Frammenti d’identità

Cercava di fuggire da tutto, inutilmente. Correva scalzo cercando una via d’uscita, una fottutissima porta bianca da aprire, sfondare, da chiudere alle spalle per poi riprendere a volare. Non c’era nessuna porta, nessun nascondiglio, solo due pareti strette ed oleose, dritte, senza un inizio e una fine. Un’eterna strada ai confini di qualsiasi realtà.

Inerme davanti alla sua pazzia lasciò la fuga per accendersi una sigaretta e alzarsi dal divano. La puzza di caffè bruciato e di plastica fusa era diventata insostenibile. In cucina il metallo della macchinetta era diventato incandescente, il caffè era sparso sul gas e l’impugnatura era completamente squagliata. Una ragnatela informe. Appena si avvicinò, la macchinetta scoppiò sfigurandogli il viso. Cadde a terra urlando, come non faceva da tempo, nella sua apatica staticità.

Meglio l’inesistente porta bianca? L’attimo di quella che è comunemente detta lucidità – il contatto con la realtà più condivisa e considerata unica – l’ha definitivamente condannato alla convivenza di quel nuovo essere che non riusciva a riconoscere nello specchio. Dall’altra parte della porta ora c’era un nuovo individuo che cercava la stessa uscita per entrare, tornare indietro.

Quell’essere irriconoscibile che si affacciava allo specchio aveva trovato il passaggio per un brevissimo attimo. Era passato dall’altra parte e ora aveva perduto di nuovo la via. Di nuovo immerso in un rettilineo asettico e spersonalizzante. Di nuovo sul divano, con un’altra sigaretta, identica a quella di prima, ma dal sapore più amaro, le gambe allungate, attratte dal tavolino basso e colmo delle inutilità cresciute nell’ultimo mese, gli occhi rivolti verso il nulla, di fronte la tv accesa su un canale morto. Un continuo fruscio che accompagnava lo scorrere di minuti, ore, trasformandosi in una soffice nenia cullante. La ninna nanna della pazzia.

Lo stato semicatatonico portato a tempo da quel metronomo ipnotico fatto di frequenze lo riportò nel suo corridoio bianco. La corsa continuava estenuante. Le gocce di sudore scendevano dalla fronte sugli occhi annebbiando la vista già indebolita dall’unico colore presente, il bianco che creava un’illusione di fluidità.

Nessuna psicologia delle forme, ma dell’assenza di qualsiasi modello. Un mondo senza scelte, senza opportunità, se non quella di cercare inutilmente qualcosa di diverso, in cerca di quella macchia di differenza che a volte è dispregiata, cancellata, in nome dell’unica e giusta uniformità. Un a-modello in cui riconoscersi, un cerchio che ricopre un’area assente da riempire con alcun idea.

L’adrenalina statica non riusciva a smuoverlo. L’unico risultato era la mano tremante. La tensione si accumulava, lo scarico attraverso i piedi e il pavimento era minimo. I suoi occhi iniziarono ad irradiare energia. Un’energia luminosa che striò d’oro la lunga strada bianca, immettendo una nuova percezione, forse una via d’uscita. Dritto davanti a lui, più in la, verso la finestra aperta, verso il balcone scoperto, giù, dritto verso il marciapiede da poco asfaltato.

Daniele Vergni

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Occhi in la minore

“Quanto ci vuole per capire una donna? Alcuni risponderebbero minuti, altri invece vi parlerebbero di anni trascorsi dietro labbra serrate o bocche ben spalancate.

Il guaio, e forse la banalità, è che non si arriva mai a capire davvero una donna.

Lasciano intravedere qualcosa, una parte della loro femminilità nascosta da seni, pelle, sesso. Dietro il paravento dei sensi e dei sentimenti c’è un’ombra che ci fa solo impazzire nell’illusione di una percezione e di una comprensione che in realtà è viziata, indotta e pilotata dai begli occhi che abbiamo di fronte.”

Tutto questo lo pensava e lo annotava mentre il caldo estivo pesava sul suo rhum e una bossanova si adagiava lenta nella stanzaccia dell’albergo affittato da due settimane.

In fondo non si può sprecare troppo tempo (o troppi anni, fate voi) alla ricerca della pietra filosofale della felicità maschile, della pace egualitaria tra i figli di Marte e le figlie di Venere.

Il rhum scivolava dietro i piccoli cohiba accesi di seguito come candeline a festeggiare il compleanno del tormento del cuore.

Tirò indietro la testa e guardò un po’ fuori in cerca di una frescura che potesse sollevarlo dal compito che aveva “ereditato” dall’ispido genitore che in quel giorno fatto di notte dopo averlo attaccato al muro gli aveva gridato sul naso: “Quando caprai le donne sarai davvero felice piccolo stronzetto….”

Passò una mano tra i capelli segosi e crespi che si arrotolavano attorno alla matita come un serpente sonnolento che cerca la pace del sole.

“Capire le donne. Amandole. Odiandole. Ignorandole. Capire le donne. Sembra facile.

“La prima volta che affondai nella sabbia umida di quelle lande calde fu una perdizione che credevo poter condividere per tutta una vita, e invece fu solo un attimo che durò qualche mese. Perché poi ci vuole la dolcezza, la pazienza, la dedizione e allora ero giovane per queste parole che sapevano di pretenziose catene legate per esasperare .

Arrivò poi il momento illuminante del sacro vincolo del sentimento in cui tutto è libertà e il puro fuoco non brucia più ma purifica dall’orgoglio, dalle menzogne, dall’io egocentrico che fa da direttore nell’albergo del nostro cuore.

Ma come si dice ‹le sorprese non finiscono mai› ed ecco che le mani che si sono sciolte vengono ripiegate verso il proprio petto. Perché l’amore incondizionato è un fantasma che arriva a mezzanotte con il gong del pendolo a ricordarci tutte le nostre paure”

Schiariva il giorno fino a sbiadire nella frescura del buio portando dal mare l’odore di sale e vaniglia, sudore e birra, speranze e beffe.

Il rhum schiarisce la gola dai pensieri morti dietro la lingua e li fa diventare sputo d’inchiostro blu, macchie che somigliano a parole.

Girò pagina.

“Cosa ci si deve inventare quando amore e inesperienza falliscono?”

Aprì dolcemente le gambe a cercare una risposta in un gesto di antica ribellione e docile appagamento.

Si trattenne per scrivere ancora un po’.

“Ci vuole il sesso. Puro. Estatico. Senza condizione. Il lasciarsi prendere dalle pulsioni e il prendere per i fianchi le passioni.

Ma poi arriva la noia. La noia è la vera riappacificazione in una coppia.

Ognuno rientra come una mollusco nel guscio e guarda l’altro dall’ombra del suo antro”.

“Cosa ci vuole per capire le donne?”

“Eppure ne ho avute, ne ho conosciute, ne ho bevuto parole, segreti, bugie, lacrime, sorrisi e trasgressioni nei miei viaggi, nel mio volo verso loro. Ma niente”

Il sudore iniziava a imperlare le labbra madide di preoccupazione e affannosa ricerca. La porta fece da palcoscenico al tip tap delle grosse nocche nere che danzavano sul legno chiaro.

“Anche oggi non ce la faccio a continuare”

Un gesto rapido per risvegliare il serpente raggomitolato, uno straccio sul letto e due, tre, quattro linee veloci.

La porta si apre e il sorriso giallognolo saluta pieno di aspettative. Docile e feroce. Le mani sono grandi e spingono sul letto, aprono, bagnano e aiutano l’attrezzo a lavorare meglio, a trovare quella naturale falsità

“Quando capirai le donne sarai davvero felice piccolo stronzetto…. Fino ad allora sarai solo un pervertito con la parrucca che gioca a fare l’amichetta di papà”.

E’ l’ultimo pensiero prima che una lacrima bagni il letto sporco di settimane.

Alex Pietrogiacomi