Tommaso Salvatori è un nome che ai più non dirà nulla.
Forse Tommy Brambilla suonerà più familiare: era uno dei protagonisti della sit-com Fininvest I quattro del quarto piano. Interpretava il figlio più piccolo della famiglia Brambilla, un vero peperino! Verso la metà degli anni ottanta ebbe un gran successo con lo spot delle spinacine “Vorticelle”. Era il bimbo che non riusciva a dire “Vorticelle, che bontà!”, prima diceva “Torvicelle”, poi “Votricelle”. Ora Tommaso ha quarant’anni, è alto 1 e 60, pesa 110 kg e ha ancora la stessa voce di quando aveva cinque anni.
Tommaso vive di rendita e sta tutto il giorno in vestaglia al buio senza mai aprire le finestre a rivedere vecchie puntate de “I quattro del quarto piano” abbuffandosi di Vorticelle. Passa le sue giornate su facebook a chattare con ragazzini e masturbarsi in web cam con la pancia appiccicosa di sperma e briciole di Vorticelle.
E’ un gran frequentatore di siti sulla Teoria della Cospirazione. È convinto che la setta dei Rosacroce stia dietro ogni mistero italiano rimasto insoluto.
Dalla morte di Pantani al disastro della Moby Prince, dalla strage della scuola di Brindisi all’incidente della Concordia, dal delitto di Cogne al fallimento dell’azienda produttrice delle Vorticelle, dalla scomparsa di Emanuela Orlandi alla sospensione della serie “I quattro del quarto piano”. Ogni settimana spedisce la stessa mail al Corriere della Sera in cui tra le altre cose sostiene di essere in possesso dei capitoli mancanti di Petrolio di Pasolini. Il titolo della mail è eloquente: “La pagherete”.
Le Vorticelle non sono più in commercio da circa vent’anni ma lui ha ancora le scorte omaggio.
Ha calcolato che mangiandone nove al giorno glie ne rimangono ancora per dieci giorni. E proprio tra dieci giorni, a scorte esaurite, ha deciso che si ucciderà. Leggi il resto dell’articolo
AC:Guido Catalano. È nato prima il nome o prima il cognome? Cosa ricordi dei tuoi primissimi giorni di vita? E del tuo primo reading? GC: Del mio primo reading non ricordo quasi nulla. Ero sbronzo duro. Ai tempi – una dozzina di anni fa – per combattere l’ansia da prestazione bevevo come un cammello. Immagino che la resa di quei reading non fosse un granché. Ora bevo ancora come un cammello ma reggo un casino. Appena nato ho avuto un’ernia. Non lo ricordo ma ho uno sbrego nell’inguine che me lo rammenta. AC:Ti rendi conto che tu per lavoro principale hai davanti alla bocca un qualcosa di nero e duro. In cosa si differenzia da te Moana Pozzi, oltre alla barba e al fatto che lei Leggi il resto dell’articolo
Fatevi suonare in testa una qualsiasi melodia, un jingle stupidino, cinque o sei note orecchiabili sotto le parole “Spazio sociale”. Magari la musichetta la si potrebbe affidare a quelli di questo sito oppure la si fa in casa con amici, ma sarebbe meno professionale. Fatto è che l’idea che ho è questa: perché non ideare, progettare, creare, costruire ed investire in una catena di fast-food in stile centro sociale? Voi direte: Ma già ci sono i centri sociali?! sì, va bene, ma quelli sono per i punkabbestia, per quelli che si portano il cane appresso e si fanno le canne, per i rimastini cronici, per i fighetti alternativi, per gli artistoidi pseudo intellettuali, per gli attivisti politici, per quelli che sono veramente persone da centro sociale.
Io parlo di centri sociali per famiglie, merchandising in stile Burger King, Spizzico, KFC e McDonald’s. Una catena di ristorazione in stile centro sociale occupato, ricreato ad hoc, dove anche la madre di famiglia non ha paura di entrare e portarci i propri figli. Dove il nonnino ci porta il nipotino a mangiarsi il gelatino. Locali standard con scritte standard intagliate su tavoli in legno standard, con sedie, porte, finestre e colori standard, costruiti appositamente al fine di ricreare l’idea del “centro sociale occupato”, ma che non spaventi. Come se il tutto fosse un set cinematografico, un parco giochi ricreativo dove poter mangiare schifezze, un Gardaland dell’impegno politico mangereccio.
Chi compra il pacchetto e vorrà aprire l’attività dovrà stare alle regole imposte dall’ideatore, cioè alle mie regole. Eccole.
Ho una cugina che collabora con Ferrè e le divise da punkabbestia dei commessi le facciamo fare a lui. Tutte uguali, dieci modelli per ristorante, capi estivi ed invernali, gonne, pantaloni, felpe e magliette di cotone lerce ad hoc. Voi direte: «Fai prima a comprare al mercatino dell’usato,» e io vi rispondo che allora non ci avete capito un cazzo! Non andrebbe bene, non si percepirebbe la finzione del posto. Sarà anche grazie ai costumi disegnati appositamente che si potranno ottenere gli effetti desiderati, ossia: trascuratezza e degrado sociale ma contemporaneamente accoglienza e sicurezza.
I lavoratori per contratto dovranno portare almeno tre orecchini ed avere un tatuaggio visibile sul corpo. Ferie, indennizzi, tredicesime e tutto il resto: ‘fanculo. I contratti saranno a sei mesi e se sarai bravo e farai squadra te lo rinnoveremo e te ne faremo uno da dodici mesi, dove ci sarà scritto che ti pagheremo anche in caso di fallimento dell’azienda, non si sa come, ma questo è un dettaglio. Come nelle compagnie teatrali di De Filippo, tutti dovranno saper fare tutto, pulire i cessi e fare i panini, stare alla cassa e friggere le patatine. Per norma fissa si laverà il pavimento solo due volte al giorno, anche se cadrà merda per terra, ‘sti cavoli. Gli orari di pulizia del pavimento saranno alle ore 12:00 e alle ore 18:30, giusto per dare quel senso di sporcizia cadenzato. Stop. Per i cessi invece la pulizia sarà obbligatoria ogni quaranta minuti. I bagni dovranno essere sempre splendenti e profumati. La maggior affluenza per le famiglie al completo sarà naturalmente intorno alle 18:30, quando il pavimento sarà meno lercio, i figli avranno finito i compiti ed inizieranno ad avere i primi languori allo stomaco per via della fame. E quale spuntino migliore se non un bel panino da noi? O un gustoso trancio di pizza con delle patatine?
Come menù, niente Coca-cola e Pepsi, solo Freeway Cola, aranciata marca discount, vino rosso e bianco che però venderemo con moderazione, due bottiglie massimo a tavolata. Siamo pur sempre un posto per famiglie. La gente spenderà meno e noi guadagneremo di più. Piatti, bicchieri e posate saranno di plastica. Sticavoli dell’ambiente, qui si parla di soldi e di profitto. Ed il profitto con la tutela dell’ambiente sono due cose incompatibili, sono come l’acqua e la sabbia magica. Menù a base di cous cous, cotolette, pollo, patate al forno, salsicce, uova sode e frittatine multristrato ai gusti vari, pasticci di pasta avanzata dal giorno prima in offerta speciale, robe così, che sembrano fatte in casa ma che invece saranno sempre uguali. Porzioni perfette standard. Come le zeppole e le finte pizzette napoletane di Rosso Pomodoro. Fateci caso: sono tutte uguali, forme perfette. Se andate ai borghi di Napoli, le paste cresciute, per definizione, sono una diversa dall’altra, perché fatte a mano, non con un macchinario che dosa porzioni ed ingredienti. Naturalmente non mancheranno dolcetti e gelati e poi, sempre nel nostro menù, ci sarà la novità delle novità: il piatto sorpresa a un euro, formato dagli avanzi del cibo degli altri clienti. Un po’ come le buste sorpresa che si vendono in edicola, noi daremo il piatto sorpresa. Con un euro potrai mangiare un bella porzione mista composta di ogni ben di dio avanzato: patate, pasta, pollo, carne da rosicchiare attorno ad un osso, fette di pane magari smozzicate (le verdure no, che quelle dopo qualche ora vanno a male e non si possono riscaldare). Insomma con un euro avrai un pasto quasi completo, così non si butterà mai nulla e di questo anti-spreco ne faremo una bandiera.
Area giochi per i bambini: ci sarà eccome! Del resto deve essere un fast-food per famiglie. Quindi: Scivoli pezzati ad arte che terminano in enormi cubi trasparenti con all’interno centinaia di palline colorate. Colori approvati per le palline: rosso 30%, viola 25%, nero 25%, verde 5%, celeste 5%, giallo, 5%, bianco 5%. Stop.
La musica del locale dovrà includere solo ed esclusivamente brani commerciali di artisti alternativi. Si potrà inserire anche un Frank Zappa ogni tanto, i Clash vanno benissimo, ben accetti Subsonica, Caparezza, Frankie Hi Nrg, Cristina Donà ma anche artisti più underground come Il teatro degli orrori, Le luci della centrale elettrica, I giardini di Mirò e poi tutte le posse italiane e la scena indipendente nostrana e mondiale, basta che però si prendano i brani più “moderati” dei cd selezionati. Tanto c’è sempre un brano d’amore, una canzone tranquilla, un pezzo “commerciale” ed orecchiabile anche in un cd di KaosOne o dei Biohazard. Ottimo naturalmente il trash italiano ed il revival anni ’80 ché quello va sempre forte, soprattutto per i bambini che ascolteranno le sigle dei cartoni animati ed i motivetti orecchiabili delle canzoncine Mediaset e RAI. Nessun riferimento esplicito a sovversioni ed uso di droghe, e vedi come si digerisce tranquilli! Il gioco è semplice: basterà selezionare i brani i cui video sono stati trasmessi in televisione o in qualche emittente radiofonica nazionale anche a tarda notte. Il cliente dovrà riconoscere il suono come familiare, anche se non lo identificherà appieno, anche se questo suono è un parente lontano che magari hanno intravisto una sola volta al funerale dello zio.
Questione scenografia. Si ingaggeranno per ogni regione i migliori writers italiani e le mura del locale saranno dipinte da loro. Pezzi standard che però cambieranno da locale a locale. Stesso pezzo ma diversa firma. Ci sarà una sorta di “concorso” dove ogni artista proporrà delle bozze, il migliore per ogni regione verrà ingaggiato per dipingere gli interni del locale. Si dovrà arrivare al punto che un ipotetico cliente di Milano che se ne va in vacanza a Roma, dovrà mettere nella sua personale lista di cosa da fare anche “visitare Spazio Sociale in via Cavour”. Si dovrà arrivare a questo. Dovrà essere una sorta di museo con ristorante.
Beh insomma, l’idea è semplice e secondo me ci si può fare un botto di soldi, alla faccia dei centri sociali occupati. Occupiamo anche noi gli spazi, riprendiamoceli, riutilizziamoli, ricicliamoli a modo nostro. E non preoccupatevi se eticamente può sembrare scorretto. È solo marketing. La vita è un’altra cosa.
Il Policlinico non è un buon posto in questa stagione. Fa caldo e l’aria condizionata dove c’è non funziona. Nelle camere si sta in sei, otto pazienti.
Il vecchio al mio fianco l’hanno ricoverato un paio di giorni prima di me, per via di un’ ulcera perforata che, a quanto pare, gli ha fatto passare un bruttissimo quarto d’ora.
Oggi è il mio giorno. Finalmente mi operano.
Il mio ventre è fatto male, così ha detto il medico. Una malformazione congenita mi porta a possedere la parte superiore dello stomaco al di sopra del diaframma anziché sotto, dove dovrebbe invece essere.
Basta con la pancia che brucia come un tizzone. Basta con i reflussi gastrici in piena notte e con i farmaci da prendere ogni giorno. Basta. Ma serve operarsi. Un bel taglio e due, tre ore di qualcosa che l’anestesia non mi farà vedere.
Oggi cominciano i mondiali di calcio. Durante la partita inaugurale, Sud Africa-Messico sarò ancora sotto ai ferri. Probabilmente sarò già abbastanza in sentimenti alla sera, per Francia-Uruguay.
Questa storia dei mondiali è proprio una botta di culo. Sai che palle, in questa corsia di ospedale a sentire le lamentele di anziani che stanno tutto il giorno a vedere Forum e altre insopportabili trasmissioni, sembrano non sentire il caldo e si ostinano a chiudere le finestre. Sono qui da due giorni e già non ne posso più.
Tre partite al giorno fanno in tutto sei ore di pura e onesta evasione sportiva. L’unico punto di contatto che possa trovarsi tra me e la geriatria che abita la mia stanza.
L’anestesista mi dice di contare fino a dieci, dopo avermi fatto un’iniezione al braccio. Arrivo a quattro e cado in un sonno senza sogni. Buio.
Luce. Mia madre, mio padre, mio fratello e Vanessa che mi guardano e mi chiamano. Capisco che mi stanno chiamando ma ci vuole un po’ prima che io riesca a rispondere. Dicono di aver parlato col chirurgo. E’ andato tutto bene, una settimana di ospedale e poi sono fuori. Mio padre dice di non preoccuparsi. Che una settimana passa in fretta e che ci sono i mondiali in televisione per distrarsi. Ha proprio ragione. Mondiali. Partite e trasmissioni sui mondiali. Moviole, commenti, pronostici. Una vera pacchia.
Sono le sei quando i miei se ne vanno. Alle sette passa la cena. Non per me. Io ho le flebo attaccate fino a domani mattina. Per fortuna non sento un gran male. Sono ancora rabbonito dall’anestesia ma ben cosciente.
Alle otto e un quarto Mauro, l’infermiere di turno, viene a cambiarmi la flebo.
Il vecchio al mio fianco gli si rivolge col fare di un nonno col nipote: “Su che canale la danno la partita della Francia? Su Raiuno?”
Mauro si fa supponente mentre maneggia con le boccette della flebo: “A sor Alvà ma che cazzo state a di’? Ma non lo sapete che la Rai trasmette solo una partita al giorno? Oggi hanno mandato quella del Sud Africa no? Le altre stanno su Sky. Se so comprati i diritti.”
La delusione serpeggia senza neanche stare troppo a nascondersi. Mauro se ne va.
Il sor Alvaro si è seduto sul letto. Scuote la testa: “Mortacci loro. Manco le partite del mondiale se possono più guardà in grazia de Dio. E’ uno schifo. Dappertutto è uno schifo.”
Bestemmia il Cristo in croce e poi continua: “Non c’è pietà. Nemmeno per chi soffre, per chi sta ricoverato. Per nessuno. Non c’è pietà!”
Il vecchio addetto al telecomando fa zapping per qualche istante. Poi si ferma su un programma dove una grassona rincontra sua figlia dopo vent’anni.
La settimana, come per magia mi si prospetta d’un tratto più lunga di prima. Molto più lunga e maledettamente noiosa. Una sofferenza nella sofferenza per cui occorrerebbe molto più che pietà.
Nel punto in cui negli uffici Rai di Milano viene affrontata la questione, lui è nel bagno di un autogrill. Con tutta probabilità sta tornando nella sua Bolzano dopo una diretta di hockeyghiaccio. Un sudore freddo così non lo prendeva da anni, diciamo dalla maturità – poi risolta con la precisione e un pizzico di quell’estro limpido e quasi invisibile che tocca in sorte ai certosini. Solo che alla maturità il sudore freddo non si era trasferito allo stomaco, mutandosi da liquido a solido-gassoso come adesso.
Uscito dalla toilette con porta a soffietto, si bagna il viso e si guarda allo specchio. Si tranquillizza, è tutto in ordine, infila gli occhiali.
Giunto a casa dopo qualche ora e col cellulare ancora muto, prova a distrarsi spulciando vecchie copie della Gazzetta. Rinuncia presto. Si stende sul divano a guardare ancora un riflesso, ancora il suo, questa volta nello schermo opaco della televisione. La notizia arriva all’alba da quel collega con l’accento calabrese, dice solo: «È Civoli». Lui stringe i denti, un attimo, poi una smorfia mezzosorriso, a voce bassa: «Comunque fanculo a Cerqueti».
A quel punto torna a pensare all’hockey, ai tuffi: e un poco anche al curling.
Mi perdoneranno i seguaci della Dea Eupalla se ho deciso di occuparmi di un aspetto minore, si fa per dire, della Materia. Ma parlare di calcio è compito ingrato, peggio ancora scriverne, col rischio che si porta addosso la scrittura – rischio per la verità sempre più raro: e cioè che qualcuno possa trovar traccia del mio non voler essere epigono di Gianni Brera; e del non aver preso a pretesto il pallone per teorizzare sullo stato di salute della nostra democrazia.
Anche se, a dirla tutta, lo strano caso di Stefano Bizzotto – commentatore Rai da più di quindici anni e oggetto del mio iniziale fantasticare – potrebbe comunque dir molto di come vanno certe cose da queste parti.
Dopo la fine dell’era Bruno Pizzul (Mondiali 2002) la Nazionale italiana si è giovata di un ticket, diciamo così, quanto a commentatori: per un breve periodo Gianni Cerqueti e Stefano Bizzotto si sono alternati a far da colonna sonora agli azzurri. Una partita a testa, più o meno. Da un lato un giornalista dall’aspetto fresco, certamente di carattere e relativamente abile nel drammatizzare una telecronaca – Cerqueti; da un altro un vero cronista sportivo, nato a Bolzano e profondo conoscitore di lingua e calcio tedeschi – Bizzotto (di cui bisogna ascoltare la pronuncia del nome Bierhoff per capire).
Niente, alla fine la spunta un terzo candidato: Marco Civoli, tifoso ancora in pena in quegli anni per i disastri nerazzuri; a lui toccherà l’onore di pronunciare il celebre «Il cielo è azzurro sopra Berlino» nella vittoria finale dell’Italia ai Mondiali del 2006.
Bizzotto è uno che ama il suo lavoro, non c’è dubbio; una voce tranquilla, mai melodrammatica come si usa su Sky o Mediaset – neppure l’impressione di averci una mela in bocca come quel Gianni Bezzi della tv pubblica; esperto di tiro al volo, tiro a segno, tuffi, hockey su ghiaccio, sci, calcio (nazionali, Serie A – in special modo Udinese – ed estero), probabilmente Bizzotto adora anche il curling. Probabilmente. Ad oggi è però “solo” il commentatore della Germania: nessun rischio di figuracce quando c’è da pronunciare qualcosa tipo Schweinsteiger. Certo, potrebbe anche commentare partite dell’Arabia Saudita o dell’Honduras: è ferrato su ogni calciatore – ruolo, peso e altezza, data di nascita, numero di maglia in nazionale e nel club di provenienza; insomma, un tipo professionale, ai limiti, azzardo, della compulsività: eppure non gli è riuscita la scalata. Davanti a lui Civoli, si è detto, occhiaie da vampiro e una certa – inquietante – sintonia con Salvatore Bagni quanto a commento tecnico; ma anche lo stesso Cerqueti appare ad oggi qualche gradino più su nella classifica di gradimento dei telespettatori. Vien da pensare che sia la solita storia – chi ama e sa fare il proprio mestiere in Italia non fa molta strada. Oppure c’è dell’altro.
Nulla di apparentemente psicotico nello zelo di Bizzotto, sia chiaro. Lui stesso, quarantanove anni («ma ne dimostrava 51», citando un vecchio adagio di Via Merulana), spazzolino biondobrizzolato in testa, mascella da marine, l’idea di pulito e ordinato tra i denti, appare un uomo – prima ancora che un giornalista – normalissimo; che ai sogni preferisce il lavoro duro. C’è forse del tragico nel suo sfiorare la vetta – chi meglio di lui, del resto, avrebbe potuto urlare, in tedesco, «Il cielo è azzurro sopra Berlino»? E neppure può apparire l’oggetto dei bizzarri disegni di un dio che punisce i più meritevoli affinché possano affilare maggiormente il proprio spirito. Insomma, Stefano Bizzotto non dà l’idea del martire e neppure quella del virtuoso; sarebbe piuttosto un ottimo calciatore-operaio (Di Livio o Pessotto, per intenderci), un puntuale scrittore di gialli (facciamo legal-thriller), un candido paesaggio innevato, persino.
Ma nel bianco e nel candore si cela l’acciacco.
Nella puntualità della neve o di un ipotetico film biografico su di lui, al volto di Stefano Bizzotto potrebbe sostituirsi quello dello William H. Macy di Fargo. Con rispetto parlando, un uomo qualunque che sa fare il proprio lavoro cui però il destino, più che gli uomini, ha estorto un sogno. Il destino che si accanisce contro chi più se ne prende cura spulciando tra le biografie di vecchi calciatori tedeschi. L’approfondimento come disturbo ossessivo compulsivo. Un uomo che cammina anche in ginocchio: per seguire sport improbabili in giro per il mondo finendo per commentare solo squadre altrettanto improbabili ai Mondiali. Suggerendo formazioni ai colleghi, sollevandoli da compiti ingrati come imparare i nomi di sconosciuti difensori danesi. Aspettando infine l’ultimo bicchiere di Pizzul, assaporandone il bordo, ancora caldo di labbra; e poi…
La Repubblica, 22 agosto 2002, articolo di Marco Bracconi:
«Già, la finale mondiale. E se l’Italia ci arriva, toccherà a lui o a Cerqueti? Niente da fare, non ci casca, è troppo contento per mettere qualcosa di traverso alla felicità. “Per un fatto di anzianità dovrebbe toccare a Gianni, ma…” Ma? Stefano Bizzotto ride, poi sorride e quasi si intimidisce: “I prossimi Mondiali sono in Germania, e io so alla perfezione il tedesco…”»
Auf Wiedersehen, Doktor Bizzotto.
[sta nell’angolo; di un’osteria o di un locale che un tempo doveva esser molto frequentato, non è importante; importante è chiedersi cosa beve; bere: bevono tutti, prima o poi; cosa berrà mai lui? tocai: no, quello no, piaceva tanto a pizzul, chissà quanto ne avrà bevuto la sera in cui l’ha chiamato per avere la formazione della germania est; quanta emozione sprecata per nulla, allora, come questo sudore; dicevamo: qualcosa di fresco: mojito; ma no: sa bene che i brasiliani lo bevono durante i pasti e la cosa gli mette lo stomaco sottosopra; una birra, sì, ma come? chiara? rossa? una birra è banale; più probabile un bicchiere d’acqua, non gli passa il sudore sulla fronte, si è fermato lì, è caldo e freddo e sta solo in fronte; allora prova con una cosa che gli riesce da un po’, il locale è buio e viene meglio così: pensa a un altro abbandono, quando ne hai uno che ti blocca la digestione allora ne pensi un altro, lo immagini, lo porti lì davanti a te trascinandolo per i capelli, lo rivivi, ne hai un bisogno; e in fondo sì, è d’abbandono che si tratta, lui quella maglia l’ha sfiorata, lui e quel gianni, insieme, solo che a pensarci bene lui è mezzo crucco e dovrebbe fregarsene; ma comunque; un altro abbandono, non ha importanza che sia stato più o meno intenso, l’importante è che sia altro, lontano nel tempo, ma efficace; gli viene in mente lo specchio; lo specchio e quella ragazza, anni prima; lo specchio su cui quella ragazza gli ha lasciato un saluto, al rossetto, una nottataccia avevano passato; ma non ricorda cosa c’era, sullo specchio, tutto quel rosso; e dove – olanda? francia? bolzano? – e non ricorda cosa; e non ricorda dove; e gli gira la testa; cosa sta bevendo?]
Lo dicono tutti, fa figo e così quest’anno lo dico anch’io. Il bello è che ne sono obbligatoriamente convinto. Ne son liberamente sicuro quando scendono in campo Slovenia e Algeria, non me ne frega un cazzo. Ne ho la certezza geografica quando giocano Cile-Honduras, non so nemmeno dove sta l’Honduras. Vacillo quando gioca il Camerun, quegli africani lì mi son sempre stati simpatici.
La mia è una scelta legittima in un paese normale, solo che se sei nato in uno dove si mangia pane e calcio non ti crede nessuno. Poi siamo pure i campioni del mondo in carica, non si può non guardare il mondiale sudafricano. Il bello è che a me il calcio piace e anche parecchio. Mi piace giocarlo con gli amici, mi piace andare allo stadio e mi piace guardare le partite in tv. Ma io quest’anno i mondiali di calcio non li guardo! Non posso, ultimamente non riesco più a vedere le partite. Non le trasmettono più. Cioè le trasmettono eccome ma devi essere abbonato, avere la tessera prepagata, il decoder, l’abbonamento, il pacchetto campionato, il pacchetto champions e ovviamente quello dei mondiali 2010. Mamma Rai ha smesso di farmi da balia, ha creato il bisogno visivo, la dipendenza catodica e poi ha smesso di spacciare dirette mondiali tv come prima. Dice che non ha più la roba, che non può più fornirtela aggratis col canone, c’è la crisi. Fanculo mamma Rai, io smetto quando voglio e come voglio, non cedo ai capitalisti senza scrupoli di Sky.
Solo che disintossicarsi è dura, durissima, è quasi impossibile quando ci sono i mondiali. Allora si ricorre a mezzucci d’ogni sorta per placare la crisi. Il boccettino di metadone si chiama casa del vicino, quello che ha il megaschermo, la parabola e il decoder. Solo che non so nemmeno come si chiama il vicino e allora ricorro al classico rimedio della nonna: vado al bar. Che oggi non si chiama nemmeno più così, ha cambiato nome e si è rifatto il trucco. I bar di una volta, quelli dove mi portava il papà la domenica a comprar il gelato, sono spariti. Adesso son locali alla moda e si fan chiamare lunge, pub, birreria, bistro, pim pum pam, bang, crash, gulp, argh… e non hanno nemmeno i gelati.
In piena crisi d’astinenza mi aggiro spaesato tra sedie, tavolini e divanetti in cerca del televisore. L’uomo dietro al bancone mi invita ad accomodarmi e mi offre il menu. Frittatona di cipolle e birra gelata non sono nemmeno elencate. Consumo qualcosa per gentilezza. Nessun volto amico, nessuna parrucca azzurra, nessun tricolore, nessun tric e trac, nessuna vuvuzela. Mi sento un alieno con la mia maglietta azzurra. Tutto è asettico e preciso allo sfinimento. Il piacere del rutto libero è vietato per legge. Per uno che non si è mai seduto a veder una partita in tv su un divano che non fosse quello di casa l’impatto è devastante. Poi quando l’arbitro fischia l’inizio e mi accorgo che ci sono solo io in quel tempio dell’aperitivo mi viene una malinconia addosso. Io e l’uomo dietro al bancone che mi fissa aspettando un’altra ordinazione. Sono le quattro del pomeriggio e nessuno fa l’aperitivo alle quattro di giovedì pomeriggio, la gente lavora alle quattro di un pomeriggio infrasettimanale. Io ho preso pure mezza giornata di ferie per vedere l’Italia. Esco a gambe levate prima che la tristezza mi rovini la partita. Mi dimentico anche di pagare il cocktail aromatizzato alla pesca e le patatine fritte light. Che figure di merda, inseguito dall’uomo del bancone che poi è pure grosso. Mi viene quasi da piangere. A questo punto crollo e corro a tutta velocità verso il primo megastore dell’elettronica che mi capita a tiro. Spolvero la carta di credito e con sommo sollievo mi regalo il goldbox. Fanculo il metadone, qui si ritorna alla purezza della sostanza. Adesso posso finalmente godermi i mondiali in salotto. Faccio pure lo splendido e invito tutti gli amici a vedere le partite da me, tutte mica solo quelle dell’Italia. Cazzo con quello che mi è costato vedere ventidue ragazzotti in mutande me le guardo proprio tutte, anche Azerbaigiàn-Papua Nuova Guinea!
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