Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi

Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi (Mondadori, 2010)

di Alessandro Piperno

 

“Persecuzione” è una rete di filo spinato che cade addosso al lettore e che non riesce ad essere scrollata via. Anzi, più si tenta di districarsi da questa trappola letteraria e più il filo spinato stringe, ferisce, apre la carne.

“Persecuzione” non è un titolo, non è il Titolo di questo romanzo, ma la protagonista assoluta di tutta la storia.

 

Attraverso le voci dei protagonisti, dei loro pensieri in piena che travolgono ogni argine, inondando la realtà, sembra sempre di leggere di qualcosa o qualcuno di cui non si parla, sembra sempre aleggiare uno spettro fatto di memorie autoriali, di fantasmi ricoperti di parole che prendono forma sulla pagina. Sembra di leggere in filigrana, in una chiave molto superficiale, aspetti di Piperno, le paure reali che durante le sue interviste apparivano soltanto in merito al ritardo della sua nuova fatica letteraria. Ma questo tipo di sensazione dopo un po’ svanisce, ricostituendosi in maniera più opprimente e sicuramente più adesa al titolo/protagonista stesso. Alla Persecuzione. Ritorna a prendersi l’inchiostro e a farne sicario contro i nostri pensieri. A un certo punto si sublima anche l’autore e si entra completamente nello stato di angoscia che soltanto il titolo può imporre.

Ma di chi, da cosa sì è perseguitati? Bisogna cominciare dall’inizio.

La storia è ambientata a Roma, in una capitale di anni fa, forse per molti di millenni, quella del 1986, in una famiglia normale, anche se qui la normalità ricorda quella dei romanzi statunitensi che devastano l’american dream, dove il dottore Leo Pontecorvo è il padre-Dio per prole e moglie, amici e colleghi, conoscenti e vicini. Protagonista indiscusso (così pare) della storia.

Un uomo che brucia le tappe, un oncologo di fama, un docente attento, un collaboratore del Corriere della Sera, cinquantenne, ricco, avvenente, ebreo. Adoratori i due figli maschi, che vedono il padre straordinario poggiare la sua mano protettiva sui loro capi che guardano disordinatamente al futuro. E poi Rachel, la moglie, l’ex studentessa innamoratasi del suo docente, la donna che soddisfa i piccoli capricci del consorte, che mantiene uno status quo fatto di amore indiscutibile e profuso, la ragazza ebrea dei quartieri bassi tanto osteggiata dalla suocera benestante al tempo del matrimonio.

Su questo quadro arriva la mano di un deturpatore e il coltello usato per squarciare la tela è un’accusa di molestie sessuali al professor Pontecorvo ai danni della fidanzata dodicenne di suo figlio.

È qui che la tela non regge più e il taglio si fa più profondo, incisivo, si dilata e svela il vaso di Pandora che del coperchio non ne può più, svela l’intima rabbia di Rachel nei confronti del marito (già peraltro accusato di truffa), dei suoi amici, dei suoi modi infantili di (non) affrontare la realtà, svela il narcisismo parossistico di Leo, la sua incapacità di allontanarsi dal bambino ebreo viziato che era e tutti i suoi razzismi (anche nei riguardi della moglie, ebrea di piazza, di bassofondo), le sue paure. E comincia la Persecuzione, della moglie, dalla moglie, di Leo, da Leo… figli, amici, inflitta e auto inflitta, fino a prendere un ruolo concreto nei gangli della storia che in sé racchiude come un’ implosione capace di aprire una voragine famelica in chi legge.

Il protagonista assoluto è Leo? Così pare, si diceva, perché tutto il flusso di coscienza a cui assistiamo guidati dalla voce di chi la famiglia Pontecorvo l’ha conosciuta, e che fagocita anche quello della moglie, sembra essere un Titano che lascia le sue impronte su ogni pagina, divenendo, ripetiamo, primo attore. Forse nel lato buio del palco.

Nel successivo libro, finale del dittico che Alessandro Piperno aveva in mente, si può sapere cosa accadrà, come tutto andrà.

Un romanzo eccelso che non segna un ritorno ma sicuramente un nuovo inizio.

 

Alex Pietrogiacomi

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Precari all’erta! – Me ne vado da quest’Italia…

Ecco che anche il Ghelli si mette a scrivere di vacanze estive e pettegolezzi annessi, penserete voi, allo stesso modo di tutti i tg nostrani, che soprattutto di questi tempi riempiono mezzo telegiornale di notizie utili solo a non parlare d’altro.

E invece vi sbagliate, perché voglio qui riprendere un’intervista rilasciata da Francesco Bianconi, cantante dei Baustelle, e che rilancia il tema dell’esilio volontario, già cantato nella nota Mamma Roma addio del poeta Remo Remotti.

Quanti di noi non c’avranno pensato almeno una volta a mandare a quel paese il bel paese, che di tanti sforzi sembra non curarsi affatto, che della cultura guarda solo il tornaconto economico e il lato spettacolare, che parla sempre dei soliti noti, che si tratti di cinema, musica o letteratura? Io ci ho pensato tante volte, e a volte ancora ci penso, ma ciò che puntualmente mi fotte è uno sorta di malsana testardaggine che m’impedisce di arrendermi all’idea che questo paese non lo si possa cambiare. A pensarla così c’è da ingoiare tanti bocconi amari, da farsi un fegato grosso come un cocomero insomma, ma non va per questo commesso l’errore di considerarsi dei martiri. In fondo, chi l’ha detto che le persone abbiano bisogno dell’arte, della cultura o del pensiero degli intellettuali per vivere felici e contenti? Spetta semmai agli artisti e agli intellettuali il compito di far sentire questa necessità, e l’unico modo per farlo è il duro lavoro, l’ostinazione di una vita, la voglia di votare il proprio sé all’idea utopistica di una comunità che possa cambiare anche attraverso il proprio fare.

Con questo non voglio dire che la scelta di andarsene via sia in sé più facile o più comoda, ma la trovo una scelta pericolosa per il futuro di chi ci succederà, perché un domani potrebbe sempre peggiorare anche il nuovo posto che avremo trovato, e poi tutti gli altri, finché non ve ne sarà più neanche uno. Quello che penso, e che ritrovo in qualche modo rappresentato dal progetto Scrittori Precari, è che oggi sia necessario più che mai ripensare i modi della partecipazione – a cominciare dalle possibilità che ci offre la rete – e, insieme a questi, i modi di sentirsi riconosciuti.

Io non mi riconosco in quest’Italia di nani e ballerine, di truffatori, di corrotti, di puttanieri, di razzisti, di analfabeti, ma proprio per questo non me ne voglio andare, anche se ci sono tanti posti migliori, oggi, dove poter vivere.

È una forma di rispetto verso chi ci ha preceduto che mi costringe a resistere, a non adeguarmi, ma se un giorno dovessi rendermi conto di parlare al vento, allora quello sarebbe il giorno in cui prenderei le mie cose e me ne andrei.

Oppure no, perché magari ci sarà da ascoltare il pensiero di chi è rimasto, che avrà senz’altro da dire cose più intelligenti del sottoscritto.

Ecco perché vi chiedo di non andarvene.

Simone Ghelli

Precari all’erta! – Il buon vecchio caro proibizionismo

Il buon vecchio caro proibizionismo.
Di tanto in tanto ritorna, soprattutto in tempo di crisi, c’è poco da fare. La storia c’insegna che il proibizionismo non è un rimedio, ma pare funzioni ancor oggi parecchio per tener buono il popolino, soprattutto quando avvezzo a delegare ogni decisione ai propri governanti e a non controllarne l’effettivo operato (e in questo il nostro paese di evasori è senz’altro campione eccelso).
Con la nuova sensazionale campagna mediatica contro i minorenni alcolizzati, sembra che i nostri politici, e con essi le loro televisioni e giornali annessi, si siano improvvisamente accorti che i nostri ragazzi e le nostre ragazze non sono proprio casa e chiesa come si pensava (e voglio ben dire, visti i papponi che circolano sulle varie copertine patinate per gossippari).
I giovani si ubriacano, si drogano, sono senza valori!, ma la Milano da bere offre adesso il buon esempio, e dietro di lei già altri comuni si accodano: divieto assoluto di somministrare alcolici ai minori di sedici anni.
Dopo anni di menefreghismo, in un paese per vecchi come il nostro, tutti sembrano improvvisamente interessarsi alle giovani generazioni, preoccuparsi per il loro futuro. Inutile pretendere un’analisi delle cause, parlare ad esempio del vuoto culturale che come un crepaccio si è aperto e ci ha ingoiati in tanti nel bel paese. Improduttivo ragionare sul modello imprenditoriale che sembra prevalere ovunque, o del becero razzismo che ormai domina le più disparate rivendicazioni locali. Attendiamo fiduciosi che arrivi il vegliardo di turno, magari qualche luminare del cervello, a dirci che i giovani d’oggi son peggio di quelli di ieri. Tanto, se proprio bisogna affidarsi ai luoghi comuni, è meglio non risparmiarsi, e allora ben vengano le interviste agli adolescenti strafatti fuori dei locali (perché se certi filmati ci scandalizzano su youtube, non altrettanto vale per la televisione), o magari qualche servizio su film o videogiochi rei di aver dato il cattivo esempio. Il sottoscritto, ad esempio, ha visto tanti di quegli horror da rischiare di svegliarsi un bel giorno con i canini grandi come zanne, o con la malsana idea di andare in giro munito di una collezione di coltelli da macellaio, chi lo può sapere…

Io però non vi consiglio di seguire il mio esempio, perché a leggere tanti libri e a vedere tanti film si produce e si consuma poco, e magari avanza pure il tempo per un buon bicchiere di vino. Se proprio vi dovete scaricare, cari i miei giovincelli, la pubblica opinione consiglia invece le ronde che stanno istituendo un po’ ovunque e, udite udite, ci sarà presto posto anche per voi, perché corre voce che l’età per potersi arruolare verrà abbassata a 18 anni . Insomma, rimettetevi in forma, e che caspita! Volete mettere la sana ginnastica di una volta anziché il fegato appesantito e la mente obnubilata?

Simone Ghelli