Una ragazza su un treno, un uomo con una missione, entrambi stranieri in una Torino umida, notturna, scarna. Così inizia questa piccola opera di Luca Rinarelli, già autore di volumi dedicati alla fotografia ed esordiente nel noir.
Pur mantenendo alcune delle caratteristiche formali del genere, In perfetto orario si configura come un romanzo della disperazione. Non vi è un solo personaggio che animi questa storia che non sia l’immagine della miseria, vittima di catastrofi legate nei modi più svariati al tema del lavoro, dal padre che perde la figlia bambina, alla ragazza russa scivolata nell’abuso, alla giovane votata al precariato economico ed esistenziale. Tutti aspirano a una forma di redenzione, e l’omicidio sembrerebbe il mezzo per la realizzazione di un riscatto sociale, senonché l’impossibilità del riscatto lo trasforma in atto di pura rivalsa sull’umano. Per fare un noir servirebbe la suspense, qualcosa che mantenga appesi al finale. Qui si rimane invece incollati all’ambientazione e a un vuoto post-industriale, in cui il killer non corrisponde al personaggio tipico se non per alcuni tratti derivati dalla lunga e nobile tradizione del genere. In realtà, anche lui tenta il suo riscatto, come gli immigrati afflitti da una vita senza radici né appartenenza, persi nella Torino reduce da una crisi industriale senza precedenti. Immigrati che giungono da varie parti di Europa per rimanere in questo luogo inospitale attratti da null’altro se non la pura sopravvivenza. Accanto a loro, giovani italiani le cui storie si intersecano con quelle degli immigrati in rotte casuali o determinate dalla necessità. Poco differenzia la ventenne torinese che stringe una relazione con Werner dalla prostituta russa sottratta a forza dal paese natale sul Volga e trasferita in una città a lei aliena. Solitudine, disgregazione, povertà, precariato estremo costituiscono i comuni denominatori delle vite che popolano questo piccolo romanzo anticapitalista. La lingua breve ricalca le strutture metalliche della periferia industriale e le pareti spoglie delle associazioni di supporto ai senza fissa dimora, scenari del romanzo insieme a piazze notturne vuote eccetto per bar affollati, luoghi di incontri causali, in una poetica dell’anonimato in cui a stento prendono vita dialoghi scarni, al netto di qualsiasi eccedenza di umano, fra i cristi spogli che Rinarelli ritrae trafitti dalla vita. Priva di elementi consolatori, questa piccola opera è una forte denuncia di una condizione umana intollerabile, e un auspicabile fire-starter di una narrativa dell’esclusione sociale di cui da tempo si avverte la mancanza.
Il finale è accattivante, anche se la raccomandazione è di non soffermarsi unicamente sull’intreccio e lasciarsi piuttosto sprofondare nell’atmosfera malinconica e notturna, veracemente padana, di un’Italia che non lascia più spazio all’ottimismo della volontà.
“Via Calabria 75, un condominio dove il novanta per cento delle famiglie ha il capo che se la spassa nel siderurgico. Dal primo al settimo piano siamo tutti incrostazioni del grande tubo madre e la nostra pelle profuma del ferro zecchino delle acciaierie. Via Calabria 75 dunque, un pezzo di cemento con il tetto incatramato ficcato tra un parcheggio asfaltato e un incrocio dove le ambulanze vanno e vengono a tutte le ore del giorno e della notte”.
Quando si giunge a Taranto quello che ci colpisce – esattamente come uno schiaffo in pieno viso – è il paesaggio. Già dall’autostrada, per chi ci giunge da Bari, l’Ilva è chiaramente visibile: l’impianto siderurgico più grande d’Europa, quello che avrebbe dovuto portare il Meridione verso il progresso industriale, verso le magnifiche sorti e progressive. Che ci ha regalato l’Ilva? Qual è il prezzo che i tarantini, i pugliesi tutti, hanno dovuto pagare? Basterebbe leggere uno dei mille rapporti sul tasso di mortalità per causa di tumori in quella parte di territorio per capire esattamente quanto, in termini di sofferenze, abbiamo dovuto pagare come dazio perché lo sviluppo tanto desiderato (e chissà se poi realmente raggiunto) abbia avuto atto. Eppure ancora oggi la maggior parte dei tarantini ha un parente che lavora nell’impianto. E non solo i tarantini. Partono bus da tutta la Puglia perché giungano gli operai al lavoro.
Cosimo Argentina, tarantino trasferito in Brianza, ambienta nella sua città natale questo romanzo doloroso, lacerante. Ma sempre più necessario. Protagonista è un diciannovenne che cresce in uno dei quartieri che fornisce maggior manovalanza all’Ilva. Ci abitano quelli della “prima linea”, che trascorrono la loro vita tra l’Ilva e una birra Raffo – un must per i tarantini – bevuta in compagnia nel bar sotto casa. Sono loro i duri, quelli orgogliosi di lavorare per mantenere la famiglia. Quelli che – ad uno ad uno – dall’Ilva verranno progressivamente uccisi. Mino, il protagonista, cerca di liberarsi da un destino già scritto per lui. Si iscrive all’Università, frequenta Giurisprudenza…eppure…sembra quasi che sia quasi impossibile rompere con le proprie radici, crearsi un futuro diverso. Allo stabilimento dell’Ilva si deve ancora una volta l’ennesimo tributo di sangue, come lo si deve ad una divinità maligna e misteriosa. Non c’è nessuna redenzione possibile. Non qui ed ora. Non per i “fottuti”, per gli abitanti del “Vicolo dell’acciaio” – gente umile, con gli occhi rossi e le mani callose, lontani anni luce dallo stereotipo dell’operaio “fighetto”, tutto coca e festini.
Niente lacrime per favore. Non si deve sprecare così la sofferenza. (Hellraiser)
ovvero la seduzione nell’epoca della riproducibilità virtuale
«Sono appena tornata da Berlino e sto scrivendo un’autofiction in cui mescolo le cose vere che mi sono capitate con fatti inventati».
«Brava! Fai bene a scrivere. In questo paese c’è un bisogno viscerale di scrittrici di qualità che trattino la materia politica attraverso la metastoria, cioè che travestano di finzione l’urgente necessità di mimesi. Se poi sei un cervello in fuga che ha scelto di rientrare e ora sei precaria chissà quante osservazioni acute potrai fare sulla realtà che hai trovato qui. Questo è un paese disastrato, è fondamentale narrare la diversità, l’altro, attraverso la rappresentazione di eventi anche finzionali che però trasmettano un senso di denuncia».
«Veramente ero in Erasmus»
«Bene! È importante che si continui a parlare di Erasmus, perché è la porta che si spalanca davanti ai nostri studenti disillusi e li proietta in realtà ricche di stimoli, in paesi dove la democrazia esiste davvero, mica come qui, che siamo in balìa di Ramsete II e della sua corte di nani e ballerine, in senso letterale, eh? mica metaforico. Mi sembra fondamentale che voi giovani trasmettiate a questo paese marcescente l’idea forte che voi avete altre opportunità, che Internet vi ha liberati da vincoli secolari, che il mondo è un a clic di distanza da voi e che abbandonerete questo paese alla ricerca di nuove opportunità, di nuovi modi di fare cultura e di nuove libertà di espressione. Chi vi ferma a voi? Siete il futuro! Bravi, andate e riportate indietro la democrazia».
«Veramente è una storia d’amore».
«Ah sì? Be’, mi fa piacere che questa nuova generazione anche se così tecnologizzata sappia ancora narrare l’amore, in questo mondo così cupo, in cui le coppie si separano presto e nessuno fa più figli. Siete il futuro, è bello vedervi innamorati».
«La trama racconta di lei, che poi si chiama come me perché è un’autofiction, che si innamora di un tossico a Berlino in un centro sociale. Insieme fanno un sacco di esperienze, la più importante, che poi è l’episodio centrale del libro, è quando a lei finisce la borsa Erasmus, e i suoi non possono mandarle soldi da casa, perché è figlia di operai (questa è la parte di finzione, io sono figlia di dirigenti di azienda, ma mi pareva fico farla di estrazione proletaria, così è più credibile anche quello che segue). Insomma, lei è innamoratissima di lui, e decide di prostituirsi per procurare la droga ad entrambi. Però alla fine è una storia di redenzione».
«Splendido! Bisogna infondere fiducia nel futuro, e lasciare che anche nelle esperienze più cupe il lettore possa immaginare una via d’uscita. Insomma, bisogna essere positivi, altrimenti qui si soffoca nella depressione. E hai intenzione di pubblicarla?»
«Embè, sì, mica scrivo pe’ sticazzi. Si fatica a scrivere, eh? È un lavoro. Sono come Hemingway, mi chiudo in camera almeno quattro ore al giorno con i tappi nelle orecchie e scrivo, scrivo, scrivo. Sto studiando molto, ho ripreso in mano i classici della letteratura perché voglio scrivere una storia lunga, che venga fuori un tomo di almeno quattrocento pagine con moltissime citazioni. La mia idea sarebbe di pubblicarla con un grosso editore, perché mi hanno detto che la mia prosa è molto lirica e profonda, molto convincente, e che quello che racconto avrà vasta eco di pubblico. Sto sviluppando l’episodio centrale, quello in cui lei si prostituisce per lui, che ovviamente è finzione. Anche se devo dire che attraverso la scrittura vivo situazioni che mi mancano, che vorrei davvero avere sperimentato. Ho preso spunto da William Blake, mi ispiro alla sua lingua oscura, al suo registro visionario».
«Caspita, come ti esprimi bene! Però mi dà l’idea che sarà un romanzo molto difficile, sei sicura che qualcuno lo vorrà leggere? Hai sentito un agente letterario?»
«No, vado su facebook».
«…?»
«Lì ho incontrato la mia guida, quello che mi consiglia e a cui posso chiedere tutto. È un grande scrittore, uno con cui ci si può davvero confrontare».
«E allora com’è che sta su facebook?»
«Guarda che se non sei su facebook non sei nessuno, e poi è quello il luogo della cultura alternativa, solo lì si possono incontrare gli scrittori davvero impegnati. Quelli a cui i media non danno spazio. Ha detto che quando l’ho finito mi piazza dall’editore Supermega».
«Ma non era alternativo?»
«Oddio!! Non segui i dibattiti!! Cosa c’entra essere alternativo e pubblicare con Supermega?? … Ehm.. Cioè… Cos’è che dovevo dire? Ah, sì: è più nobile se si pubblica con un piccolo editore, però se mi intervista Mediaset mica je dico de no, non vorrai mica togliere a quei pezzenti sottoproletari che guardano il TG5 l’opportunità di sentire un po’ de cultura?»
«Scusa, ma la tua protagonista non era di estrazione proletaria?»
«Sì, vabbè, che c’entra, tanto queste cose rimangono fra noi».
«Eh… Scusa ma tornando al tipo di facebook, ti piazzerebbe da Supermega in cambio di cosa?»
«Ma di niente! Lui mi adora, sono la sua scrittrice preferita».
«Ma se non hai ancora pubblicato?!»
«Eh, ma certi esperti sono in grado di valutare il valore di uno scrittore anche da una chat o da quello che si scrive sul profilo di facebook».
«Ma sei sicura che vuoi fare un tomo strampalato di quattrocento pagine perché te l’ha detto uno su facebook? Non sarebbe meglio se cercassi di scrivere come ti viene naturale e che ti facessi consigliare da un bravo agente letterario?»
«Non capisci proprio niente! Cosa credi, che gli agenti letterari leggano i manoscritti alla cazzo? Leggono solo quello che gli segnala Tizio che sta su facebook!»
«Ah ok. Sai, è che non ho mai cercato di pubblicare niente, anzi non scrivo proprio. E Tizio lo hai mai incontrato dal vivo? Dico così, solo per sapere se esiste veramente».
«Che sospettosa. Comunque, no, è troppo preso. Ma lo sento spessissimo in chat, mi dà molta attenzione. E poi mi commenta il profilo su facebook»
«Senti, mi rendo conto che sono un po’ indietro, ma non è che questo qui non ha un cazzo da fare e ti racconta delle gran balle tanto per esercitare un po’ di seduzione? Dico così per dire, sai, non ti offendere, è che questa cosa mi ricorda vagamente Baudrillard…»
«Chi?»
«Un sociologo francese. Lo trovi su Wikipedia. Vabbè, ci si becca».
«Sì, ciao. Però iscriviti anche tu a facebook, così te lo faccio conoscere!»
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