accese una sigaretta.

“Se vede che c’aveva ragione tu’ moje. Me dovevate mannà a scola dai tedeschi, così m’addrizzavano quann’era er momento”.

“Po’ esse… e io che tte devo di’?”.

Il nonno alzò daccapo il volume della radio.

Notiziario: “Il Presidente degli Stati Uniti d’America ha puntualizzato che i nuovi Stati-Canaglia – l’Uzbekistan, il Madagascar e la Siria – dovranno rinunciare immediatamente al loro arsenale nucleare, se non intendono fronteggiare la legittima risposta della comunità internazionale”.

“L’Uzbekistan ha il nucleare, nonno?”

“Come no. Razza bastarda, ‘sti uzbeki”.

Guido e il nonno sorrisero.

“Ada, prepara un altro caffè” – ordinò il vecchio.

Guido uscì in terrazza, e rimase a guardare il traffico fin quando non gli tornò sonno. Bastava contare le macchine, senza alzare gli occhi al cielo. Allora si distese su un divano, in salone, e lasciò scivolare le pantofole a terra; si accovacciò tra due cuscini, e prima d’addormentarsi pensò:

“Dov’è l’Uzbekistan?’”

Tutti i telegiornali ne avrebbero parlato, poche ore dopo. Non doveva preoccuparsi troppo. L’America aveva sempre ragione, l’Italia non aveva dubbi.

Noi italiani, che lavoratori – disse tra sé e sé, cedendo al sonno; un nuovo, timido sorriso increspò le sue guance. Che fatica.

Gianfranco Franchi

* Pubblicato in Disorder (Edizioni Il Foglio)

Gianfranco Franchi sarà ospite di Scrittori precari il 18 marzo 2010 alle ore 21 presso l’Associazione culturale Simposio, in via dei Latini 11/ang. via Ernici, a San Lorenzo (Roma).

La camera oscura

Mi sto svegliando.

Le palpebre ancora incollate e tra i miei occhi e il buio, galleggianti chiazze color muco.

Chiazze informi, che nell’aprirsi lento degli occhi si dissolvono sulla parete a cui mi ritrovo appiccicato.

Sento bagnaticcio tra le gambe, la mamma me l’aveva detto di starci attento ai sogni sporchi.

Mi devo alzare. Il letto è incastrato in un angolo della stanza e adesso pure io con lui.

Mi alzo e osservo l’impronta del corpo impressa calda sul materasso.

All’altro lato della stanza c’è una scrivania.

Appese al muro, penzolano storte alcune fotografie.

In quella più a destra ci sei Tu. Sei in sella ad un cavallo al pascolo, probabilmente nel giardino della villa.

La osservo. Il tuo sguardo non è sereno; eppure sono sicuro che in quella foto, qualche giorno fa, Tu sorridessi e sono altrettanto convinto che il cavallo fosse leggermente più sulla destra, circa all’altezza della quercia e il suo muso fosse puntato in mia direzione.

Un caffè già zuccherato aspetta caldo nella tazza color crema sul comodino, due brioches, appoggiate su un piatto in tinta con la tazzina, una è già smangiucchiata; un’altra tazza è sulla scrivania, già svuotata, già fredda.

Non filtra luce dalle imposte, filtrano solo i suoni e gli odori dal giardino.

Sulla scrivania è appoggiata la lettera che sto tentando di scriverti; anche durante questa notte è avanzata di qualche altra riga, brevi tracce dei sogni di stanotte, che però adesso non ricordo.

E’ la lettera che se li ricorda per me.

E quando al tuo ritorno la troverai, ne sarai felice.

Io lo so bene quanto ti piaccia trovare le mie lettere.

Una volta presa dalla cassetta, già ti vedo correre sul letto e poi a gambe incrociate con la schiena appoggiata alle parete le apri e ti immergi nelle mie tante tante righe, come se il mondo al di fuori di questa camera non esistesse.

Ti ho sempre immaginato tanto felice e talmente impressionata dalla bellezza delle mie lettere. Talmente emozionata al punto di non trovare mai le parole giuste per rispondermi.

Una mappa geografica dell’Europa è appesa vicino la finestra, mi ricorda quella che c’era nella nostra classe, quando eravamo vicini di banco.

Questa ha tante puntine che segnano altrettante località,

Puntine dello stesso color giallo, ma c’è ne è una nuova, color malva.

Devo essermi distratto, ma non ricordo quando tu sia andata a Malta.

Ricordo ogni tua partenza e ogni tuo ritorno almeno fino al viaggio di nozze.

Circa ogni ora bussano alla porta, io non rispondo mai; in fondo non è camera mia e non è educato, poi da sotto l’uscio sfilano foglietti tutti uguali; 10 x 15 circa, scritti a penna o matita o pennarello. Li raccolgo, neanche li leggo: non sono per me, saranno di qualcuno che è venuto a disturbarti. Allora li accartoccio e li butto nel cestino: stasera sarà poi colmo raso.

Così era pieno ieri sera. Eccolo li nell’angolo; stamattina è lì vuoto e sotto l’uscio compare il primo messaggio.

Non filtra alcun raggio di sole dalle persiane, ma fuori sento vociare di gente; i tuoi fratelli che giocano nella piscina.

Chissà se nel prato del giardino passeggia il cavallo della foto; deve esserci da qualche parte, di sicuro non nella posizione della foto, ma per forza deve esserci; tu dove potresti essere altrimenti?

Sicuramente non li

Quella quercia non ti era mai piaciuta poi. Ricordo il giorno che sono venuto per la prima volta a trovarti: stavamo giocando proprio attorno a quel bellissimo albero si è messo improvvisamente a piovere e io mi sono avvicinato a te.

Mi hai detto che sarebbe stato meglio tornare verso la casa, perchè ti faceva paura, la quercia.

Accendo la radio, c’è la nostra canzone, quella bella, canzone melodiosa che ti dedicavo tuti i pomeriggi alla radio.

Te la ricordi bene quella bella, dolce canzone?

Io ricordo bene di averti visto ballarla la sera del matrimonio.

La nostra canzone.

Da quel giorno l’ascolto ininterrottamente, forse è colpa sua se poi faccio quelle cose brutte con le mani.

Non deve essere passato tanto tempo da quel giorno a giudicare dalla rosa con il bigliettino che è ancora nel vaso sul davanzale.

Non è una di quelle che ti ho regalato io, ma mi fa piacere immaginarlo; quelle saranno già morte e pure questa,oramai sta per fare la stessa fine.

Ma è dietro la finestra, che è chiusa e non riesco ad aprire per poterla innaffiare quella povera rosa.

Sopra la finestra l’orologio segna sempre la stessa ora: le undici.

Ma non è fermo, lo so.

Ti spiego: il ticchettìo lo sento chiaro, anche troppo e lo so bene che le lancette si muovono, ma quando lo osservo segna sempre la stessa ora. Forse nella lettera te l’ho anche raccontato; resta fermo, ma secondo me lo fa più per l’impossibilità di tornare indietro che per quella di andare avanti.

Non riesco a spiegartelo.

Lo so, non sono mai stato bravo a farmi capire; soprattutto da te.

Ma le ore passano, lo vedo benissimo: non mi può fregare così e io ti aspetto; mi piace aspettarti, seduto qui sul bordo del letto.

So che tra poco squillerà quel telefono, facendo cadere i fogli che ci sono sopra e che si spargeranno per la stanza.

Ecco è adesso che le pareti cominciano a cambiare colore.

No, te l’assicuro: non è che cambia la luce perché apro le persiane, quelle restano sempre chiuse.

E’ come se dai bordi del soffitto calasse un altro colore a coprire il giallo per poi virarle al rosso,

Il giallo che a te non piaceva,

E quando hanno cambiato del tutto colore è proprio in quel momento che suona il telefono e se chiudo gli occhi e li riapro il pavimento è pieno di foto, foglietti appunti, biancheria sparsa.

Devo mettere in ordine prima che tu torni, mi spiacerebbe che mi trovassi qui con la camera in questo stato.

Anche la mamma me lo dice sempre: non fare cose brutte e tieni tutte le cose a posto. Io, lo sai, ubbidisco sempre alla mia mamma.

Sul comodino ho appoggiato il martello, ci ho provato a mettere meglio il chiodo per raddrizzare la cornice, per fartela trovare più bella quando sarai tornata.

Ma poi suona il telefono e io mi distraggo, sbaglio e lo sai: io ci sto male quando sbaglio e allora comincio a colpire il materasso ed ecco le lenzuola prendere il colore del sangue, quel colore che immagino ogni tanto lasciassi come traccia; come nelle tue mutandine che ancora conservo.

E quel colore si sparge, è una macchia che avanza veloce dal cuscino fino ai piedi del letto, ma meno male non cade per terra, non saprei proprio come pulire.

Poi a poco a poco il sangue si raccoglie nell’incavo dell’impronta fino a sparire.

E la foto è sempre li, un po’ storta, e forse è questo che fa cambiare il tuo sguardo.

La raddrizzo.

Tu però continui a non sorridere; forse è per colpa di tutto questo sangue?

Ora ricordo: il sangue ti infastidiva, ti rendeva nervosa. Anche quella volta che sono venuto a trovarti e mi ero appena fatto di corsa la barba ed ero pieno di taglietti; tu non volevi baciarmi o come quando entrai quel pomeriggio che eri malata nella tua stanza. Era bella la tua stanza, tutta rossa e la tua camicia da notte color crema era bellissima, tranne quella macchia li in mezzo.

Neanche il colore della stanza ti piaceva.

Mi dicesti che quando ti saresti sposata l’avresti tinta tutta di bianco, quel rosso ti imprigionava, ti sentivi come impressionata su una fotografia

Dicesti esattamente quella parola, “IM PRES SIO NA TA” calcando le sillabe.

E mentre guardavi fuori dalla finestra, ti immaginavo seduta e triste con la tua bella camicia da notte, rinchiusa in una gabbia tutta rossa mentre arrivavo su quel bel cavallo a salvarti.

Te l’ho scritto in una lettera, quella che ho ritrovato in giardino e che probabilmente qualcuno aveva voluto accartocciare e buttare via: mi piaceva la tua camicia da notte.

Dopo il matrimonio sei andata via; quando sei tornata ti sono venuto a trovare.

Volevo fare l’amore con te quel giorno, mentre i tuoi fratellini facevano il bagno nella piscina e potevamo approfittare di quel momento, ma tu corresti via dicendo che ti era parso che uno di loro si fosse spaventato.

O forse è perchè con le mani stavo facendo quelle cose brutte?

La mamma mi aveva avvisato di starci attento.

E allora decisi di scriverti.

Giurai di non smettere mai, perchè così avrei usato le mani per fare delle cose intelligenti e non avrei fatto le cose brutte.

Il sangue si è oramai ritirato, sul materasso resta sempre quell’impronta.

Guardo la foto davanti a me. Non sorridi proprio per nulla ma il cavallo sembra essersi mosso di nuovo, sono sicuro che stesse guardando verso di me.

E’ tardi e tu ancora non sei arrivata.

Bussano ancora , raccolgo il messaggio: è l’ultimo: lo so perché è scritto con un pennarello, di quelli grossi, indelebili di un fastidioso e tanto doloroso inchiostro color verde.

E’ successo qualcosa? Perchè non rispondi al telefono?”

lo butto nel cestino, adesso è colmo.

Fuori è diventato sicuramente buio, nessuna voce dal giardino e il cavallo sarà tornato nella sua stalla.

Sono tanto stanco, torno a dormire.

Mi rimetto a letto, e mi incastro comodo nell’impronta.

Spengo la luce e tutto ritorna nero.

Sento freddo, mi copro con queste coperte di un rassicurante avvolgente color giallo muco.

Quando mi sveglierò, la lettera sarà finita, tu sarai tornata e tutto tornerà come prima.

Prometto che stanotte le cose brutte non le farò, anche se mi piace tanto la tua camicia da notte macchiata; la mamma sarà contenta, anche tu e allora mi sorriderai.

La mamma però non conosce il nostro segreto; lei non lo saprà mai che ho conservato i tuoi denti e mentre ti abbraccio, li stringo in mano sotto il cuscino.

Jacopo Ninni

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 15

[continua da qui]

Della serata milanese non si parlò da nessuna parte, niente di niente, neanche un poco di cicaleccio per strada o fuori dei bar. Non ne parlarono i giornali, tacquero le radio, non si videro le televisioni. Insomma, della missione dei cinque nessuno doveva saperne niente; quanto alla loro arte è ormai chiaro che importava ben poco alla pubblica opinione, ad eccezione di qualche curioso, a dire il vero pochi, che passarono ad ascoltarli nell’ora dell’abbondante aperitivo.

Si narra infatti che la performance venne snobbata dai più, soprattutto dai pezzi grossi del settore editoriale, quelli che i nostri speravano di veder comparire col contratto alla mano, e forse fu proprio questa la scintilla che accese una miccia già pronta da tempo. Essi blaterarono le loro parole nel bel mezzo della caciara, nell’andirivieni di consumatori insensibili a quel loro verbo trascinato per mezza penisola, tra astanti ben più interessati al ventaglio di tartine colorate, pizzette, salumi e formaggi. Insomma, i nostri eroi, proprio sul più bello, capitarono in una serata ricca di un pubblico ben più interessato ai contenuti dello stomaco che a quelli dell’anima – sempre che gli scribacchini fossero davvero in grado di arrivare tanto in là con il loro lavoro.

Certo, è indubbio ch’essi fecero orecchio da mercante, ché insomma portarono fino in fondo il loro bel compitino e poi andarono a mescolarsi con la folla che usava le ganasce più per alimentare i succhi gastrici che i versi poetici. Cercarono di unirsi a qualche gruppetto ben indirizzato, appizzarono le orecchie per carpire qualche aggancio su cui tuffarsi in doppio carpiato, ma alla fine rimediarono soltanto un po’ di spumante per via di un compleanno che lì si festeggiava, e al quale si mormora che vennero invitati più che altro per curiosità. Quella gente voleva sapere che ci fossero venuti a fare quegl’individui fino a Milano, perché non ci credevano affatto che tutto quell’ambaradam fosse stato scatenato soltanto per via dell’amore per la letteratura.

“Ma dai”, insistevano, “ci sarà qualcos’altro sotto!”.

Eccolo lì, il pubblico sempre tanto bistrattato, dipinto come ignorante e carogna, che aveva afferrato in men che non si dica il nocciolo della questione: se la letteratura non ha mai cambiato il mondo, perché tanti sacrifici nel nome della letteratura?

Forse che quel pubblico era un poco facilitato dalla conoscenza del fatidico quinto elemento, che nella capitale ambrosiana aveva vissuto diversi anni, e che a detta di alcuni testimoni non verbalizzati – nelle questioni di terrorismo si sa, come in quelle di mafia, la gente ha paura a prendere la parola – si trovava in città già da due giorni, per preparare il grande evento?

Ma adesso mi chiedo, e vi chiedo: se la serata fu un buco nell’acqua, almeno per quanto riguarda l’attenzione mediatica, che cosa era venuto a preparare davvero questo losco personaggio?

Non era l’evento mondano e letterario il vero scopo di quell’incursione nelle strade un po’ annebbiate di Milano, ormai dovrebbe esser chiaro, bensì l’aggressione nei confronti del nostro Presidente, seppur solo verbale, ma questo non lo potremo mai sapere, visto che i cinque furono bloccati prima che potessero sviluppare la loro azione in qualsiasi altra direzione.

Simone Ghelli

Marzo

La mattina mi alzo che è ancora notte, ho messo la sveglia sul cellulare, una musica che ho registrato al mio paese quando sono tornato l’anno scorso. E’ una musica molto bella e veloce che mi fa svegliare pensando che sto duemila chilometri più ad est e poi subito sopra, come se tra me e casa mia ci fosse solo un lunghissimo corridoio.

Dove abito adesso non ho il corridoio: per entrare in una stanza devi passare per un’altra stanza e così via. Anche per andare nella cucina devi passare prima per il cesso e per andare al cesso devi passare per la stanza di Tonja.

Tonja esce anche lei presto di mattina, Tonja è arrivata da due mesi e i primi tempi non aveva capito dell’organizzazione di casa nostra, era uscita e aveva chiuso la stanza a chiave e io e Vladi siamo rimasti nella stanza di fondo e non potevamo uscire, né mangiare, né bere e manco andare al cesso. Vladi doveva far pipì, allora si è affacciato al balcone e ha controllato che non ci fosse nessuno nel vicolo dove stanno le altalene e ha pisciato attaccato alla pianta di bamboo. L’ha fatto con una certa naturalezza, pareva stesse  valutando le possibilità di ripresa della pianta, che la stesse innaffiando che sicuramente ne aveva bisogno, era tutta gialla e raggrinzita nello stelo come il collo di una vecchia, e poi comunque ero contento che pisciasse sopra le altalene, speravo anche che qualche goccia della sua urina finisse in capa ai bambini che giocano a pallone e non ci fanno dormire quando rientriamo il pomeriggio.

Quando Tonja è tornata le abbiamo spiegato a voce forte che non doveva più permettersi e ci aspettavamo che lei piangesse, ci aspettavamo che lei si chiudesse in camera, ci aspettavamo che lei ci mandasse a fanculo ma lei ci ha risposto aprendo le mani e mostrando la chiave come fosse una caramella o un gioco di quelli che fai da bambino. Ci ha detto che a questo punto ce la restituiva, che tanto non sentiva nemmeno di poterla chiamare con l’aggettivo possessivo la stanza dove dormiva, che si vedeva che era una sala da pranzo, ci stavano i piatti appesi vicino alle mura.

Sui piatti appesi vicino alle mura ci sono disegnati pezzi del paese in cui siamo adesso, tutti scheggiati dalle lame dei coltelli, e mi sembra una cosa molto significativa: noi davvero di questo posto ci mangiamo, nelle campagne che ci stanno dipinte noi raccogliamo i broccoli e la rucola sotto a certi capannoni. Il lavoro che faccio io si chiama lavorare dentro ai frigoriferi. L’ho tradotto nella mia lingua per spiegarlo a mia madre quando ho chiamato la settimana scorsa, l’ho tradotto parola per parola e mia madre deve avermi immaginato con un camice bianco tipo ingegnere, deve aver pensato che adesso possiedo i segreti della refrigerazione, che ho gli occhialini leggeri o qualche mascherina, che ho i capelli tagliati a spazzola e io gliel’ho lasciato pensare, non c’era alcun bisogno di dirle che di chimico là dove sto io sono solo pesticidi e freddo.

Mi ha detto il padrone che ad aprile faremo le fragole, forse anche prima di aprile se il tempo si mantiene buono. La gente è solo pigra, ma mica è scema, crede alle fragole solo quando il sole dà conferma, dice. Io non ci crederei comunque ma al padrone non l’ho detto, lui mi guardava e ripeteva fragole come se fosse qualcosa che io non avevo mai sentito o mai visto o mai mangiato.

Tonja fa un altro lavoro che non ho capito bene. Certe volte deve solo attraversare il vico e salire due piani. Quando torno da lavoro riesco anche a vederla, se mi alzo sulle punte arrivato all’ultimo scalino delle scale. Vedo sempre che non fa niente, sta seduta vicino al tavolo e davanti a lei sta un vecchio. Il vecchio ha tutti i capelli bianchi, lunghi dietro le orecchie, e non dice niente. Sentono insieme una radio in cui si parla solo e non ci sono mai canzoni; a parlare è una donna, lo fa con un tono monocorde che a me farebbe dormire. Anche Tonja e il vecchio sembrano dormire. Per questo motivo non farei mai il suo lavoro, perchè quando lei torna a casa sembra sempre più stanca di me anche se io ho alzato venti chili di frutta e verdura e c’ho le mani rosse dal gelo e lei è stata seduta davanti ad una tavola. Poi mi metto sul letto, sento la schiena che mi fa male troppo che non riesco manco a girarmi e allora vorrei andare nella stanza di Tonja e chiederle di fare cambio.

Anche a lavoro da me si sente la radio e molta musica, ma è una lingua che non conosco, non ha niente a che fare con l’italiano che so io, non somiglia alle canzoni che sentivo da bambino. E’ una conversazione veloce, che mi esclude, che mi fa il vuoto intorno, le parole sono come olio nell’acqua della mia grammatica base. Pagherei per sentire una voce che conosco, a lavoro. L’ho detto a Vladi e Vladi mi ha detto che è un grosso sbaglio e che è questa la cosa a cui bisogna fare più attenzione: quando sei tanto lontano da casa e senti parlare la tua lingua gioisci, senza chiederti se chi ha parlato è un amico o un nemico. Io faccio sì con la testa, ma penso che Vladi sia un po’ stronzo, o anche scemo. O solo infelice. Io, se dovessi sentir parlare il dialetto di me bambino, non potrei fare a meno di voltarmi e sorridere.

Vladi ha questo modo di fare simmetrico puntuale razionale che si estende alle pieghe dei suoi pantaloni, alte un paio di centimetri sulle caviglie. Appena arrivati qui ci hanno messi insieme e allora venne vicino a parlarmi, mi disse che adesso dovevamo fare un patto. Voleva sapere di potersi fidare di me e me lo chiese proprio, con parole semplici e finite. Era un discorso preparato ma sentito, un discorso che uno può sentir poche volte nella vita, se è fortunato. Perchè non accade spesso che le persone vengano a chiederti se sei d’accordo e cosa ne pensi di una situazione che non si è ancora verificata. Vladi invece venne a parteciparmi delle sue impressioni su di me e delle sue intenzioni circa il rapporto che avremmo dovuto avere. La cosa mi lasciò piuttosto stranito ma apprezzai che non avesse giocato d’astuzia come fanno tutti, che ti girano intorno e lasciano che il tempo faccia il resto che, come dice il padrone, la gente è solo pigra, ma mica è scema. Non si trattava di bisogno di sicurezza, come avevo pensato all’inizio, o meglio, non solo. Vladi mi spiegò tutto la notte appresso. Mi spiegò che la sua era anche una dichiarazione. Che aveva bisogno di tener fede ad un impegno, di non lasciarsi andare adesso che stava lontano da casa, anche di ricordarsi i verbi base della sua lingua che è anche la mia tranne che per certe inflessioni date dai molti chilometri di distanza tra le località dove siamo nati, dove siamo cresciuti, correndo dietro alle galline nel cortile.

L’impegno non era assai, si trattava di parlare e basta. Anche di abbracciarlo, ma poche volte, siamo due ragazzi sì, ma siamo pur sempre uomini. Tonja non ha messo in discussione il nostro rapporto: Vladi continua a parlarmi anche dopo esser passato dalla sua camera. Io un poco ci soffro, sento che ci sono parti del suo affetto che non posso conoscere; a me non è dato capire le sue mani se non nelle strette energiche che fa certe mattine che sono bloccato con la schiena. A me non è dato sapere se è dolce con le donne o se non lo è. A me non è dato quasi nulla, penso mentre lavoro e lavo i broccoli. Poi la sera lui si siede ai piedi del mio letto e mi parla di tutta una serie di cose a cui devo stare attento, mi dice quello che ha visto la mattina, quello che ha sognato il pomeriggio, ed io credo mi basti, come se non ci fosse alcuna altra possibilità a parte quella di starlo a sentire nel buio. Di questa possibilità non avverto le limitazioni, è una costante onnicomprensiva: la lingua sua è tutt’uno con il nero e con il resto dei colori che quando spengo la luce non si vedono più.

La mattina mi alzo che è ancora notte. Il cellulare mio suona forte e la signora che abita affianco a noi bussa contro il muro, insieme a me si sveglia anche lei e un po’ mi dispiace, ci penso per le due ore che vengono appresso, penso a lei come fosse mia madre, stanca e con le gambe pesanti e io che l’ho svegliata alle quattro come se sapere di farla saltare nel letto mi levasse qualche parte di fatica. Mi propongo sempre di abbassare la suoneria della sveglia o anche di cambiarla, oppure di concentrarmi forte in modo da potermi svegliare da solo senza il bisogno di un allarme, ma la sera sono troppo stanco per ricordarmelo.

Dal balcone il pomeriggio vedo una ragazza: sta seduta al computer o vicino ai libri e penso che deve averci una vita molto semplice che vorrei fare cambio. Quando i bambini giocano a pallone lei si alza e grida forte in italiano che le loro madri sono delle cesse. La prima volta che l’ho sentita io volevo sorridere e dire che ero d’accordo, allora ho alzato la persiana ma lei se ne è accorta ed ha chiuso le tende; io l’ho capito e non alzo più la persiana, la spio dai buchetti pieni di polvere, ci ho passato un fazzoletto scottex per vederla meglio. La ragazza ogni tanto piange. Sta là, ferma, con la testa su certi libri alti,  pare andare tutto bene, parla pure al telefono, e poi piange. Allora io non la invidio più e vorrei fare qualche cosa, darle pure una carezza in testa come quelle che Vladi fa a Tonja, fatta senza capire il perchè in lingua parlata, con un significato che sta tutto sotto le unghie. I miei polpastrelli sono ruvidi, tagliati nel mezzo come se avessi suonato la chitarra e invece io ho colto i broccoli. I broccoli quando escono a marzo hanno steli affilati che bucano la terra fredda come fossero coltelli.  Allora vorrei poterle dire qualche cosa, magari le dico le cose che Vladi dice a me la sera, gli sbagli e le cose a cui bisogna fare attenzione, ma non sono sicuro nemmeno della traduzione in italiano.

Magari le porto le fragole, però quando escono quelle buone, magari anche lei è come il resto della gente, pigra sì, ma mica scema.

Raffaella R. Ferré

Il trasloco

E adesso?, mi chiede, dove vai, cosa pensi di fare, adesso?

Io gli sto seduto di fronte e ascolto la sua voce profonda. Mi è sempre piaciuta anche da bambino la voce di mio padre. Una volta, mi ricordo, una volta era in camera mia la sera, che mi leggeva una storia per farmi dormire. Mi leggeva una storia, che raccontava di un ragazzino con i capelli ramati, che era arrivato sulla terra per scoprire come vivono gli umani, e poi si affezionava ad una ragazzina e decideva di vivere qui, e faceva alleare il mondo nostro con il mondo suo, e vissero tutti felici e contenti. Mi ricordo che stavo a letto e lo ascoltavo, e mentre lo ascoltavo sentivo la testa che mi vibrava sotto i bassi della sua voce, e mi piaceva e l’avrei ascoltato per ore. Adesso, invece, non lo guardo nemmeno negli occhi. Anche la sua voce mi sembra diversa. Non ha più quel modo fermo che ricordavo. Sembra come che quella tonalità bassa, nasconda qualcosa che non va: insicurezza, domande. Allora io non lo guardo e sto seduto, e mi scortico le dita con la bocca, mentre tengo gli occhi fissi sulle scarpe di mia madre che sta in piedi davanti alla finestra e non dice una parola.

Il giorno che vinsi la borsa di dottorato ero a casa della mia ragazza, di Marta, e fu proprio lei a dirmelo. Io ero in cucina che facevo il caffè, quando la sentii urlare come una pazza e ridere in maniera isterica.

Sarà uscito un nuovo video degli Eels, pensai, conoscendo il suo innamoramento per Mark Oliver Everett, invece mi sbagliavo.

Mi accorsi che mi sbagliavo, quando la vidi arrivare in cucina saltellando con il portatile in mano. Quando lasciò il portatile con la pagina dell’università aperta, e quando mi mise le braccia al collo e mi diede un lungo bacio a stampo sulle labbra.

Marco, adesso che pensi di fare, Marco?, mi dice mio padre, adesso che torni a casa, che pensi di fare?

Io continuo a fissare le scarpe verdi di mia madre, e guardo i suoi passi attorno per la stanza. Sul tavolo, le tazzine sporche di caffè hanno lo zucchero indurito dentro. Penso che le lascerò nel lavandino senza lavarle, tanto, mi dico, tanto poi chissenefrega. Mio padre continua a chiedermi cose sul mio futuro a cui non so rispondere. Forse potrei dirgli che cercherò un posto da commesso nel nuovo centro commerciale vicino a casa, magari nel Trony, dove gli può interessare la mia laurea e il mio mezzo dottorato in ingegneria informatica. Magari potrei dirgli anche che poi, se mi faranno un contratto che duri più di due mesi, cercherò casa da solo e andrò a vivere con Marta, ma non riesco a dirglielo. Non riesco a dirglielo, perché, come mi aveva detto una sera un mio amico che studiava psicologia, quando dici una cosa è come renderla vera, è come se la facessi materializzare, e allora se rispondessi a mio padre, sarebbe come farmi crollare il mondo addosso.

Il giorno che venne revocata la mia borsa di studio, per ragioni di ordine economico e nonostante apprezziamo il lavoro da Lei svolto in questi due anni, così recitava la lettera di comunicazione, il giorno che venne revocata la borsa di studio con cui venivo pagato, andai subito nell’ufficio del preside di facoltà, che mi accolse preparato. La segretaria mi fece entrare senza attese e lui era seduto dietro la scrivania e mi disse accomodati, facendo il segno con la mano. Mi disse anche che, prima di lasciarmi parlare, aveva bisogno di dirmi che era estremamente dispiaciuto per ciò che era accaduto e che non avrebbe mai voluto una simile situazione. Aggiunse che purtroppo è un periodo di crisi e che tutti avremmo dovuto fare dei grossi sacrifici, tirare la cinghia, disse, ma che purtroppo erano cose che non dipendevano da lui. Forse, aggiunse ancora, forse ha proprio ragione il mio amico Pierluigi Celli, con cui eravamo a scuola assieme alle superiori, a dire che i giovani devono andare all’estero. Io lo lasciai parlare e, lì per lì, gli risposi che capivo, che era ovvio che non fosse colpa sua, ci mancherebbe, gli dissi, era solo che… poi non finii la frase, mi alzai, gli strinsi la mano e mi girai verso la porta. Nei cinque metri di tragitto verso l’uscita, pensai che quelle che aveva detto erano tutte cazzate, che lui aveva un potere decisionale e che, in fin dei conti, questo stato di cose, questo stato di cose dove i genitori negano il futuro dei figli, l’aveva deciso lui, non io. Mentre abbassavo la maniglia, pensai anche che quel Celli era proprio stronzo, perché è troppo comoda avere una posizione di potere e poi dire al figlio, vattene dall’Italia. Troppo comoda non assumersi mai le proprie responsabilità, all’interno di una situazione dove si comanda. Troppo comoda lavarsi la coscienza così, cazzo, pensai, mentre chiudevo la porta dietro le mie spalle.

Per riportare tutta la mia roba a casa abbiamo affittato un furgone. Mia madre è seduta in mezzo, fra mio padre che guida, e me, che guardo fuori dal finestrino. Dopo aver chiuso la porta di casa, caricato le ultime due valigie e consegnate le chiavi alla portinaia, che mi ha salutato dicendomi che le spiaceva tantissimo che me ne andassi, non ho più parlato. Dopo aver sorriso alla portinaia, non ho più detto una parola.

Una volta in autostrada, ho acceso la radio, che rompesse la monotonia del solo rumore del motore che si sentiva in macchina. Il dj parla delle settimane bianche prenotate per il mese di dicembre, per le vicine vacanze di Natale. A riguardo, intervista il direttore di un importante albergo di Cortina.

Devo dire che nonostante la crisi ci sono moltissime prenotazioni, dice con voce composta e accomodante, alla fine una settimana di lusso e svago non se la nega nessuno.

Mio padre continua a fissare la strada, come ipnotizzato. Scuote solo leggermente la testa, poi mi lancia un veloce sguardo e abbozza sulle labbra un sorriso amaro.

Alessandro Busi